Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 28 dicembre 2016, n. 5513

L’art. 10, comma 1, del d.P.R 252/1998, applicabile ratione temporis, prevede l’obbligo per le Pubbliche Amministrazioni di acquisire le informazioni antimafia in relazione a determinate soglie di valore, corrispondenti: – per gli appalti di lavori, serviti e forniture, ad un valore pari o superiore a quello di rilevanza comunitaria (lettera a); – per le concessioni di beni pubblici, ovvero di contributi, finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo (lettera b), nonché per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi concernenti la realizzazione di lavori pubblici o la prestazione di servivi o forniture pubbliche (lettera c), ad un valore superiore ai 300 milioni di lire, ma ciò non impedisce la possibilità di acquisire comunque la documentazione antimafia, non essendovi un divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia indicata. Di più, anche a prescindere dalla legittimità della richiesta d’informazione antimafia, il contenuto interdittivo della stessa vale a precludere la nascita di un rapporto contrattuale tra la stazione appaltante ed i soggetti coinvolti dall’ informativa o, ancora, a paralizzare le sorti di un rapporto già sorto tra le parti, in quanto la richiesta di informazioni fatta alla Prefettura, anche se non obbligatoria, è comunque coerente con la finalità dell’informativa interdittiva, in quanto volta ad evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata, non essendo all’evidenza possibile delimitare l’applicazione del principio di legalità, che informa l’intero ordinamento giuridico

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 28 dicembre 2016, n. 5513

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8895 del 2015, proposto dalla -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ro. Ma. La. (C.F. (omissis)) e Pa. Cu. (C.F. (omissis), con domicilio eletto presso l’avvocato Pa. Lo Ca. in Roma, via (…);

contro

Il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

il Ministero dell’Interno e altri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (…);

nei confronti di

La Provincia di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, Sezione I, n. 1264/2015, resa tra le parti, concernente la decadenza da un contratto d’appalto a seguito di interdittiva antimafia – risarcimento dei danni.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Economia e delle Finanze, del Ministero della Difesa, del Ministero dell’Interno e dell’U.T.G. – Prefettura di Vibo Valentia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 novembre 2016 il Cons. Raffaello Sestini e uditi per le parti l’avvocato Sa. Di Cu., su delega dell’avvocato Pa. Cu., e l’avvocato dello Stato Ma. La Gr.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1 – L’appellante, operando da anni nel settore della ristorazione con somministrazione, nel 2013 partecipava alla gara indetta dal Comune di (omissis) per l’affidamento del servizio di mensa scolastica delle scuole dell’infanzia e primaria situate sul proprio territorio e con determinazione n. 34 del dirigente del Settore I° dell’Ente in data 4 febbraio 2014 si aggiudicava in via definitiva il servizio.

Con la successiva determinazione dirigenziale del 6 marzo 2014, n. 63, il Comune dichiarava la decadenza dal diritto alla stipula del contratto, in ragione dell’informativa antimafia rilasciata dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Vibo Valentia su richiesta dell’Amministrazione provinciale di Vibo Valentia, occupatasi dell’espletamento della gara quale stazione unica appaltante.

2 – La predetta determinazione dirigenziale veniva impugnata davanti al Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, unitamente alla informativa prefettizia di cui alla nota datata 4 marzo 2014, n. 7047, e alle relazioni delle Forze dell’Ordine su cui quest’ultima si era fondata (informativa Nucleo P.T. Guardia di Finanza di Vibo Valentia datata 6 maggio 2008, nota Legione Calabria del Comando Provinciale di Vibo Valentia n. 019903/19 del 29 novembre 2013), deducendo che:

