Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 13 luglio 2017, n. 3461

L’accesso civico di cui al d.lgs. 14 marzo 2013 n. 33 disciplina situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli artt. 22 ss. l. n. 241/1990(Cons. Stato, sez. VI, 20 novembre 2013 n. 5515). Mentre nel caso dell’accesso civico l’ordinamento giuridico conferisce ai cittadini una posizione strumentale ad uno status, onde consentire agli stessi una partecipazione attiva alla vita delle istituzioni, anche in funzione di lata vigilanza sul corretto funzionamento delle stesse (di modo che tale posizione non presuppone una preesistente situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma, appunto, uno status), al contrario, il diritto di accesso disciplinato dalla l. n. 241/1990 appare oggi ancor più chiaramente afferire strumentalmente alla titolarità di posizioni giuridiche sostanziali che – anche attraverso di esso – si intendono tutelare da parte del loro titolare

 

Consiglio di Stato

sezione IV

sentenza 13 luglio 2017, n. 3461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7694 del 2016, proposto da:

Ma. Pa., rappresentata e difesa dall’avvocato Al. Ci., con domicilio eletto presso lo studio Ho. Le. in Roma, via (…);

contro

Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale dell’Emilia Romagna, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Fa. Ra. non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA, SEZ. I n. 00798/2016, resa tra le parti, concernente diniego di accesso ai documenti amministrativi

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale dell’Emilia Romagna;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti l’avvocato Cinti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con l’appello in esame, la signora Patrizia Mattutini impugna la sentenza 31 agosto 2016 n. 798, con la quale il TAR per l’Emilia Romagna, sez. I, ha rigettato il suo ricorso in materia di accesso ai documenti amministrativi.

L’appellante – che dichiara la pendenza di una causa civile con l’ex coniuge per la determinazione dell’assegno di divorzio – intende ottenere una sentenza dichiarativa dell’illegittimità del diniego parziale di accesso opposto dall’Agenzia delle entrate – Direzione regionale dell’Emilia Romagna, sulla sua istanza di accesso del 11 gennaio 2016, nonché per ottenere sentenza dichiarativa del suo diritto a prendere visione ed estrarre copia degli atti con la medesima istanza richiesti, ed in particolare dei dati riguardanti l’ex coniuge presenti nell’Archivio dei rapporti finanziari e delle comunicazioni ex art. 7, co. 6, DPR n. 605/1973.

L’Agenzia delle Entrate ha fondato il diniego sul difetto di previa autorizzazione alla ricerca telematica da parte del Presidente del Tribunale, ex art. 492-bis c.p.c..

La sentenza impugnata afferma, in particolare:

– poiché i dati cui la ricorrente intende accedere ineriscono ad una causa civile relativa all’assegno divorzile, la controversia “rientra a pieno titolo nelle cause in materia di diritto di famiglia, in riferimento alle quali – per quanto concerne la possibilità di ricerca telematica dei relativi dati nel suddetto archivio dei rapporti finanziari – l’art. 155-sexies disp. att. c.p.c., introdotto dal d.l. n. 132 del 2014, conv. in l. n. 162 del 2014, ha esteso in favore della parte creditrice in quelle controversie… alcune parti della disciplina del processo esecutivo civile, con particolare riferimento alla possibilità di ricerca con modalità telematiche dei beni ex art. 492-bis c.p.c., su determinate banche dati, tra le quali vi è l’Archivio dei rapporti finanziari tenuto dall’Agenzia delle Entrate”;

– pertanto, sussiste “la piena applicabilità alla causa in esame della normativa processuale civile indicata dalla Agenzia delle entrate nel gravato diniego parziale di accesso”, e, segnatamente, di quella che prevede espressamente che la ricerca telematica possa essere consentita solo previo rilascio di autorizzazione del Presidente del Tribunale”;

