consiglio di stato bis

Consiglio di Stato

sezione IV 

Sentenza 2 febbraio 2016, n. 399

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2215 del 2015, proposto da:

Fa. To Fa. S.r.l.;

contro

Comune di (omissis) ed altri;

nei confronti di

Ma. Ce.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II BIS n. 07585/2014, resa tra le parti, concernente intervento di demolizione e ricostruzione di edificio civile con incremento cubatura – risarcimento danni.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di (omissis) e di Regione Lazio e di Fa. Co. e di Soprintendenza Per i Beni Archeologici Per L’Etruria Meridionale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 settembre 2015 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati Pace, Occagna, Caprio, Bonaccorsi e l’Avvocato dello Stato Di Matteo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

La società Fa. to. Fa. S.r.l., proprietaria di un di un immobile sito in (omissis), via (omissis) (distinto al catasto di (omissis) al foglio (omissis), part. (omissis)sub. (omissis)), in data 5 gennaio 2010, presentava al Comune di (omissis) una DIA per la demolizione e ricostruzione di un fabbricato con ampliamento volumetrico del 35% in tale immobile, mentre in data 20 settembre 2010, dopo aver adempiuto alla richiesta di integrazione documentale avanzata dal Comune di (omissis), cominciava i lavori.

Nel novembre del 2010, il sig. Co., proprietario di un immobile in via (omissis), con pertinenza confinante con il terreno di proprietà della società Fa. to. Fa., riscontrando improvvisi fenomeni di sconnessione del pavimento del fabbricato e fessurazioni sulla struttura verticale, chiedeva l’intervento dei VV.FF e dei VV.UU., che appurarono che il cantiere fosse stato autorizzato con DIA n. 285 del 05.01.2010.

Il sig. Co., pertanto, si rivolgeva al Comune per ottenere chiarimenti e la documentazione relativa alla DIA al fine di verificare la legittimità o meno della stessa in relazione alla L.R. n. 21/2009.

Veniva altresì a prendere conoscenza che la delibera di C.C. n. 28 del 3.4.2009 con la quale il Comune adottò una variante al PRG ai fini della riduzione della superficie della fascia di rispetto stradale “Aurelia” non risultava ancora approvata dalla Direzione regionale. Pertanto, in data 17.12. 2010, il sig. Co. proponeva ricorso, n. r.g. 11638/2010, di fronte il TAR Lazio, per l’annullamento della DIA e della deliberazione del Consiglio Comunale n. 28/2009, nel quale si costituivano il Comune di (omissis) e la società Fa. to. Fa..

La Procura di (omissis), inoltre, avviava un procedimento penale che portava al sequestro preventivo del cantiere e successivamente disponeva il rinvio a giudizio dell’Amministratore della società, del Progettista e del Direttore dei Lavori.

Nelle more della presentazione del ricorso del sig. Co., il Servizio 9 Governo del Territorio del Comune di (omissis), con comunicazione protocollo n. 7275 del 16.02.2011, in esito a supplemento di istruttoria, informava la società di aver disposto l’attivazione della procedura di annullamento in autotutela della DIA rilevando la mancata acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica di cui al D. Lgs. n. 42/2004.

All’esito di tale procedura, l’Amministrazione, con determina dirigenziale n. 798 del 28 marzo 2011, annullava la DIA per non essere stata richiesta la preventiva autorizzazione paesaggistica, nonostante la zona dell’intervento fosse sottoposta a vincolo paesaggistico dal P.T.P.R. della Regione Lazio.

Tale provvedimento, insieme al P.T.P.R., quale atto generale presupposto, veniva impugnato dalla società Fa. to. Fa. di fronte al TAR Lazio, con ricorso n. r.g. 4947/2011, nel quale si costituivano il Comune di (omissis), la Regione Lazio, la Soprintendenza dei beni archeologici e il sig. Co., il quale proponeva, altresì, ricorso incidentale.

Il TAR Lazio nell’ambito della trattazione dei ricorsi disponeva incombenti istruttori a carico del Comune di (omissis) e, dopo aver rilevato la stretta dipendenza fra i citati ricorsi e proceduto alla loro riunione, preso atto della parziale ottemperanza a tali richieste, nominava un Commissario ad acta, il quale depositava la prescritta relazione.

Con sentenza n. 7585/2014, il TAR, infine, respingeva il ricorso n. r.g. 4947/2011, dichiarando la tardività dell’impugnazione del P.T.P.R., nonché la legittimità dell’annullamento in autotutela della DIA, mentre dichiarava improcedibile il ricorso incidentale del sig. Co. per sopravvenuta carenza di interesse.

Dichiarava parimenti improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso n. r.g. 11638/2010, presentato dal sig. Co..

Con appello n. r.g. 2215/2015, la società Fa. to. Fa. impugna la citata sentenza perché gravemente erronea ed illegittima.

Con il primo motivo denuncia “errores in iudicando. Erroneità, illogicità, incoerenza, arbitrarietà, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione – Travisamento dei fatti – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990, dell’art. 29 del D. Lgs. n. 104/2010, degli artt. 142, 146 e 159 del D. Lgs. n. 42/2009, dell’art. 82 D.P.R. n. 616/1977 e ss. mm., degli artt. 4, 13 e 25 della l.r. n. 24/1998 – Violazione del giudicato di cui alla sentenza del TAR Lazio n. 674/1998”.

In particolare l’appellante contesta la statuizione del giudice di prime cure nella parte in cui ha dichiarato la tardività dell’impugnazione del P.T.P.R., in quanto atto amministrativo nuovo rispetto al Decreto Ministeriale del 1992 che pose per primo il vincolo di interesse archeologico sull’area oggetto del contenzioso e, quindi, soggetto ad autonoma impugnazione nei consueti termini decadenziali.

Sostiene l’appellante che il P.T.P.R. sarebbe, invece, atto derivato ed esecutivo, in quanto meramente ricognitivo del vincolo posto dal citato decreto ministeriale, annullato dal TAR Lazio con sent. n. 674/1998.

Il P.T.P.R., pertanto, sarebbe nullo in quanto disposto in violazione del giudicato che ha dichiarato illegittimo il vincolo archeologico sul terreno della società, venendo meno l’obbligo di richiedere l’autorizzazione paesaggistica. Tale nullità sarebbe rilevabile d’ufficio, senza alcun termine di decadenza per l’impugnazione.

Sostiene, inoltre, che anche se si dovesse trattare di atto annullabile e non nullo, il termine di sessanta giorni per l’impugnazione non avrebbe potuto decorrere dalla mera pubblicazione del P.T.P.R., in quanto, in quel momento, la società non ne poteva conoscere la lesività: la società non avrebbe avuto alcun interesse ad impugnare il Piano prima dell’emanazione del provvedimento di annullamento della DIA, in quanto al momento della pubblicazione del piano la società non era ancora proprietaria dell’immobile e, in ogni caso, il Comune aveva certificato l’inesistenza di alcun vincolo paesaggistico.

Con il secondo motivo di appello denuncia “errores in iudicando. Erroneità, illogicità, incoerenza, arbitrarietà, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione – Travisamento dei fatti – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 19 del D. Lgs. n. 104/2010, degli artt. 142, 146 e 159 del D. Lgs. n. 42/2004, degli artt. 4, 13 e 25 della l.r. n. 24/1998, dell’art. 2 l.r. n. 21/2009, del D.M. n. 1444/1968”.