(1) l’informativa prefettizia era stata emanata in violazione degli art. 84 e ss. del D. Lgs. n. 159/2011, degli art. 1 e 3 della L.241/1990 e dell’art. 97 della Costituzione, ed era inoltre inficiata dai vizi di eccesso di potere dovuto a errore di fatto, travisamento, difetto d’istruttoria, difetto di motivazione, irragionevolezza, difetto e falsità dei presupposti, disparità di trattamento, illogicità manifesta e contraddittorietà, trattandosi di appalto con importo a base d’asta di E 98.662,72 oltre IVA ed oneri di sicurezza pari a E 1337, 28 e, quindi, ben al di sotto della soglia a partire dalla quale deve essere acquisita la documentazione antimafia di cui all’art. 84 del citato decreto legislativo. Quindi l’Amministrazione provinciale era incorsa nella violazione della predetta norma, allorquando aveva interessato la Prefettura Ufficio Territoriale del Governo di Vibo Valentia per acquisire la menzionata certificazione riguardante essa istante che, quindi, non avrebbe dovuto essere rilasciata;

(2) la contesta interdittiva emanata dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Vibo Valentia era stata a sua volta rilasciata in violazione degli art. 84 e ss., 91 e 94 del D. Lgs. 159/2011, degli art. 1, comma 2, 2, 3, 22 e 24 della L. 241/1990, nonché 97 della Costituzione ed era inoltre illegittima per eccesso di potere per errore di fatto, travisamento, difetto d’istruttoria, difetto di motivazione, irragionevolezza, difetto e falsità dei presupposti, disparità di trattamento, illogicità manifesta e contraddittorietà, mancanza del requisito dell’attualità del pericolo di condizionamento dell’istante da parte della criminalità organizzata, essendosi il giudizio fondato esclusivamente sul rapporto fra il titolare -OMISSIS- e il padre della di lui moglie -OMISSIS-, sul conto del quale si riferivano una serie di fatti e circostanze ritenute indicative della contiguità a contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso, pur trattandosi di un mero rapporto di affinità e non di parentela non rilevante per costante giurisprudenza;

(3) la medesima informativa era altresì illegittima per violazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 490/94 in relazione agli art. 84, comma 4, e 91 comma 6, del D. Lgs. n. 159/2011, degli art. 2727 e 2729 del codice civile ed inoltre per eccesso di potere dovuto a arbitrarietà, difetto del presupposto, di istruttoria, di motivazione, di illogicità, sviamento, iniquità poiché si era affermata la permeabilità della ricorrente agli interessi della criminalità organizzata di stampo mafioso benché dall’istruttoria espletata non fosse emersa la sussistenza di alcuna delle situazioni considerate sintomatiche della sussistenza di consimile situazione dalle menzionate norme.

3 – Il Ministero dell’Interno e la Prefettura- Ufficio Territoriale del Governo di Vibo Valentia si costituivano in giudizio, al fine di resistere all’avversa impugnativa, deducendo la correttezza e legittimità del proprio operato e depositando documentazione.

4 – Il TAR con l’ordinanza n. 237 del 2014 negava l’invocata tutela cautelare e poi respingeva il ricorso con la sentenza appellata.

5 – La sentenza veniva appellata dalla -OMISSIS-, che deduceva quali motivi d’appello:

(1) La presenza di una motivazione stereotipata e disancorata dalla situazione di fatto, stante l’inidoneità dei fatti e delle circostanze menzionati nell’informativa a sorreggere il giudizio prognostico ad essa sotteso anche se considerati unitariamente, per l’irrilevanza dell’unico elemento su cui si era venuta a fondare l’informativa emessa nei confronti dell’impresa appellante, costituito dal rapporto di affinità fra il titolare della medesima e il -OMISSIS- sul conto del quale, peraltro, si riferiva di accadimenti di epoca remota e del suo essere imparentato con persone decedute da tempo, lamentando che il TAR aveva trascurato le ridette circostanze indicative del fatto che l’informativa non si era venuta a fondare su un quadro fattuale connotato da obiettività, congruità e concretezza;

(2) l’omesso apprezzamento di quanto dedotto nel secondo motivo di ricorso e poi in corso di causa al fine di dimostrare che l’impresa appellante non aveva mai stretto alcun accordo con l’impresa controllata dal -OMISSIS- con l’obiettivo di alterare gare d’appalto, né erano intercorsi rapporti commerciali o d’affari tra le medesime, ed inoltre la mancata valutazione del difetto di motivazione e d’istruttoria che inficiavano l’informativa incentrata esclusivamente sul legame parentale intercorrente fra il titolare dell’impresa appellante e il sig. -OMISSIS- ossia su un riferimento meramente tautologico, considerato che al di là di quanto riferito sul conto di questi, quasi pedissequamente ripetuto nella motivazione della sentenza appellata, non era stato addotto alcun elemento indicativo della capacità del -OMISSIS- di interferire nella gestione dell’impresa appellante e della sua contiguità a contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso.