– né tale disposizione è stata successivamente modificata, nel senso di rendere non più necessaria tale autorizzazione.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

errata e falsa rappresentazione dei presupposti in diritto; errata applicazione degli artt. 22, 24 e 25, u.c., l. n. 241/1990; eccesso di potere per motivazione contraddittoria; ciò in quanto:

– ” il giudice adito in prime cure ha sovrapposto due discipline tra loro incompatibili, una, che attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa (art. 22, co. 2,), perfeziona l’esercizio del diritto soggettivo di cui alla l. n. 241/1990, con una disciplina di natura processuale che… è riferibile alla situazione in essere nel giudizio civile in corso, è rimessa alla valutazione del giudice della causa, che può ordinare ai sensi dell’art. 210 c.p.c. l’esibizione di una determinata documentazione”;

– “nel mentre l’esercizio del diritto soggettivo non incontra limiti se non… nella delibazione dei presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva e nella verifica di inesistenza delle preclusioni di cui all’art. 24 della l. n. 241/1990; l’ammissibilità dell’altro procedimento, ex artt. 492-bis e 155-quinquies, è soggetto alla valutazione del G.U., il quale nell’adozione dei provvedimenti istruttori emanati sulla base del proprio convincimento può (e nemmeno deve) consentire l’accesso a quelle banche dati, in ragione della scarsa attendibilità dei documenti probatori offerti in corso di causa”.

Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in relazione al difetto di specificità del motivo di impugnazione della sentenza, poiché detto motivo “si limita ad asserire in via del tutto apodittica che il diritto soggettivo di cui alla legge n. 241/1990 non incontra limiti e, in modo generico ed astratto, che le due discipline – quella processualcivilistica e quella contenuta nella l. n. 241/1990 – non sono sovrapponibili”.

Ha comunque concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’udienza di trattazione in camera di consiglio, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, per le ragioni e con le integrazioni di motivazione di seguito esposte.

Peraltro, ancorchè ne sia superfluo l’esame alla luce del rigetto del ricorso, è infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dall’Agenzia delle Entrate, posto che, per il tramite del motivo proposto, l’appellante intende affermare, in sostanza, la “autonomia” del procedimento volto a far valere, nei confronti della pubblica amministrazione, il proprio diritto di accesso ai documenti amministrativi. Essa sostiene di agire, dunque, in forza di una posizione sostanziale autonoma – qualificata in termini di “diritto soggettivo” – conferitale dalla l. n. 241/1990, che solo in questa legge incontra i “presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva” e le eventuali preclusioni dettate dall’art. 24.

In definitiva, l’appellante censura la sentenza per non avere essa esaminato il caso sottoposto con esclusivo riferimento alla citata l. n. 241/1990, ma sovrapponendo “due discipline tra loro incompatibili”. Nei termini ora riportati, appare evidente come non possa sostenersi il difetto di specificità del motivo di appello.

3.1. L’art. 22 della l. 7 agosto 1990 n. 241, nel testo introdotto dalla l. n. 15/2005, afferma che per diritto di accesso si intende “il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (co. 1, lett. a), intendendosi per “interessati”, “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso” (co. 1, lett. b).

Il successivo co. 2 (nel testo introdotto dalla l. n. 69/2009), afferma che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza”.

Quanto all’oggetto dell’accesso, e cioè al documento amministrativo, l’ordinamento presenta almeno due definizioni:

– la prima, contenuta nell’art. 22, co. 1, lett. d) della l. n. 241/1990, secondo la quale si intende per tale “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”;

– la seconda, contenuta nell’art. 1, co. 1, lett. a) del DPR 28 dicembre 2000 n. 445, secondo il quale costituisce documento amministrativo “ogni rappresentazione, comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa”.

Come è noto, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato (dec. 18 aprile 2006 n. 6), ha qualificato il “diritto di accesso” come una situazione soggettiva che, più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscere non solo ai diritti soggettivi ma anche agli interessi legittimi), risulta caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi).