La sentenza sarebbe erronea o comunque non sufficientemente motivata nella parte in cui ha ritenuto non sussistente, in relazione all’immobile controverso, alcuna della tre cause di esclusione dall’applicabilità del vincolo paesaggistico di cui all’art. 142, comma 2 del D. Lgs. n. 42/2004 e all’art. 4 comma 1-bis della L.R. n. 24/1998.

Inoltre, né il Comune di (omissis), né il Commissario ad acta successivamente nominato dal TAR avrebbero dato esauriente risposta circa tali cause di esclusione, ma il giudice di prime cure avrebbe comunque deciso prescindendo da tali fatti, in modo del tutto sommario e senza adeguato supporto istruttorio.

Il TAR avrebbe, invece, dovuto disporre un approfondimento istruttorio ulteriore, se del caso anche tramite sostituzione del commissario ad acta o meglio mediante una più appropriata nomina di un consulente tecnico d’ufficio ex art. 19 c.p.a.

Con il terzo motivo la società contesta “errores in iudicando. Erroneità, illogicità, incoerenza, arbitrarietà, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione – Travisamento dei fatti – Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 136-140 del D. Lgs. n. 42/2004, degli artt. 4, 13, 25 e 26 della l.r. n. 24/1998 e ss.mm., dell’art. 82, comma 5 lett. M) del D.P.R. n. 616/e e dell’art.112 c.p.c.”.

In violazione dell’art. 112 c.p.c. il TAR avrebbe omesso di esaminare una serie di aspetti sottoposti al suo esame dalla società.

In particolare il Tar non avrebbe considerato il fatto che per l’area in questione non risulterebbe completato alcun procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi degli artt. 136-140 del D. Lgs. n. 42/2004, tanto che la Regione avrebbe pubblicato sul proprio sito internet la rappresentazione dell’intero P.T.P.R. ivi compreso l’allegato F che individuerebbe i beni che, con specifico procedimento, per le loro caratteristiche paesaggistiche, sarebbero stati dichiarati di notevole interesse pubblico, senza però che l’area suddetta vi fosse inclusa.

Ulteriormente, evidenzia che la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale, con nota prot. MBAC-SBA-EM n. 3538 avrebbe escluso che tale sito fosse di interesse archeologico.

Tale circostanza sarebbe significativa in quanto, ai sensi dell’art. 13 della L.R. n. 24/1998 de dell’art. 82, comma 5, lett. m) del DPR n. 616/1977 e ss.mm., qualora a seguito di accertamenti eseguiti dalla soprintendenza, venga verificata l’inesistenza dei beni da tutelare, la realizzazione degli interventi non necessiterebbe di autorizzazione paesaggistica. Ai sensi dell’art. 26 della L.R. n. 24/98, inoltre, l’effettiva esistenza (o inesistenza) dei beni sottoposti a vincolo assumerebbe un rilievo preponderante sulle previsioni cartografiche che non siano state aggiornate, con effetti anche in merito alle autorizzazioni ed ai pareri paesaggistici.

A sostegno dell’illegittimità dell’agire dell’Amministrazione, la società ricorda che il precedente proprietario aveva costruito sul terreno de quo in violazione della licenza di costruire, ma che il Comune avrebbe successivamente rilasciato un permesso di costruire in sanatoria, senza richiedere alcuna autorizzazione paesaggistica: il Comune non avrebbe potuto annullare la DIA senza prima procedere all’annullamento del citato permesso in sanatoria in quanto suo antecedente logico- giuridico.

Con il quarto motivo deduce “errores in iudicando. Erroneità, illogicità, incoerenza, arbitrarietà, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione – Travisamento dei fatti – Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 21-nonies L. n. 241/1990 e dell’art. 22 D.P.R. n. 380/2001”.

La sentenza gravata risulterebbe viziata anche in relazione alla dichiarazione di legittimità dell’annullamento ad opera delladetermina dirigenziale n. 798/2011 della DIA presentata dalla società appellante.

Il Comune di (omissis), infatti, avrebbe proceduto all’annullamento in autotutela della DIA senza dare conto di un interesse pubblico astrattamente prevalente sulle ragioni del privato sacrificato e senza fornire adeguata motivazione, limitandosi laconicamente a fare riferimento alla pretesa esistenza formale del vincolo e, quindi, ignorando, oltretutto inspiegabilmente le osservazioni della società che ne avrebbero evidenziato la nullità e comunque l’inesistenza di un interesse archeologico da tutelare, considerato pure il parere espresso dalla Soprintendenza.

Sostiene la società che non vi sarebbe alcun reale interesse pubblico a che la ricostruzione dell’immobile dell’appellante sia impedita, posto che la Soprintendenza ha accertato l’inesistenza di reperti archeologici nell’area di sedime, né esisterebbero ulteriori effettive esigenza di tutela del paesaggio.

Il Tar, pertanto, avrebbe errato nel ritenere legittimo l’annullamento d’ufficio facendo prevalere la sola esigenza di ristabilire la legalità violata, in contrasto con l’art. 21-nonies L. n. 241/1990 e con costante giurisprudenza sul punto.

Parimenti il TAR non avrebbe adeguatamente motivato sulle ragioni che lo hanno indotto a rigettare la doglianze di carenza di motivazione e di istruttoria del procedimento prodromico all’annullamento della DIA, avendo ritenuto sufficiente la motivazione fornita dall’Amministrazione in ordine all’esistenza dell’interesse pubblico alla tutela del paesaggio fondata esclusivamente sulla carenza dell’autorizzazione paesaggistica.

La società nega, inoltre, di aver concorso causalmente all’errore dell’Amministrazione, per aver attestato che sull’area non risultava alcuna limitazione dell’attività edificatoria, senza allegare il prospetto relativo all’esistenza di eventuali vincoli, posto che fino al momento della redazione del Modello CV-VINC stilato dal progettista di Fa. to. Fa. la documentazione prodotta dal Comune ed il parere della Soprintendenza non avrebbero menzionato il vincolo in questione.

Con quinto motivo di appello la società deduce “errores in iudicando. Erroneità, illogicità, incoerenza, arbitrarietà, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione – Travisamento dei fatti – Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19, 21 e 67 del D. Lgs. n. 104/2010”.

Il Tar, nel disporre l’attività istruttoria, avrebbe utilizzato in modo del tutto erroneo e ultroneo lo strumento del commissario ad acta, in sostituzione del Comune a cui era stata richiesta una relazione sugli aspetti tecnico urbanistici della vicenda, mentre avrebbe dovuto ricorrere a un consulente tecnico di ufficio al fine di rispettare i principi di imparzialità e di terzietà che governano il processo.

Viene riproposta, infine, la domanda di risarcimento danni in favore della società fondata sull’illegittimità del comportamento dell’Amministrazione, in quanto la vicenda in esame avrebbe causato molteplici danni alla società medesima.

La società appellante, infine, ripropone le proprie considerazioni in ordine alle istanze e domande del sig. Co., ricorrente in primo grado in uno dei ricorsi riuniti dal TAR Lazio.

In primo luogo il ricorso del sig. Co. sarebbe improcedibile e/o inammissibile per carenza di interesse, essendo stato accertato dal giudice civile l’assenza di un nesso causale fra le pretese lesioni al fabbricato di sua proprietà e lo scavo delle fondazioni della Fa. to. Fa., e per tardività rispetto alla conoscenza degli atti impugnati.

Le censure avanzate dal sig. Co. sarebbero, inoltre, infondate nel merito in quanto sia l’altezza dell’edificio che il suo incremento volumetrico e/o di superficie utile rispetterebbero i parametri di legge, così come risulterebbe pure nella prima relazione del Comune al TAR.