(3) il mancato apprezzamento del primo motivo di ricorso, ribadendo che in molteplici occasioni in giurisprudenza è stato affermato che le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti non possono richiedere informative antimafia in vista della stipula di contratti di valore inferiore alla soglia di cui all’arti, comma 2, lett. e) del d.P.R. 252/98 ora art. 83 del D.Lgs. n. 159/2011.

6 – Le Amministrazioni appellate si sono costituite in giudizio ed hanno chiesto che il gravame sia respinto, deducendo che:

(a) l’istante si era aggiudicata un appalto di valore inferiore alla soglia a partire dalla quale la certificazione antimafia deve essere imprescindibilmente acquisita in vista della stipula del contratto, ma ciò non ostava a che la stazione appaltante, che ne aveva piena facoltà, ne facesse richiesta alla competente Prefettura Ufficio Territoriale del Governo e una volta acquisita l’informativa non poteva non tenersene conto;

(b) premessa l’ampia discrezionalità di cui dispongono le Prefetture nel valutare i fatti e le circostanze, il giudizio di pericolo era stato espresso dall’autorità competente in maniera non illogica, potendo essere i rischi di condizionamento mafioso nella gestione dell’impresa desunti da una pluralità di elementi riferiti alla sostanziale continuità o contiguità tra -OMISSIS- – attraverso l’impresa -OMISSIS- -, e la ditta del ricorrente, come risultanti da un’informativa della Guardia di Finanza di Vibo Valentia descritta nel provvedimento, essendo i titolari delle due ditte legati da vincoli di parentela e dalla partecipazione alle gare di appalto in simultanea, con la vittoria di una delle due mediante il ricorso a stratagemmi, e inoltre, nel 2006 la ditta -OMISSIS- si aggiudicava una gara di appalto e chiedeva di utilizzare i locali del -OMISSIS- per la preparazione dei pasti, potendosi ritenere che le due ditte costituissero un’unica entità creata per condizionare le gare. Infatti il signor -OMISSIS- risultava essere genero del signor -OMISSIS-, a sua volta coniuge convivente di -OMISSIS-a, titolare del citato Ristorante, interessato tra l’altro a sua volta da informativa interdittiva antimafia, ed il signor -OMISSIS-, secondo un provvedimento di fermo quale indiziato di delitto con sequestro preventivo, attraverso il citato ristorante intratteneva costanti rapporti con il Comune di (omissis) sull’acquisizione di appalti di mensa scolastica nell’interesse della famiglia mafiosa dei-OMISSIS-, oltre ad essere gravato da vicende per minaccia, detenzione abusiva di armi, danneggiamento, sottoposto alla sorveglianza speciale per anni due e titolare di ulteriori rapporti parentali con soggetti definiti nell’informativa come contigui a famiglie mafiose.

7 – Ritiene la Sezione che l’appello non è fondato e deve pertanto essere respinto.

Infatti l’appellata sentenza, pur dopo aver premesso alcune considerazioni generali sulla natura della c.d. “informativa antimafia” al fine di inquadrare la tematica toccata dalla presente controversia, espone ampiamente le specifiche e puntuali ragioni che non consentivano di apprezzare favorevolmente le censure dedotte dall’odierno appellante, in quanto impingenti negli ampi margini di discrezionalità riservati alla Prefettura e dalla stessa utilizzati in modo non irragionevole, sproporzionato o vessatorio verso l’odierna appellante.