Sempre secondo l’Adunanza Plenaria, “il carattere essenzialmente strumentale” di tale posizione “si riflette inevitabilmente sulla relativa azione, con la quale la tutela della posizione soggettiva è assicurata. In altre parole, la natura strumentale della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento caratterizza marcatamente la strumentalità dell’azione correlata e concentra l’attenzione del legislatore, e quindi dell’interprete, sul regime giuridico concretamente riferibile all’azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell’interesse ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi controinteressati”.

L’Adunanza Plenaria, pur assumendo che il “procedere all’esatta qualificazione della natura della posizione soggettiva coinvolta” non riveste utilità “nella specie”, procede, in sostanza, ad una vera e propria “declassificazione” del diritto di accesso, non più ritenuto posizione sostanziale autonoma (non fornendo essa “utilità finali”), ma solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto soggettivo sia di interesse legittimo.

In tal modo, l’arresto dell’Adunanza Plenaria ha inteso superare sia configurazioni della posizione “diritto di accesso” che, facendo leva sul carattere impugnatorio del giudizio, lo hanno in precedenza configurato come interesse legittimo (Cass., Sez. Un., 27 maggio 1994 n. 5216; Cons. St., Ad. Plen. 24 giugno 1999 n. 16), sia posizioni che, facendo leva sul carattere vincolato del potere esercitato dall’amministrazione in sede di accesso, lo hanno, invece, definito come autonomo diritto soggettivo (Cons. Stato, sez. VI, 12 aprile 2005 n. 1679 e 27 maggio 2003 n. 2938; sez. V, 10 agosto 2007 n. 4411).

In adesione a quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, questa Sezione ha già avuto modo di rilevare (Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2012 n. 1162), con considerazioni che si intendono riconfermare nella presente sede, che, se è vero che la legge si esprime in termini di “diritto di accesso”, è altrettanto vero come di tale espressione deve essere sottolineato l’uso affatto atecnico. E ciò in quanto è ben evidente la “strumentalità” dell’accesso collegato alla “tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, come si evinceva dal precedente testo dell’art. 22 l. n. 241/1990, ed ora dalla definizione dei soggetti “interessati”, contenuta nel medesimo articolo.

Né sembra assumere valore rilevante (al fine di condurre ad una diversa interpretazione) la circostanza che, nell’art. 29, co. 2-bis, l’accesso è ritenuto attinente “ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lett. m) della Costituzione”, e dunque ai “diritti civili e sociali”.

Ciò che il legislatore in questo caso considera non è il “diritto di accesso” in quanto posizione soggettiva, bensì “l’accesso” come fenomeno, cioè inteso oggettivamente come concreta esplicazione di attività.

Inoltre, l’essere un istituto (in questo caso, l’accesso) considerato livello essenziale di una prestazione concernente i diritti civili e sociali non comporta affatto che l’istituto stesso costituisca di per sé una posizione sostanziale o, più propriamente, un diritto, e non una posizione strumentale. Anzi, se esso attiene alle prestazioni che i pubblici poteri devono garantire “verso” i diritti civili e sociali, ancora una volta risalta non già la sostanzialità autonoma, bensì la strumentalità della posizione denominata “diritto di accesso”

Il diritto di accesso si presenta, dunque, come posizione strumentale riconosciuta ad un soggetto che sia già titolare di una diversa “situazione giuridicamente tutelata”, (diritto soggettivo o interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi collettivi o diffusi) e che abbia, in collegamento a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi.

3.2. Questo Consiglio di Stato (sez. IV, n. 1162/2012, cit.) ha anche chiarito che la posizione giuridica soggettiva preesistente, cui strumentalmente inerisce il diritto di accesso, non può essere individuata nel mero ed autonomo “diritto all’informazione”, cui pure si è riferita parte della giurisprudenza, che in tal modo ne ha attenuato ogni funzione strumentale alla tutela (giurisdizionale e non) di diritti soggettivi o di interessi legittimi, e che lo ha affermato sussistente in quanto tale, come una posizione giuridicamente rilevante idonea a legittimare (non la tutela ma) la mera richiesta (Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 1994 n. 1243).