Anche le altre doglianze relative alla mancanza di criteri costruttivi e realizzativi tesi all’ecoedilizia ed alla sostenibilità energetico ambientale e di gracifizzazione di opere di urbanizzazione sarebbero infondate, in quanto i progetti presentati dalla società risulterebbero conformi alle disposizioni di legge in merito e in ogni caso l’opera si inserirebbe in una zona completamente urbanizzata.

Infine, contrariamente a quanto sostenuto dalla controparte, la società avrebbe indicato le porzioni di fabbricato a canone concordato, mentre nell’area in cui ricade l’opera sarebbero comunque realizzabili interventi di sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione degli edifici in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti, ai sensi della L.R. n. 21/2009.

Inoltre, in merito alla partecipazione di un consigliere comunale in rapporto di parentela con i soci della società alla delibera del Consiglio Comunale n. 28/09, (che modifica la fascia di rispetto per futuri ampliamenti e miglioramenti funzionali della rete stradale, a parcheggi pubblici, ad attrezzature di servizio al traffico veicolare, a passaggi pedonali ed a zone di verde pubblico con alberature di carattere ornamentale, da 50 m dal ciglio della strada a 20 m), sostiene che l’art. 78 del D. Lgs. n. 267/200 non si applicherebbe ai provvedimenti normativi o di carattere generale quali i piani urbanistici e che, in ogni caso, la delibera citata porrebbe fine alla sperequazione realizzata con la previsione di una fascia di rispetto maggiore, 50 m, rispetto a quella minima di 20 m prevista dalla normativa, solo in alcune zone a fronte di altre zone relativamente alle quali è fissata in 20 m.

Infine, diversamente da quanto contestato dal sig. Co., il parere della Soprintendenza assolve alla medesima funzione dell’autorizzazione paesaggistica, la quale comunque non sarebbe stata necessaria.

Si è costituito il sig. Co. promuovendo altresì appello incidentale avverso la citata sentenza del TAR Lazio, nella parte in cui ha dichiarato infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto da Fa. to. Fa. per mancata notificazione anche nei suoi confronti, in qualità di controinteressato, in violazione dell’art. 41, comma 2, c.p.a. e nella parte in cui ha dichiarato tanto il ricorso principale quanto il ricorso incidentale, dal medesimo proposti, improcedibili per carenza di interesse.

Nel riproporre tutte le censure avanzate in primo grado a sostegno dell’illegittimità del provvedimento di DIA rilasciato in favore della società Fa. to. Fa., il sig. Co. evidenzia come avrebbe avuto interesse a veder riconosciuta la fondatezza di tali censure al fine di evitare che la società possa presentare una nuova istanza, che la abiliti definitivamente a porre in essere l’intervento edilizio contestato, epurando l’istanza dalle illegittimità rilevate in via di autotutela dal Comune di (omissis). Per l’appellante incidentale, infatti, la società potrebbe reiterare l’istanza per il rilascio della DIA una volta ottenuta la autorizzazione paesaggistica, sulla cui mancanza il TAR ha fondato la legittimità dell’annullamento in autotutela della DIA.

Con il primo motivo, dunque, deduce la “erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto da Fa. to. Fa. s.r.l. (n. r.g. 4947/2011) per violazione dall’art, 41, co. 2 c.p.a.”.

Contrariamente da quanto sostenuto dal TAR, il sig. Co. avrebbe dovuto essere considerato un controinteressato all’accoglimento del ricorso n. r.g. 4947/2011, in quanto tale qualifica non si otterrebbe solamente dalla menzione di un soggetto nell’atto impugnato, mentre l’individuazione del soggetto controinteressato andrebbe effettuata in base ad un criterio sostanziale. Sarebbe controinteressato quel soggetto che abbia un interesse qualificato, analogo e contrario alla conservazione del provvedimento impugnato.

Nel caso di specie, attesa la pendenza del ricorso n. r.g. 11638/2010, Fa. to. Fa. sarebbe stata ben consapevole del fatto che il sig. Co. fosse controinteressato all’accoglimento del ricorso da essa proposto.

Non avrebbe rilevanza la circostanza che alla base dell’annullamento in autotutela della DIA il Comune avesse posto motivi diversi da quelli per cui il sig. Co. ne chiedeva l’annullamento, sia perché anche egli chiese, nel proprio ricorso principale, l’annullamento della DIA per mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, sia perché a prescindere dai motivi dedotti, il suo interesse principale era quello di inibire l’attività edificatoria sull’area.

Con secondo motivo di appello incidentale motiva sull’“errata dichiarazione di improcedibilità del ricorso principale e del ricorso incidentale proposto dal sig. Co., con conseguente riproposizione ex art. 101, co. 2 c.p.a. dei motivi di ricorso non esaminati”.

Il sig. Co. sostiene che se il Tar avesse esaminato ed accolto i suoi motivi di ricorso sarebbe venuta definitivamente meno la possibilità per l’Amministrazione di autorizzare la Fa. to. Fa. a porre in essere un’attività costruttiva.

La DIA, infatti, sarebbe illegittima per “violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 4 della L. n. 21 dell’11.8.2009. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti”.

La L. n. 21 dell’11.8.2009, cd Piano Casa, non sarebbe applicabile all’area interessata dall’intervento edilizio della Fa. to. Fa., in quanto non rientrerebbe tra le aree edificabili.

La zona ricadrebbe nella previsione di cui all’art. 31 lett. c) delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di (omissis) che identifica la identifica come “Zona soggetta a vincoli speciali di inedificabilità”. Si tratterebbe di un’area con destinazione d’uso ossia una fascia “riservata a futuri ampliamenti e miglioramenti funzionali della rete stradale, a parcheggi pubblici, ad attrezzature di servizio al traffico veicolare, a passaggi pedonali ed a zone di verde pubblico con alberature di carattere ornamentale”, che non potrebbe essere considerata residenziale e, quindi, sarebbe esclusa l’applicabilità del Piano Casa.

Tale realtà non potrebbe ritenersi mutata per effetto della Delibera n. 28 del 03.04.2009 “Omogeneizzazione fascia di rispetto del tracciato viario di P.R.G. della variante alla S.S. n. 1 Aurelia all’interno del perimetro del Centro abitato – art. 31 della N.T.A. “Zone soggette a vincoli speciali di inedificabilità” Adozione Variante”, in quanto, detta Delibera, non sarebbe stata approvata dalla Regione Lazio, risultando, quindi, priva di effetti.

L’opera edificatoria, inoltre, violerebbe la legislazione regionale sotto il profilo delle volumetrie edificatorie e i parametri utilizzati da Fa. to. Fa., in quanto supererebbe l’altezza massima consentita, nonché il limite massimo di ampliamento della volumetria concessa.

Il progetto fornito da Fa. to. Fa., inoltre, risulterebbe privo delle indicazioni richieste dall’art. 4 della L.R. 21/09, non essendo previsti criteri costruttivi e realizzativi tesi all’ecoedilizia, alla sostenibilità energetico ambientale, di cui al D. Lgs. n. 192/2005 e della L.R. n. 6/2008, nonché privo di gracifizzazione delle opere di urbanizzazione primaria.

Il progetto, inoltre, conterrebbe errori di calcolo delle superfici e della consistenza abitativa destinata ad edilizia a canone concordato.

La DIA sarebbe ulteriormente illegittima per “violazione e falsa applicazione dell’art. 31, lett. c) delle Norme Tecniche di Attuazione al P.R.G. del Comune di (omissis). Eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e contraddittorietà. Illegittimità della delibera del Consiglio Comunale di (omissis) n. 28/09 per violazione dell’art. 78 del T.U.EE.LL. e per disparità di trattamento”.