8 – In particolare, così come esattamente evidenziato dall’appellata sentenza, non risulta fondata la censura di fondo, su cui si articolano quale necessaria premessa molte delle ulteriori doglianze, secondo cui la contestata informativa si era fondata esclusivamente o comunque prevalentemente sull’accertato rapporto parentale, rectius di affinità, con la suocera del titolare dell’impresa appellante, a propria volta titolare del “-OMISSIS-” e moglie del signor -OMISSIS- indicato come il gestore dello stesso ristorante.

Al contrario, la sentenza evidenzia come dall’istruttoria svolta dall’Amministrazione emergano elementi che, complessivamente valutati, sono sufficienti per giustificare, in chiave prognostica, l’adozione dell’avversata informativa interdittiva antimafia, denotando l’esistenza di un pericolo di ingerenza della criminalità organizzata nell’attività commerciale esercitata dall’impresa appellante, con particolare riguardo alla partecipazione dell’impresa ricorrente a molte gare cui aveva preso parte l’impresa facente capo al suocero (-OMISSIS-), operante nello stesso settore, con domande riconducibili allo stesso autore e dal contenuto apparentemente concertato al fine di garantire l’affermazione dell’una o dell’altra impresa, lasciando presupporre un accordo stabile e continuativo nel tempo con i gestori dell’altra impresa, a propria volta interessata da fenomeni di condizionamento criminale ed il cui gestore aveva precedenti in vicende di rilevo penale ed evidenziava plurimi episodi ritenuti idonei a denotare la sua vicinanza a contesti di criminalità organizzata, con la conseguente correttezza di un giudizio prognostico circa il rischio concreto ed attuale di permeabilità delle due imprese rispetto ad interessi criminali.

9 – Inoltre, quanto al terzo motivo d’appello, assume rilievo dirimente la giurisprudenza (da ultima, Cons. Stato, Sez. III, n. 3566 del 2016) secondo cui ai sensi dell’art. 10, comma 1, del d.P.R 252/1998, applicabile ratione temporis alla presente controversia, le Pubbliche Amministrazioni “devono acquisire” le informazioni antimafia in relazione a determinate soglie di valore, corrispondenti: – per gli appalti di lavori, serviti e forniture, ad un valore pari o superiore a quello di rilevanza comunitaria (lettera a); – per le concessioni di beni pubblici, ovvero di contributi, finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo (lettera b), nonché per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi concernenti la realizzazione di lavori pubblici o la prestazione di servivi o forniture pubbliche (lettera c), ad un valore superiore ai 300 milioni di lire, ma ciò non preclude la possibilità di acquisire comunque la documentazione antimafia, non essendovi un divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia indicata (in tal senso, v. anche Cons. Stato, Sez. V, n. 4533/2008; Sez. VI, n. 240/2008; Sez. III, n. 2798/2013), e secondo cui, anche a prescindere dalla legittimità della richiesta d’informazione antimafia, il contenuto interdittivo della stessa valga a precludere la nascita di un rapporto contrattuale tra la stazione appaltante ed i soggetti coinvolti dall’informativa o, ancora, a paralizzare le sorti di un rapporto già sorto tra le parti (in tal senso Cons. Stato, Sez. III, n. 2040/2014), in quanto la richiesta di informazioni fatta alla Prefettura, anche se non obbligatoria, è comunque coerente con la finalità dell’informativa interdittiva, in quanto volta ad evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata (fr. Cons. Stato, Sez. III, n. 3386 / 2014), non essendo all’evidenza possibile delimitare l’applicazione del principio di legalità, che informa l’intero ordinamento giuridico.

10 – Conclusivamente, l’appello deve essere respinto. Le spese del secondo grado del giudizio seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello n. 8895 del 2015, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la parte appellante al pagamento delle spese di giudizio in appello, complessivamente liquidate in Euro 3.000 (tremila), oltre IVA ed accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2016 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti – Presidente

Carlo Deodato – Consigliere

Giulio Veltri – Consigliere

Pierfrancesco Ungari – Consigliere

Raffaello Sestini –

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