Ciò che si definisce “diritto all’informazione”, infatti, risulta oggetto delle medesime osservazioni rivolte al diritto di accesso, posto che esso si presta ad essere configurato solo in relazione ad una preesistente posizione di diritto soggettivo o ad uno status, ed a questi ultimi esso risulta funzionale, mentre sfumano notevolmente i caratteri della supposta posizione, laddove si tenti di fornirne una configurazione autonoma; laddove se ne provi cioè a descrivere l’opponibilità/esigibilità verso i terzi (lato esterno) ovvero la relazione interna con una resche ne costituisce l’oggetto in senso giuridico (bene).

D’altra parte, anche a volere configurare la sussistenza di un autonomo diritto all’informazione, occorre non limitarsi alla sua mera affermazione, ma individuarne il momento genetico e i presupposti determinativi della sua titolarità.

Così procedendo, si rileva chetale “diritto” finisce inevitabilmente per collegarsi ad una precedente posizione giuridica o a uno status, all’esplicazione delle cui facoltà risulta strumentale.

La necessità di superare il collegamento del diritto di accesso ad un autonomo diritto all’informazione (evitando, dunque, ciò che sembra essere esplicazione di una mera tecnica di rinvio speculare), onde collegarlo (e renderlo strumentale) ad una ben più solida posizione giuridica sostanziale, risulta indispensabile, perché solo in questo modo:

– per un verso, risulta possibile l’analisi, richiesta dalla legge (art. 22, co. 1, lett. b), della sussistenza dei requisiti di “diretto, concreto e attuale” da rinvenirsi nell’interesse all’accesso, laddove tali requisiti, riferiti ad un “diritto all’informazione” finiscono per essere evanescenti o frutto di interpretazioni casuali e/o arbitrarie;

– per altro verso, risulta possibile evitare che l’esercizio del diritto di accesso ai sensi della legge n. 241 si risolva in un controllo generalizzato sull’attività della pubblica amministrazione (che la giurisprudenza nega essere possibile: Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2002 n. 5814).

Ampliando (nel senso di rendere di fatto indeterminato) il diritto di accesso, attraverso il collegamento con un (altrettanto indeterminato) diritto all’informazione, e dunque rendendo poco definibili, sul piano dogmatico, la struttura, la funzione e i limiti del diritto di accesso, si determina altresì una erosione dell’istituto del segreto di ufficio, ex art. 15 DPR n. 3/1957, anche in relazione alla sua funzione di parametro per la sussistenza del reato ex art. 326 c.p. (argomentando da Cass. pen., sez. VI, 17 maggio 2001 n. 20097; 19 febbraio 1999 n. 2183; Cons. St., sez. IV, 31 dicembre 2003 n. 9276).

Quanto sinora affermato, non nega, ovviamente, che lo status di un soggetto, ovverosia la titolarità di posizioni soggettive comporti anche la titolarità di poteri e facoltà, entro i quali ben può rientrare, nei sensi e limiti delle previsioni di legge, quella “posizione satellitare” che può essere definita “diritto all’informazione”.

Ciò che si intende precisare è che tale “diritto” si presenta privo di una sua sostanziale autonomia, essendo esso sempre ricollegato, appunto, a status e posizioni soggettive, alla cui affermazione e/o tutela strumentalmente si accompagna. Di modo che proprio perché è esso stesso posizione strumentale, non può costituire fondamento di un’altra posizione strumentale, quale è il diritto di accesso.

3.3. Le considerazioni innanzi riportate in tema di diritto di accesso inteso (non condivisibilmente) come “diritto all’informazione”, risultano rafforzate dalla disciplina dell'”accesso civico a dati e documenti”, prevista dall’art. 5 d.lgs. 14 marzo 2013 n. 33, dove, a fronte dell’obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati (come indicati dal legislatore), è riconosciuto “il diritto di chiunque di richiedere i medesimi” (co. 1); ed inoltre (co. 2), “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha il diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’art. 5-bis”.