La delibera del Consiglio Comunale n. 28/09, che modifica la fascia di rispetto a futuri ampliamenti e miglioramenti funzionali della rete stradale, a parcheggi pubblici, ad attrezzature di servizio al traffico veicolare, a passaggi pedonali ed a zone di verde pubblico con alberature di carattere ornamentale, da 50 m dal ciglio della strada a 20 m, sarebbe stata approvata con il voto determinante di un consigliere comunale in posizione di evidente conflitto di interesse, in quanto legato da rapporti di parentela diretta con diversi soci di Fa. to. Fa., oltre che con l’Amministratore della medesima società. In violazione dell’art. 78 T.U.EE.LL. il consigliere non si sarebbe astenuto, rendendo, pertanto, illegittima la delibera comunale.

Il progetto di Fa. to. Fa. si porrebbe, infine, in “violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 10 del D.P.R. n. 380/01”, che vieterebbe agli interventi soggetti a DIA di apportare un aumento della volumetria prima esistente e di modificare la sagoma dell’edificio.

Si è costituito il Comune di (omissis) chiedendo il rigetto dell’appello formulato dalla società Fa. to. Fa. in quanto inammissibile, improcedibile e infondato, avendo il TAR Lazio correttamente motivato in ordine alla tardività del ricorso di primo grado, stante la natura di atto autonomo del P.T.P.R. soggetto agli ordinari termini di impugnazione, che decorrerebbero dalla pubblicazione della delibera di adozione, a cui la legge ricollegherebbe una presunzione assoluta di conoscenza dell’atto.

In ogni caso, anche se si volesse ritenere assente tale presunzione, la società avrebbe conosciuto della lesività dell’atto al momento della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in autotutela, con conseguente inizio da questo momento dei termini per l’impugnazione.

Né il Piano Territoriale potrebbe ritenersi nullo, in quanto non si tratterrebbe di atto meramente esecutivo che si limita a riportare disposizioni adottate in altra sede, quale il vincolo disposto per legge, ma sarebbe frutto dell’esercizio del potere conformativo della Pubblica Amministrazione.

I provvedimenti di imposizione di vincoli ricognitivi avrebbero valore di accertamenti costitutivi e non meramente dichiarativi, in quanto sulla base dell’accertamento delle caratteristiche oggettive del bene determinano, con effetto costitutivo, la sua sottoposizione al relativo regime giuridico.

Inoltre, l’annullamento del decreto ministeriale che aveva imposto sull’area in oggetto il vincolo archeologico non escluderebbe l’interesse archeologico e paesaggistico dell’area stessa.

Il vincolo archeologico e quello paesaggistico tutelerebbero, infatti, due beni diversi, essendo il secondo diretto a preservare non il singolo reperto emergente o sotterraneo, ma a salvaguardare la forma del paesaggio che include anche il sito archeologico e, quindi, anche le aree circostanti a tale sito e prive di reperti, che connotano il relativo paesaggio.

Ai sensi dell’art. 146 del codice dei beni culturali, pertanto, la società avrebbe dovuto ottenere l’autorizzazione paesaggistica per avviare i lavori nell’area dichiarata di interesse archeologico, quale atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, potendo la DIA produrre effetti solo se l’istanza o la dichiarazione sia veridica e completa anche in relazione alla produzione degli atti di assenso eventualmente necessari.

Ne deriverebbe che il provvedimento adottato dall’Amministrazione non sarebbe propriamente di annullamento, ma meramente ricognitivo della mancata formazione della DIA, di conseguenza non potrebbero avere rilevanza le censure proposte dalla società ricorrente inerenti il cattivo esercizio del potere di autotutela per il mancato rispetto dei presupposti indicati dall’art. 21 L. n. 241/1990.

In ogni caso, ogni altra motivazione in ordine all’esistenza di un interesse pubblico sarebbe ultronea in considerazione del prevalente interesse pubblico della tutela del paesaggio sul godimento della proprietà privata, mentre l’intervento dell’Amministrazione dovrebbe considerarsi tempestivo rispetto all’inizio dei lavori.

La legittimità del comportamento dell’Amministrazione e la tempestività del suo intervento escluderebbero l’esistenza del diritto al risarcimento del danno.

Si è costituita la Regione Lazio eccependo preliminarmente che le censure proposte dalla società sarebbero tardive per decorrenza dei termini di impugnazione decorrenti dalla pubblicazione del P.T.P.R. sul BURL.

Nel merito sostiene che la sentenza n. 694/1998 del TAR Lazio, richiamata dall’appellante, che annullava il DM del 1992 nella parte in cui disponeva la conferma della dichiarazione di interesse archeologico ai sensi della L. 1089/1939 sul terreno di proprietà della ricorrente, non avrebbe alcun effetto diretto sul P.T.P.R., in quanto sarebbe diversa la natura dei beni tutelati in base alle diverse disposizioni.

Il DM annullato riguardava il bene culturale archeologico disciplinato dall’art. 10 e ss del D. Lgs. n. 42/2004, mentre i beni de quibus individuati dal P.T.P.R. sarebbero beni di natura paesaggistica di cui all’art. 142 del D. Lgs. n. 42/2004.

Pertanto, il venire meno della dichiarazione di interesse archeologico, di cui all’art. 13 del Codice, sull’area dell’appellante non fa automaticamente venir meno il vincolo paesaggistico con obbligo di richiedere per gli interventi ricadenti nell’area stessa l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del D. Lgs. n. 42/2004.

Inoltre, l’assenza di beni archeologici nell’area non rileva ai fini dell’illegittimità del vincolo, in quanto l’ambito di interesse archeologico costituisce in sé un bene paesaggistico ai sensi dell’142 del D. Lgs. n. 42/2004 e dell’art. 13 della L.R. n. 24/98, giacché la finalità del vincolo sarebbe quella di tutelare il più vasto areale in cui sono presenti i reperti: nel caso di specie, rilevata la presenza dell’acquedotto interrato, ne verrebbe tutelato il tracciato e la relativa fascia di rispetto.

Alla Regione, inoltre, non sarebbe pervenuta alcuna documentazione al fine di verificare la non sussistenza per l’immobile in questione di alcuna delle cause di inapplicabilità del vincolo di cui all’art. 142, comma 2, del Codice dei Beni Culturali, rimanendo comunque competenza del Comune tale verifica.

La Regione, infine, non avrebbe avuto alcuna necessità di avviare un procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico per il riconoscimento del vincolo dopo l’annullamento del D.M. del 1992 in quanto il bene sarebbe automaticamente tutelato dalla legge ai sensi dell’art. 142 del Codice.

Con atto meramente formale si è costituita la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria meridionale.

Alla camera di consiglio del 21.04.2015 ogni decisione è stata rinviata al merito.

In vista della pubblica udienza le parti si sono scambiate memorie di difesa e di replica, con ciò precisando le rispettive posizioni, anche in merito alla rilevanza per la presente controversia del parere favorevole di compatibilità paesaggistica ex art. 167 commi 4 e 5 del D. Lgs. n 42/2004 rilasciato dalla Regione Lazio in favore della società Fa. to. Fa..

Sostiene, infatti, il sig. Co. che tale parere in realtà non consisterebbe nell’accoglimento dell’istanza di compatibilità ma si limiterebbe a comunicare l’avvio dell’istruttoria, mentre la società non avrebbe mai ottenuto alcun parere in sanatoria paesaggistica.

