Palazzo-Spada

Consiglio di Stato

sezione III

sentenza 14 luglio 2014, n. 3609

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO

IN SEDE GIURISDIZIONALE

SEZIONE TERZA

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1955 del 2009, proposto da:

Fi.Fr.,

rappresentato e difeso dagli avv.ti Fr.Gr. e Fr.Ca. ed elettivamente domiciliato da ultimo presso lo studio del secondo, in Roma,

contro

– la PREFETTURA di FIRENZE- UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO,

in persona del Prefetto p.t.,

non costituitasi in giudizio;

– il MINISTERO DELL’INTERNO,

in persona del Ministro p.t.;

– il COMANDO STAZIONE CARABINIERI di INCISA VALDARNO (FI),

in persona del Comandante p.t.,

costituitisi in giudizio, ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli ufficii della stessa, in Roma,

per la riforma

della sentenza del T.A.R. TOSCANA – SEZIONE I n. 02995/2008, resa tra le parti, concernente divieto di detenzione armi per mancanza di requisiti psicofisici.

Visto il ricorso, con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di MINISTERO DELL’INTERNO e di COMANDO STAZIONE CARABINIERI di INCISA VALDARNO (FI);

Vista la memoria prodotta dall’appellante a sostegno delle sue domande;

Visti gli atti tutti della causa;

Data per letta, alla pubblica udienza del 12 giugno 2014, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;

Uditi, alla stessa udienza, l’avv. Ma.Co., ed altri;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

1. – L’appellante impugna la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana ha respinto il ricorso da lui proposto avverso il decreto del Prefetto della Provincia di Firenze in data 6 maggio 2006, notificato il giorno 31 dello stesso mese, recante il divieto di detenzione di armi e munizioni.

Il T.A.R. ha in particolare ritenuto prive di pregio sia la censura di violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 proposta in relazione all’asserita omessa comunicazione di avvio del procedimento, sia la censura di violazione dell’art. 39 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 per asserite assenza dei presupposti ed errata valutazione dei fatti.

Il Giudice di primo grado ha infine condannato la parte soccombente al pagamento delle spese di giudizio, nella misura di Euro 1.500,00=.

Con l’atto di appello il ricorrente sottolinea l’erroneità della sentenza T.A.R., per aver ritenuto che l’urgenza costituisse nel caso di specie motivo di deroga del giusto procedimento, nonché per aver omesso il dovuto sindacato del potere discrezionale esercitato dall’Amministrazione, che, si afferma, si è svolto in carenza dei presupposti ed in mancanza di una istruttoria adeguata.

Secondo l’appellante la sentenza sarebbe poi erronea anche laddove ha statuito la condanna del ricorrente alle spese a beneficio dell’Amministrazione, che non ha svolto difese.

L’Amministrazione appellata si è costituita in giudizio per resistere.

Con memoria in data 28 aprile 2014 l’appellante ha insistito sulle tesi di appello.

La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica del 12 giugno 2014.

2. – Premesso che la nullità della notifica dell’appello effettuata nei confronti dell’amministrazione dell’Interno presso l’Avvocatura distrettuale anziché presso quella Generale nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria in questo caso adita in violazione dell’art. 11 del r.d. n. 1611/1933 risulta sanata dall’intervenuta costituzione in giudizio dell’Amministrazione (v., tra le tante, Cons. St., V, n. 6524/2012 e, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 09/04/2014, numero 1690), l’appello dev’essere in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile.

2.1 – Infondata, anzitutto, si rivela la censura, reiterativa della corrispondente doglianza di primo grado, di violazione delle norme di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990, per essere mancato ogni momento partecipativo e, in particolare, la comunicazione di avvio del procedimento.

Il provvedimento prefettizio ex art. 39 T.U.L.P.S. rientra infatti sicuramente tra gli atti caratterizzati da particolari esigenze di celerità, per i quali può esser omessa la comunicazione predetta.

Esso, in quanto rimedio finalizzato a salvaguardare la collettività dal pericolo dell’uso delle armi da parte di un soggetto che si ritiene capace di abusarne, ha di per sé il carattere dell’urgenza, qualificata dal pericolo (di cui si dà espressamente atto nelle premesse del provvedimento oggetto del giudizio) della compromissione degli interessi pubblici dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, che caratterizza la misura preventiva di cui trattasi (Cons. St., V, 7 febbraio 2007, n. 509).

Ne deriva ch’esso rientra fra gli atti per i quali l’art. 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241 consente di prescindere dalla previa comunicazione di avvio del procedimento.