Come la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. VI, 20 novembre 2013 n. 5515), l’accesso civico disciplina situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli artt. 22 ss. l. n. 241/1990.

Può, in tal senso, precisarsi che, mentre nel caso dell’accesso civico l’ordinamento giuridico conferisce ai cittadini una posizione strumentale ad uno status, onde consentire agli stessi una partecipazione attiva alla vita delle istituzioni, anche in funzione di lata vigilanza sul corretto funzionamento delle stesse (di modo che tale posizione non presuppone una preesistente situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma, appunto, uno status); al contrario, il diritto di accesso disciplinato dalla l. n. 241/1990 appare oggi (così ulteriormente confermando le conclusioni dell’Adunanza Plenaria n. 6/2006) ancor più chiaramente afferire strumentalmente alla titolarità di posizioni giuridiche sostanziali che – anche attraverso di esso – si intendono tutelare da parte del loro titolare.

4. Alla luce di quanto sinora esposto, appare evidente come non può essere condiviso quanto sostenuto dall’appellante, laddove essa afferma l’esistenza di “un diritto fondamentale ed autonomo rispetto a qualsiasi altro tipo di azione” (pag. 7 appello), che non incontra limiti se non “nella delibazione dei presupposti che consentono l’ingresso dell’azione ostensiva e nell’inesistenza delle preclusioni di cui all’art. 24 della l. n. 241/1990” (pag. 8).

Come si è detto, il diritto di accesso di cui alla l. n. 241/1990 non è una posizione sostanziale autonoma, ed in particolare non è un diritto soggettivo, ma costituisce, più limitatamente, una situazione strumentale in funzione di tutela di preesistenti ed autonome posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo.

Non di meno, pur configurato entro tali termini, il diritto di accesso ai documenti amministrativi pone il problema del suo “ambito di applicazione” e dei suoi rapporti con altri “metodi” di acquisizione documentale in funzione probatoria, previsti dall’ordinamento; dello stabilire se, in definitiva, allorché l’ordinamento giuridico prevede particolari procedimenti e modalità di acquisizione di documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, ciò risulta “prevalente” se non “escludente” rispetto all’acquisizione di documenti mediante esercizio del diritto di accesso; se, in altre parole, tale diritto di accesso sia esercitabile indipendentemente dalle forme di acquisizione probatoria previste dalle norme processuali.

La sentenza impugnata., nella misura in cui ha accordato prevalenza alle disposizioni del codice di procedura civile in tema di accesso ai dati presenti nell’Archivio dei rapporti finanziari (artt. 492-bis cpc, art. 155-quinquies disp. att. c.p.c.), ha, in sostanza, affermato un “limite” all’applicazione dell’art. 22 ss. l. n. 241/1990, in presenza di norme che diversamente dispongono in tema di acquisizione di documenti amministrativi, segnatamente in sede processuale.

Al contrario, l’appellante, nel sostenere l’error in iudicando della decisione, afferma l’autonomia del diritto di accesso come configurato dalla l. n. 241/1990, giungendo ad affermare che “il giudice adito in prime cure ha sovrapposto due discipline tra loro incompatibili” (pag. 7 app.).

A tal fine, giova subito precisare che il precedente di questa Sezione (sez. IV, 14 maggio 2014 n. 2472) – richiamato da parte appellante e sul quale si fonderebbe giurisprudenza del medesimo TAR, di segno opposto a quello della sentenza impugnata – lungi dall’affrontare espressamente il tema come innanzi prospettato (i rapporti, cioè, tra diritto di accesso e norme processuali di acquisizione di documenti amministrativi), si limita ad affrontare il tema nell’ottica del “bilanciamento” tra diritto di accesso e tutela della riservatezza, giungendo infine a consentire la sola visione dei dati tributari richiesti.