Alla pubblica udienza del 17.09.2015 l’appello è stato discusso e trattenuto in decisione.

DIRITTO

La società Fa. to. Fa. s.r.l. chiede che venga disposto l’annullamento della determina dirigenziale n. 798 del 2011, con cui il Comune di (omissis) ha disposto l’annullamento d’ufficio in autotutela della DIA del 5 gennaio 2010 prot. n. 285, emesso nei suoi confronti dal Comune di (omissis).

Parallelamente il sig. Co., con appello incidentale chiede che venga riformata la sentenza di primo grado nella parte in cui ha rigettato l’eccezione da esso formulata di inammissibilità del ricorso promosso dalla società Fa. to. Fa.. Chiede altresì che venga riformata nella parte in cui ha risposto il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Occorre, preliminarmente, esaminare la riproposta eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata notificazione al sig. Co., quale controinteressato, in violazione dell’art. 41 c.p.a.

Il motivo è infondato, avendo il Tar Lazio fornito esatta motivazione sul punto.

Il giudice di prime cure ha, infatti, ricordato come costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ritiene che: “Il vicino, autore di un esposto o di una denuncia, non assume la veste di controinteressato nel giudizio contro l’annullamento di un determinato provvedimento amministrativo, anche se all’esposto ed al suo autore la p.a. faccia espressamente riferimento nel provvedimento impugnato, poiché il disposto annullamento, effettuato nell’esercizio del potere di autotutela, costituisce un provvedimento d’ufficio, emesso per il raggiungimento di finalità di pubblico interesse”.

“L’autore di un esposto-denuncia non assume per ciò solo le vesti di controinteressato processuale nel giudizio amministrativo instaurato avverso l’annullamento d’ufficio dell’atto, anche ove (…) il suo ritiro sia stato sollecitato nella denuncia.

L’autotutela decisoria, per quanto sollecitata da terzi portatori di interessi di mero fatto al suo esercizio, resta prerogativa dell’Amministrazione non soltanto nel suo concreto atteggiarsi, ma anche in relazione alla autonoma valutazione delle condizioni, in fatto ed in diritto, per il suo esplicarsi. Per tal ragione, l’impugnazione diretta avverso l’atto di annullamento di ufficio di un pregresso provvedimento abilitativo non va notificata necessariamente all’autore dell’esposto-denuncia che aveva sollecitato l’esercizio dell’atto di autotutela, ferma comunque la facoltà di quest’ultimo di intervenire ad opponendum nel relativo giudizio” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.12.2012, n. 6639 e Sez. IV, n. 4516/2011).

È stato poi correttamente precisato dal TAR, senza che questo Collegio rilevi sufficienti ragioni per riformare tale capo di sentenza, che il sig. Co. non possa assumere la qualifica di controinteressato in base alla distinzione fra il “generico vicino di casa” ed un soggetto il cui diritto di proprietà è stato, invece, direttamente leso dall’opera edilizia e, dunque, non può che ritenersi “direttamente avvantaggiato” da qualsiasi provvedimento destinato ad incidere sulla già legittimata e/o già avvenuta trasformazione del territorio (rectius: autoannullamento di titoli abilitatitivi già rilasciati e/o ordinanze di demolizione).

In base a tale orientamento, il secondo non sarebbe un vicino qualunque, ma un soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione di titolare di un diritto di proprietà, sicché – nell’ipotesi in cui il suo nominativo figuri nel provvedimento impugnato o anche nella comunicazione dell’avvio del procedimento – tale vicino necessariamente assume la veste di controinteressato per la sussistenza sia del c.d. elemento sostanziale (titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante il ricorrente) sia del c.d. elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che abbia un interesse qualificato alla conservazione).

Tale orientamento non può trovare applicazione nel caso di specie, date alcune significative peculiarità che lo caratterizzano.

Ed, infatti, se l’indirizzo sopra ricordato richiede, affinché il vicino di casa assuma una posizione differenziata, che il suo nominativo figuri nel provvedimento impugnato o anche nella comunicazione dell’avvio del procedimento, nella presente fattispecie il nome del sig. Co. non figura né nel provvedimento impugnato né in atti prodromici a quest’ultimo (qual è la comunicazione di avvio del procedimento del 16 febbraio 2011, prot. n. 7275).

In altre parole il controinteressato per assumere tale qualifica, e, quindi, essere uno dei soggetti ai quali si debba necessariamente notificare il ricorso, non solo deve essere titolare di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante il ricorrente, ma il suo nominativo deve essere inserito nel provvedimento impugnato, giacché al ricorrente non può essere reso più gravoso l’onere di notifica del ricorso.

A tal fine non assume rilevanza la circostanza che il sig. Co. avesse manifestato il suo interesse al venir meno della DIA, anche in sede giurisdizionale, mediante la proposizione del ricorso n. 11638 del 2010, posto che – come ricordato dl TAR – il provvedimento di autoannullamento della DIA è stato adottato sulla base di rilievi diversi da quelli formulati con il menzionato gravame, i quali – almeno sulla base della documentazione agli atti – risultano opposti dall’Amministrazione in autonomia, nel pieno esercizio del potere spettante ad ogni autorità di rivalutare il proprio operato.

In conclusione nei confronti del sig. Co., quale controinteressato non indentificato dall’atto amministrativo, non sussisteva alcun obbligo di notifica, pur essendogli riconosciuto il diritto ad intervenire nel processo e proporre ogni difesa ammessa.

Passando ad analizzare il merito dell’appello proposto dalla società Fa. to. Fa., esso è infondato.

Con determina dirigenziale n. 798/2011, il Comune di (omissis) ha annullato in autotutela la DIA prot. n. 285/2010 per “mancanza dell’autorizzazione paesistica”, ritenuta necessaria in quanto l’area oggetto di intervento è comunque interessata dal vincolo ricognitivo di legge exart. 13, comma 3, lett. a) L.R. n. 24/98 Aree di interesse archeologico già individuate – beni Lineari con fascia di rispetto Tab. B Beni Paesaggistici del P.T.P.R. Lazio”

Con il primo motivo di ricorso di primo grado la società ebbe a contestare che la pianificazione regionale, limitandosi a fare una ricognizione dei vincoli ritenuti sussistenti sulle varie aree, per quanto interessa la parte di territorio oggetto del presente giudizio, ha omesso di considerare la pronuncia giurisdizionale n. 694/1998 resa dal TAR, Sez. II, di annullamento del D.M. del 1992 “proprio nella parte che dispone la conferma della dichiarazione di interesse archeologico ai sensi della legge 1089/1939”, e, dunque, afferma che “in sede di redazione del PTPR, la zona interessata è stata erroneamente ricompresa tra quelle di interesse archeologico”.

In sintesi, impugnò il PTPR “nella parte in cui prescrive sulla particella 926, fg. 16, del Comune di (omissis) il vincolo ricognitivo di legge per le aree di interesse archeologico”, per pretendere – in via derivata – l’annullamento del provvedimento di autotutela adottato in relazione alla DIA.

Il Tar ha respinto tale motivo correttamente rilevando che il PTPR – facente seguito ai cc.dd. PTP – è stato adottato con D.G.R. del Lazio n. 556 del 25 luglio 2007, poi modificata ed integrata dalla D.G.R. n. 1025 del 21 dicembre 2007, e, dunque, le censure formulate risultano proposte oltre il termine decadenziale di legge.