In ordine, poi, alla dedotta “inesistenza, nei fatti, della conclamata urgenza”, che l’appellante pretende di ricavare dalla “tutt’altro che veloce sequenza procedimentale” seguita, osserva il Collegio che la circostanza che siano trascorsi circa due mesi tra i comportamenti ed accertamenti posti a base del provvedimento prefettizio impugnato e la notifica dello stesso all’interessato non vale certo a far ritenere insussistenti le particolari esigenze di celerità rappresentate nel provvedimento medesimo, alle quali il Prefetto di Firenze è stato invero particolarmente attento, nella misura in cui la fase istruttoria di esclusiva competenza della Prefettura è durata soli sei giorni (decorrenti dall’arrivo della segnalazione dei fatti effettuata dal Comando Stazione CC.); tenuto anche conto, a tale riguardo, che il tempo occorso per la notifica del provvedimento conclusivo (venticinque giorni) attiene alla fase dell’efficacia dell’atto, sì da non interferire in alcun modo sulla sussistenza dei presupposti per la sua adozione e sulla correttezza dell’iter procedimentale seguito, da riguardarsi con riferimento esclusivo al tempo dell’adozione stessa.

2.2 – Venendo al secondo motivo di appello, con il quale si deduce l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha ritenuto corretta la motivazione resa dall’Amministrazione con riferimento all’esistenza dei presupposti richiesti per l’esercizio del potere di cui trattasi, esso si rivela inammissibile per carenza di interesse.

Posto, invero, che il provvedimento oggetto del giudizio si fonda sulla attuale carenza in capo all’interessato “dei requisiti psicofisici e di affidabilità richiesti in materia di armi”, che la prima è dall’Amministrazione tratta da un episodio in cui egli “aveva manifestato chiare intenzioni suicide” mentre la seconda è stata dalla stessa desunta dall’accertamento di una incauta custodia delle armi detenute e che entrambe tali circostanze sono da sole idonee a giustificare l’emissione del provvedimento impugnato (tant’è vero che il ricorso di primo grado è appunto vòlto a dimostrare l’insussistenza di ciascuno di detti autonomi presupposti: pagg. 4 – 6), con l’atto di appello si censura la sentenza di primo grado unicamente nella parte in cui ha ritenuto legittimo il provvedimento stesso sotto il profilo della carenza dei requisiti psicofisici e non anche nella parte in cui ha ritenuto accertate e sussistenti modalità di custodia delle armi non idonee a “garantire appieno la sicurezza e l’incolumità dei terzi” (pag. 5 sent.).

Tanto vale a ritenere formato il giudicato su tale capo della sentenza e dunque a poter considerare il provvedimento oggetto del giudizio adeguatamente sorretto dall’elemento motivazionale, che fa’ appunto riferimento a dette modalità.

E’ di palmare evidenza, di conseguenza, che l’appellante è carente di interesse a sollecitare l’accertamento della legittimità del ridetto provvedimento laddove fondato sull’altro presupposto (la carenza dei requisiti psicofisici) posto a base di esso.

2.3 – Con il terzo motivo l’appellante censura infine la sentenza impugnata nella parte in cui ha posto a suo carico le spese del giudizio di primo grado, pur in assenza in esso di difese da parte dell’Amministrazione.

La censura è infondata.

La condanna della parte soccombente al pagamento delle spese giudiziali nei confronti dell’altra parte rientra invero negli ordinarii poteri del giudice ai sensi dell’art. 91 c.p.c. e non può essere sindacata (in presenza, come nella specie, della rituale costituzione in giudizio della parte intimata) se non quando si discosti dai principii fondamentali sulla soccombenza e violi le norme sulle tariffe professionali (cfr., tra le tante, Cons. St., Sez. V, 15 settembre 1997, n. 982; da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 30/12/1998, numero 1957).

Ebbene, indiscusso nel caso di specie il primo presupposto (la soccombenza), nessuna violazione di dette norme è stata con l’atto di appello dedotta.

3. – Per tali motivi l’appello, come già detto, è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Le spese del grado, liquidate nella misura indicata in dispositivo, séguono, come di régola, la soccombenza.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, in parte lo respinge ed in parte lo dichiara inammissibile nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna l’appellante alla rifusione di spese ed onorarii del presente grado in favore dell’Amministrazione appellata, liquidandoli in complessivi Euro 3.000,00=.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, addì 12 giugno 2014, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:

Gianpiero Paolo Cirillo – Presidente

Salvatore Cacace – Consigliere, Estensore

Angelica Dell’Utri – Consigliere

Dante D’Alessio – Consigliere

Lydia Ada Orsola Spiezia – Consigliere

Depositata in Segreteria il 14 luglio 2014.

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