Afferma la richiamata sentenza n. 2472/2014:

“L’equilibrio tra accesso e privacy è dato, dunque, dal combinato disposto degli artt. 59 e 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice della privacy) e delle norme di cui alla legge n. 241 del 1990: la disciplina che ne deriva delinea tre livelli di protezione dei dati dei terzi, cui corrispondono tre gradi di intensità della situazione giuridica che il richiedente intende tutelare con la richiesta di accesso: nel più elevato si richiede la necessità di una situazione di “pari rango” rispetto a quello dei dati richiesti; a livello inferiore si richiede la “stretta indispensabilità” e, infine, la “necessità”.

In tutti e tre i casi, quindi, l’istanza di accesso deve essere motivata in modo ben più rigoroso rispetto alla richiesta di documenti che attengono al solo richiedente: in particolare, si è osservato che, fuori dalle ipotesi di connessione evidente tra “diritto” all’accesso ad una certa documentazione ed esercizio proficuo del diritto di difesa, incombe sul richiedente l’accesso dimostrare la specifica connessione con gli atti di cui ipotizza la rilevanza a fini difensivi e ciò anche ricorrendo all’allegazione di elementi induttivi, ma testualmente espressi, univocamente connessi alla “conoscenza” necessaria alla linea difensiva e logicamente intellegibili in termini di consequenzialità rispetto alle deduzioni difensive potenzialmente esplicabili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1568).

Nel caso di specie la cura e la tutela degli interessi economici e della serenità dell’assetto familiare, soprattutto nei riguardi dei figli minori delle parti in causa, prevale o quantomeno deve essere contemperata con il diritto alla riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso a tali documenti “sensibili” del coniuge”.

Come è dato osservare, la giurisprudenza richiamata, pur non affrontando il tema dei rapporti tra diritto di accesso e altre norme di acquisizione di documenti detenuti da pubbliche amministrazioni, già nel confronto tra affermazione del diritto di difesa e tutela della riservatezza, acclude alla situazione oggetto (anche) della presente controversia, livelli di particolare attenzione. Se, infatti, la decisione richiamata giunge ad accordare comunque prevalenza al diritto di difesa, non di meno richiede una allegazione particolarmente rigorosa in ordine alla indispensabilità dei documenti ed alla loro stretta connessione con le esigenze difensive.

5. Orbene, nel caso di specie sono presenti due aspetti che non possono non essere considerati:

– in primo luogo, il diritto alla tutela giurisdizionale, per il tramite della acquisizione di documenti amministrativi al processo, è assicurato e disciplinato dal relativo codice di rito (codice di procedura civile);

– in secondo luogo, il giudizio nell’ambito del quale una delle parti intende utilizzare documenti detenuti da pubbliche amministrazioni, è un giudizio tra soggetti privati, al quale la pubblica amministrazione è totalmente estranea.

5.1. Appare, dunque, evidente come non vi sia, nel caso di specie, alcun vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 Cost., poiché l’ordinamento, lungi dall’escludere la possibilità di utilizzazione (mediante acquisizione al giudizio) di documenti detenuti dalla pubblica amministrazione, ben prevede tale possibilità, puntualmente disciplinandola.

E ciò, per quanto in particolare riguarda il processo civile, fin dagli artt. 211 e 213 c.p.c., disciplinanti, rispettivamente, il primo di essi l’ordine di esibizione di documenti rivolto al terzo; il secondo di essi, la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione “relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo”.

Anzi, è da aggiungere che – proprio in quanto i documenti da utilizzare nel processo (e detenuti dalla Pubblica Amministrazione), riguardano una delle due parti private in giudizio – al diritto alla tutela giurisdizionale del soggetto che intende avvalersi dei documenti amministrativi, occorre contrapporre l’altrettanto riconosciuto e tutelato diritto di difesa dell’altra parte.