Ricordando che:

– la pianificazione paesaggistica e la tutela dei beni e delle aree sottoposte a vincolo paesistico risultano regolate dalla L.R.Lazio n. 24 del 1998, la quale ha introdotto il criterio della tutela omogenea delle aree e dei beni previsti dalla legge n. 431 del 1985 – c.d. Legge Galasso – e di quelli dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi della legge n. 1497 del 1939, prevedendo la possibilità di redigere il c.d. Piano Territoriale Paesistico Regionale (c.d. PTPR);

– con la stessa legge sono stati anche approvati i Piani Territoriali Paesistici – PTP, già adottati dalla Giunta Regionale;

– come si trae dalla documentazione agli atti, anche a seguito di dovute consultazioni con altri enti pubblici locali ed associazioni ambientaliste, volte, tra l’altro, a rivisitare i PTP vigenti, la G.R. del Lazio ha adottato il PTPR con deliberazione n. 556 del 25 luglio 2007 (in seguito anche modificata ed integrata con DGR n. 1025 del 2007), il quale – ancorché non risulti ancora approvato (ed, anzi, il termine all’uopo prescritto risulta ulteriormente prorogato di un anno) – ha comunque carattere vincolante.

Tenuto conto delle peculiarità che connotano il PTPR, chiara, dunque, si profila l’immediata lesività della ricognizione dei vincoli in tale sede operata, anche in ragione degli effetti a quest’ultima direttamente riconnessi.

Da ciò necessariamente consegue che censure del tipo di quelle formulate dalla ricorrente – espressamente dirette a contestare l’inclusione di una determinata zona tra quelle che, in quanto qualificate di interesse archeologico, risultano soggette a vincolo paesaggistico, ai sensi dell’art. 13 della l.r. Lazio n. 24 del 1998 – avrebbero dovuto essere prontamente proposte e precipuamente avrebbero dovuto essere proposte entro il termine decadenziale di 60 gg., computato a decorrere dalla data di pubblicazione del piano.

In altri termini, il Collegio ritiene che – stante l’epoca a cui risale l’adozione del PTPR – l’individuazione delle aree nel medesimo riportata costituisca un dato di fatto, divenuto ormai insindacabile, con conseguente piena operatività dell’art. 41, comma 5, delle norme del PTPR, secondo il quale “nelle zone di interesse archeologico ogni modifica dello stato dei luoghi è subordinata all’autorizzazione paesaggistica ai sensi degli arttt. 146 e 159 del codice dei beni culturali e del paesaggio”.

In definitiva, si conviene con le parti resistenti circa i seguenti rilievi:

– la sottoposizione della zona al vincolo risulta espressamente fissata nel PTPR (in particolare, si tratta di un vincolo contrassegnato come ml 0271 “che trova la sua tutela nel” già citato “art. 13 della L.R. n. 24/98” – cfr. memoria della Regione Lazio, depositata in data 13 luglio 2012);

– in sede di redazione del PTPR può anche essere avvenuto che non sia stato tenuto in debito conto l’annullamento del D.M. 8 giugno 1992, disposto “in parte qua” dal TAR del Lazio con la sentenza n. 694 del 2008;

– soprassedendo sulle asserzioni del Comune di (omissis) riguardanti il carattere meramente confermativo del D.M. 8 giugno 1992 rispetto al precedente D.M. 25 marzo 1953 e, dunque, sul persistere dell’efficacia di quest’ultimo (cfr. memoria depositata in data 30 agosto 2012, pag. 3), tale annullamento non può – comunque – intaccare la legittimità del PTPR, in quanto provvedimento nuovo e sopravvenuto rispetto al D.M. ma anche alla pronuncia di cui si discute;

– preso, dunque, atto di quanto disposto dal PTPR circa la classificazione dell’area di interesse per la ricorrente (fg. 16, p.lla 926) e ribadita l’impossibilità di sindacare in questa sede il PTPR – almeno per il profilo di interesse della ricorrente – la censura inerente l’illegittimità del provvedimento impugnato per illegittimità del PTPR “nella parte in cui prescrive” il vincolo sull’area non è meritevole di positivo riscontro.

La società Fa. to. Fa. nel riproporre tale doglianza non offre ragioni sufficienti per riformare la motivazione sul punto, non essendo a tal fine fondata la domanda di accertamento della nullità del piano paesaggistico.

Ed, infatti, la società non può fondare la tempestività del ricorso sulla circostanza che è divenuta proprietaria dell’immobile solo successivamente al termine di scadenza di 60 giorni utile per la proposizione del ricorso. Diversamente si legittimerebbero azioni di annullamento ad ogni trasferimento di proprietà, venendo meno le esigenze di certezza e di stabilità che necessariamente connotano l’agire amministrativo, in quanto volto alla tutela degli interessi pubblici, con sostanziale elusione dei termini decadenziali.

Dalle medesime considerazioni deriva l’irrilevanza, ai fini della tempestività del ricorso e, quindi della legittimità delle DIA de qua, del certificato del Comune di (omissis), che aveva dichiarato l’inesistenza sul terreno di proprietà della società di alcun vincolo. Essendo, ormai, trascorso il termine decadenziale per impugnare il Piano, la certificazione del Comune non ha inciso negativamente sul diritto ad agire in giudizio dell’appellante.

Il piano paesaggistico, inoltre, è provvedimento nuovo e sopravvenuto al DM 1992 e, pertanto, eventuali vicende processuali che abbiano coinvolto tale decreto non possono inficiare la validità del piano.

Quest’ultimo, infatti, è espressione di nuove valutazioni in ordine agli interessi pubblici in gioco ed in particolare delle valenza in quell’area dell’interesse archeologico paesaggistico, nonché espressione di una diversa disciplina legislativa, non potendosi, pertanto, che concordare con quanto sostenuto dalle Amministrazioni nei propri scritti difensivi.

La sentenza n. 694/1998 del TAR Lazio non ha alcun effetto diretto sul P.T.P.R., disciplinato dalla parte III del D. Lgs. n. 42/2004, in quanto è diversa la natura dei beni tutelati in base alle diverse disposizioni. Nel caso specifico la richiamata sentenza riguarda il bene culturale archeologico disciplinato dall’art. 10 e ss. del citato decreto, diverso dal bene paesaggistico archeologico di cui all’art. 142, comma 1, lett. m) individuato dal Piano regionale.

La legge regionale n. 24/98 all’art. 13 disciplina la protezione di aree di interesse archeologico ai fini della pianificazione paesistica e della tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico.

Al comma 1) dispone che sono sottoposti a vincolo paesistico le zone di interesse archeologico.

Al comma 2) stabilisce che sono qualificate zone di interesse archeologico quelle aree in cui sono presenti resti archeologici e le aree ed i beni puntuali e lineari, nonché le relative fasce di rispetto individuate da PTP e PTPR o individuate con provvedimento dell’Amministrazione competente.

Ai sensi dell’art. 134 del D. Lgs. 42/2004 comma 1 lett. b) sono beni paesaggistici le aree di cui all’art. 142.

Quest’ultima norma stabilisce, nell’ambito dell’individuazione dei beni paesaggistici, quali siano le aree individuate per legge.

Per quanto riguarda il caso in esame indica al comma lett. m) le zone di interesse archeologico.

L’art. 41 delle norme del P.T.P.R. al comma 6 da atto che il P.T.P.R. ha individuato ai sensi del comma 3 lett. a) le aree nonché i beni puntuali e lineari di interesse archeologico e relative fasce di rispetto, già individuati dal PTP, con le modifiche, le eliminazioni e gli spostamenti segnalati dalle Soprintendenze archeologiche.

Nella zona interessata dall’intervento edilizio progettato dalla società il P.T.P. e il P.T.P.R. hanno determinato, sulla base delle predette norme, un vincolo paesistico in quanto area di interesse archeologico.

L’apposizione del vincolo paesistico non è in alcun modo subordinata, in base alla vigente normativa, alla preesistenza di un vincolo archeologico.

Vincolo paesaggistico e vincolo archeologico sono, infatti, funzionali all’attuazione di un diverso tipo di tutela.

Il vincolo archeologico è volto a realizzare la tutela dei beni riconosciuti di interesse archeologico, il vincolo paesistico la tutela del territorio che li conserva.

La tutela paesaggistica delle zone di interesse archeologico ha carattere e contenuto diversi rispetto al puntuale vincolo archeologico.

Il paesaggio archeologico non va confuso con il sito archeologico.

Il paesaggio archeologico, infatti, non si propone di conservare il singolo reperto emergente o sotterraneo, ma di salvaguardare la forma del paesaggio che include il sito archeologico.

Infatti, il paesaggio archeologico non si esaurisce nelle sole aree gravate direttamente da vincoli archeologici, estendendosi normalmente al di là della porzione di territorio direttamente interessata dalla presenza di reperti, in quanto include anche le aree circostanti che costituiscono il contesto ambientale in cui le aree si inseriscono connotando il relativo paesaggio.

Pertanto, la circostanza che in una specifica porzione di territorio rientrante nella perimetrazione della zona archeologica non siano presenti reperti non determina l’esclusione della tutela paesaggistica della zona di interesse archeologico, posto che tale regime protettivo si estende ad abbracciare anche il contesto ambientale in cui i reperti si collocano e che riguarda reperti collocati in altre prossime porzioni territoriali.

Di conseguenza l’accertamento dell’inesistenza di reperti, se vale ad escludere il vincolo ex lege di zona archeologica, non può far venir meno il vincolo autonomamente imposto dalla Regione in sede di adozione del P.T.P.R.

Nel caso di specie, rilevata la presenza dell’acquedotto interrato, ne è stato tutelato il tracciato e la relativa fascia di rispetto.

Preso, dunque, atto della tardività del ricorso avverso il P.T.P.R., il Tar ha correttamente respinto la censura inerente l’illegittimità del provvedimento impugnato per illegittimità del P.T.P.R. nella parte in cui prescrive il vincolo sull’area di proprietà di Fa. to. Fa..

Con il secondo motivo la società impugna la sentenza nella parte in cui ritiene che non sussista per l’immobile in questione nessuna delle cause di inapplicabilità di cui all’art. 142, comma 2, del D. Lgs. n. 42/2004, in combinato disposto con l’art. 9 comma 2 del P.T.P.R. Lazio e con l’art. 4 L.R. n. 24/1998

Per la società, infatti, la zona interessata dalla DIA rientrerebbe nella zona B per come individuata dal DM n. 1444/68, nonché all’interno del centro abitato, oltre ad essere inserita all’interno di un PPA.

Il Tar non ha ravvisato elementi a sostegno della sussistenza delle condizioni prescritte dall’art. 142, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004, tenuto conto che:

– l’area di intervento non rientra tra quelle urbanizzate individuate dal PTPR;

– il Comune di (omissis) non ha mai dato attuazione al decreto di cui sopra;

– pur ritenendo vigente il PPA adottato dal Comune di (omissis) con delibera n. 8 del 1980, non risulta fornita prova dalla ricorrente che “le relative prescrizioni siano state concretamente realizzate”, mentre il sig. Co. afferma – senza margini di incertezza – che “la zona non è stata mai sottoposta ad interventi definiti attraverso piani particolareggiati o attraverso un apposito progetto esecutivo sottoposto all’approvazione del Consiglio Comunale”;

– in ogni caso, l’area de qua è identificata dall’art. 31 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di (omissis) come “zona soggetta a vincoli speciali di inedificabilità”, con previsione da parte delle stesse N.T.A. di limiti che pongono l’area al di fuori dei parametri previsti dal D.M. 1444/68;

– di particolare ausilio per la ricorrente non si rivela, poi, la nota del predetto Comune del 9 luglio 2012, posto che la stessa attesta che l’area “confina con la limitrofa sottozona 2 di PGR” e solo in relazione a quest’ultima sembra riconoscere la riconducibilità ai parametri fissati dal D.M. 1444/68 per le zone omogenee di tipo B.

La società contesta la sentenza di primo grado sostenendo che il Tar non avrebbe considerato che l’area di sua proprietà ha assolutamente le caratteristiche di zona omogenea di tipo B ai sensi del DM 1444/68 e, pertanto, ad essa dovrebbero essere applicate le ipotesi di esclusione dell’applicabilità del vincolo paesaggistico di cui all’art. 142 Codice dei beni culturali. A conferma di questa tesi allega una serie di provvedimenti del Consiglio Comunale che classificherebbero la zona come zona di completamento, definizione assimilabile alle zone omogenee di tipo B.

Queste affermazioni non hanno pregio, avendo il Tar fornito idonea motivazione sul punto tenuto anche conto della giurisprudenza costituzionale in materia di vincoli paesaggistici.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 66/2012, ha affermato l’assoluta centralità dell’art. 142 del D. Lgs. n. 42/2004, che elenca le aree vincolate per legge al fine di dare attuazione al dettato costituzionale contenuto all’art. 9 Cost., in quanto la tutela del paesaggio esige la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi contenuti ambientali.

Stante la primarietà dell’interesse tutelato con l’art. 142 del Codice, le ipotesi vincolistiche in esso contenute sono rigorosamente tipizzate, così come sono parimenti tipizzate le ipotesi di deroga.

Queste ultime, quindi, diversamente da quanto sostiene l’appellante, non possono essere oggetto di interpretazione estensiva, per cui il Tar ha correttamente escluso l’applicabilità dell’art. 142, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004.

Con il terzo motivo la società ritiene che la circostanza per la quale non risulta completato per l’area de qua alcun procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, sarebbe rilevante ai fini della necessità dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione di interventi. Tale motivo, già esposto in primo grado, non sarebbe stato oggetto di pronuncia del TAR.

Anche tale motivo è infondato.

Nel caso di specie la Regione non aveva l’obbligo di avviare un procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico per il riconoscimento del vincolo dopo l’annullamento del D.M. 1992, posto che, come sopra precisato, l’interesse archeologico paesaggistico dell’area è direttamente valutato dalla Legge ai sensi dell’art. 142 Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Pertanto, il TAR preso atto della sussunzione del terreno de quo all’interno della disposizione codicistica richiamata ne ha tratto la fondata conclusione che per l’area risultasse (e risulta) necessaria l’autorizzazione paesaggistica, a prescindere dalla valutazione dell’esistenza di un’eventuale dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area da parte della Regione.

Inoltre, non trovano fondamento le censure della società in ordine alla contraddittorietà e al difetto di motivazione del provvedimento di annullamento in autotutela della DIA.

In primo luogo si deve confermare la correttezza della statuizione del giudice di primo grado, il quale nel ricostruire le modalità con le quali è stato adottato il provvedimento di annullamento in autotutela, ne ha affermato la legittimità anche sotto tale profilo.

Il Tar ha, difatti, giustamente escluso la violazione dell’art. 21 nonies e la contraddittorietà tra provvedimenti, quali il rilascio in data 20 ottobre 2008 di permesso in sanatoria per opere realizzate sul terreno di cui si discute, senza richiedere ai proprietari alcuna autorizzazione ambientale, nonché “il contenuto del certificato di destinazione urbanistica” rilasciato dal Comune in data 9 febbraio 2010.