Proprio per questo, le norme processualcivilistiche sottopongono alla valutazione del giudice la esibizione di documenti ordinata al terzo (artt. 211, 492-bis cpc). Ciò perché l’acquisizione di prove documentali non può che avvenire se non nella sede tipica processuale e nel rispetto del principio del contraddittorio; ed inoltre perché il giudice “deve cercare di conciliare nel miglior modo possibile l’interesse della giustizia col riguardo dovuto ai diritti del terzo”, se del caso ordinandone la citazione in giudizio (art. 211 cpc).

La possibilità di acquisire extra iudicium i documenti amministrativi dei quali una delle parti intende avvalersi in giudizio si traduce in una forma di singolare “aggiramento” delle norme che governano l’acquisizione delle prove e costituisce un vulnus per il diritto di difesa dell’altra parte, la quale, lungi dal potersi difendere nella sede tipica prevista dall’ordinamento processuale, si troverebbe a dover esporre le proprie ragioni non già dinanzi ad un giudice, bensì innanzi alla pubblica amministrazione, in qualità di controinteressato.

D’altra parte, se l’accesso ai documenti amministrativi è riconosciuto in funzione di una “situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 241/1990), appare evidente come l’esigenza di tutela risulti già ampiamente assicurata attraverso i mezzi tipici previsti nel processo instaurato.

Nei sensi ora esposti, l’indispensabilità del documento ai fini di tutela giurisdizionale (cui la giurisprudenza – v. sent. n. 2472/2014 di questo Consiglio di Stato, già citata – ricollega la possibile ostensione), deve essere intesa anche come impossibilità di acquisire il documento, anche attraverso forme processuali tipiche, già previste dall’ordinamento.

Né è secondario sottolineare – come si è già innanzi richiamato – che, nel caso di specie, l’accesso ai documenti amministrativi non costituisce “rilevante finalità di pubblico interesse”, né è volto a “favorire la partecipazione” del privato all’attività dell’amministrazione, né ad “assicurarne l’imparzialità e la trasparenza” (art. 22, co. 2, l. n. 241/1990), ma, ben diversamente, esso, lungi dall’essere volto alla tutela (procedimentale e/o processuale) del privato nei confronti della pubblica amministrazione, tende a definirsi come un utilizzo improprio di uno strumento assicurato dall’ordinamento, in modo da alterare – nella misura in cui aggira gli strumenti processuali tipici – la parità processuale delle parti in un giudizio civile, garantita (anche) dalla previa valutazione del giudice..

5.2. E’ appena il caso di sottolineare che ciò che si è ora affermato con riferimento ad un giudizio tra privati (e, dunque, con riferimento a norme processualcivilistiche), non è immediatamente applicabile al processo amministrativo; né, per converso, la possibilità di instaurare un giudizio avverso la pubblica amministrazione e, in parallelo, esercitare il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce elemento per contraddire le conclusioni alle quali si è innanzi pervenuti.

Ed infatti, nel giudizio amministrativo è espressamente enunciato l’obbligo gravante sulla pubblica amministrazione (v. ora art. 46 Cpa) di produrre, nel costituirsi in giudizio, “l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio”.

Ciò significa che la pubblica amministrazione, evocata in giudizio come parte, con riferimento ad una pluralità di atti, non ha “libertà” di articolare una propria linea difensiva, sottraendo i documenti al giudizio. Il che rende sia possibile il contestuale diritto di accesso, sia l’acquisizione, anche di ufficio, di documenti amministrativi al giudizio (artt. 63, 64, co. 3, 65, co. 3, Cpa).

6. Da quanto esposto, consegue il rigetto dell’appello proposto, con conferma della sentenza impugnata, poiché l’acquisizione al processo di documenti amministrativi deve avvenire per il tramite e nel rispetto delle norme disciplinanti lo specifico processo.

Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

Sezione Quarta,

definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Ma. Pa. (n. 7694/2016 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Compensa tra le parti spese ed onorari del presente giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2017 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi – Presidente

Oberdan Forlenza – Consigliere, Estensore

Leonardo Spagnoletti – Consigliere

Luca Lamberti – Consigliere

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