Priva di errori, infatti, è la valutazione in ordine alla rilevanza che nella presente fattispecie possono assumere eventuali carenze attribuibili ad un’Amministrazione in relazione a determinazioni assunte in passato.

Esse non giustificano né, tantomeno, impongono l’astensione della stessa Amministrazione dall’adozione di decisioni conformi a legge e – in ogni caso – non possono costituire motivo di illegittimità di quest’ultime.

La legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere primariamente valutata in relazione alla disciplina che regolamenta i poteri dell’Amministrazione procedente o, comunque, deve essere oggetto di esame prendendo in considerazione essenzialmente la correttezza dell’operato dell’Amministrazione in relazione al caso concreto. L’eventuale contraddittorietà con ulteriori, diverse decisioni già assunte dall’Amministrazione assume rilevanza nei limiti in cui il cambiamento di orientamento si rivela “ingiustificato” ma – comunque – non vale ad inficiare la legittimità di provvedimenti che di per sé si rivelano conformi al dettato normativo.

In base alla suddetta motivazione, priva di errori logico-giuridici, il Tar, tenuto conto della sussistenza del vincolo, ha escluso che l’avvenuto rilascio – nel 2008 – di un permesso di costruire in carenza dell’autorizzazione paesistica o, ancora, il rilascio di certificati possano aver – eventualmente – avuto rilevanza nell’indurre in errore circa la regolamentazione dell’area.

Prive di riscontro sono, dunque, le censure mosse dall’appellante avverso la sentenza di primo grado, per aver fondato la legittimità del provvedimento di autotutela sulla mera esigenza di ristabilire la legalità amministrativa.

Dalla lettura della sentenza emerge chiaramente che il Tar, dopo aver esaminato la normativa applicabile alla fattispecie in esame e preso atto della sussistenza del vincolo paesaggistico in virtù del P.T.P.R., ha ritenuto necessaria la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, rinvenendo già in essa l’interesse pubblico, sotteso al provvedimento di annullamento in autotutela impugnato.

Infatti, con l’autorizzazione paesaggistica l’Amministrazione valuta la compatibilità dell’opera con il paesaggio, per cui la sua assenza ostacola l’Amministrazione nel perseguimento della tutela del bene primario “paesaggio”: rimuovere la DIA per mancata acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica significa tutelare l’interesse pubblico al paesaggio.

Fa. to. Fa. S.r.l., infine, contesta l’utilizzazione dello strumento del commissario ad acta in luogo del consulente tecnico d’ufficio, unica figura tecnicamente deputata alla risoluzione di quesiti di natura tecnica, necessari per la decisione.

Anche questo motivo è infondato.

La consulenza tecnica d’ufficio è uno strumento di valutazione delle prove già fornite dalle parti (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato sez. V, sentenza n. 879/2015), con specifico riguardo a questioni di carattere tecnico; essa mira a fornire al giudice amministrativo l’apporto di cognizioni tecniche da lui non possedute (cfr. art. 63 comma 4 c.p.a.: “qualora reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare di l’esecuzione di una verificazione ovvero, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica”).

Nel caso di specie il giudice ha richiesto all’Amministrazione di fornire chiarimenti in ordine alla situazione giuridica-fattuale dell’immobile di proprietà della società (art. 64, comma 1, c.p.a.: “spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”).

Nel processo amministrativo, infatti, il legislatore ha escluso l’operatività delle preclusioni processuali, potendo il giudice adiuvare le parti nell’adempimento dell’onere probatorio, invitandole a produrre prove o ad integrarle se appaiono incomplete.

Il Tar, pertanto, nel pieno rispetto del dettame codicistico, ritenendo che la P.A. fosse nella piena possibilità di fornire detti chiarimenti, in quanto attinenti alla regolazione urbanistica del territorio del Comune di (omissis), ha invitato il Comune a completare la propria allegazione documentale.

Solo dopo aver riscontrato l’inadempimento del Comune, il giudice ha fatto ricorso alla nomina del Commissario ad acta, il quale è organo ausiliario del giudice, destinato ad adempiere alle disposizioni che l’organo giudicante gli abbia delegato.

Per tali ragioni appaiono insussistenti le contestazioni mosse all’operato del Tar, in quanto è di tutta evidenza che il Commissario ad acta, quale longa manus del giudice, non solo è organo imparziale e terzo (alla parte, infatti, è consentito ricusare il Commissario nei casi previsti dall’art. 51 c.p.c., norma attinente all’organo giudicante), ma anche il soggetto preposto a colmare l’inadempimento dell’Amministrazione alla richiesta di chiarimenti formulata dal TAR.

Per le ragioni sopra esposte l’appello è infondato e deve essere respinto, con conseguente rigetto anche della domanda di risarcimento del danno.

Si deve, infine, confermare la dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi proposti in primo grado dal sig. Co., con conseguente rigetto dell’appello incidentale, giacché i ricorsi di primo grado furono proposti per l’accertamento dell’illegittimità della DIA, la quale è stata annullata in via di autotutela dall’Amministrazione comunale.

Come afferma giurisprudenza unanime (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V, 23 dicembre 2008, n. 6530) la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse in ordine al ricorso giurisdizionale è, in via di principio, ricollegabile al verificarsi di una situazione oggettivamente incompatibile con la realizzazione dell’utilità o della situazione di vantaggio alla quale mira il ricorso giurisdizionale medesimo, di modo che il suo esito eventualmente positivo per il ricorrente non potrebbe più giovare a quest’ultimo. La dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso certifica che nessun effetto utile può essere conseguito dal ricorrente con l’accoglimento del ricorso (cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2003, n. 1) circostanza, questa, che si verifica anche quando l’amministrazione adotta nelle more del giudizio un nuovo provvedimento, che fissi un diverso assetto degli interessi, sicché gli interessi in gioco risultano regolati dal nuovo atto, e l’eliminazione giurisdizionale di quello impugnato non sarebbe di alcuna utilità (Cons. Stato, sez. VI, 31 luglio 2003, n. 4440).

Il TAR, pertanto, preso atto dell’annullamento in autotutela della DIA, nonché della legittimità di tale annullamento, ha accertato la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dei ricorsi e, per tale motivo, li ha dichiarati improcedibili.

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

La prevalente soccombenza nel merito della società Fa. to. Fa. S.r.l. consente di condannare quest’ultima a rifondere le spese del presente grado di giudizio al sig. Co., che si liquidano come da dispositivo.

La differente incidenza causale all’instaurazione del presente procedimento giudiziario giustifica, invece, la compensazione delle spese processuali fra la società Fa. to. Fa., il Comune di (omissis), la Regione Lazio e la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello proposto dalla società Fa. to. Fa. s.r.l. lo respinge.

Respinge, altresì, l’appello incidentale proposto dal sig. Co..

Condanna la società Fa. to. Fa. s.r.l. al pagamento delle spese e competenze del presente grado di giudizio in favore del sig. Co., che si liquidano complessivamente in € 3.000,00 (tremila/00) oltre IVA e CPA.

Compensa le spese del presente grado di giudizio fra la società Fa. to. Fa. s.r.l., il Comune di (omissis), la Regione Lazio e la Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 settembre 2015 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio – Presidente

Nicola Russo – Consigliere, Estensore

Raffaele Potenza – Consigliere

Andrea Migliozzi – Consigliere

Giulio Veltri – Consigliere

Depositata in Segreteria il 02 febbraio 2016.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *