Palazzo-Spada

CONSIGLIO DI STATO

ADUNANZA PLENARIA

SENTENZA 25 giugno 2014, n. 15

 

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 14 di A.P. del 2014, proposto da:  Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Maria Antioca Flumene, Giovanna Flumene, Pietro Piras, Giovanna Maria Piras, Antioco Piras, Domenica Piras;

sul ricorso numero di registro generale 15 di A.P. del 2014, proposto da:  Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

contro

Caterina Flumene, Giovanna Maria Flumene, Maria Leonarda Flumene, rappresentati e difesi dall’avv. Raffaele Porpora, con domicilio eletto presso lo stesso, alla via della Giuliana, n. 74;

sul ricorso numero di registro generale 16 di A.P. del 2014, proposto da:  Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

contro

Luisa Ruspi Solfanelli, rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo Ussani D’Escobar, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, alla via Colli della Farnesina, n. 110;

sul ricorso numero di registro generale 17 di A.P. del 2014, proposto da:  Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

contro

Andrea Ravanolo;

sul ricorso numero di registro generale 18 di A.P. del 2014, proposto da:  Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;

contro

Vincenzo Perrelli, Margherita Perrelli, Immacolata Perrelli, Carolina Perrelli, Rosa Perrelli;

per la riforma

quanto al ricorso n. 14 del 2014:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 05341/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto della Corte d’Appello di Roma n.585/2009 – equa riparazione l.89/01 – corresponsione somme

quanto al ricorso n. 15 del 2014:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 05411/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto della Corte d’Appello di Roma n.590/2009 – equa riparazione l.89/01 – corresponsione somme

quanto al ricorso n. 16 del 2014:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 07619/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del giudicato del decreto della Corte d’Appello di Roma n.53537/2006 – equa riparazione l.89/01 – corresponsione somme

quanto al ricorso n. 17 del 2014:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 07459/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del decreto n. 5949/2011 della Corte di Appello di Roma – equa riparazione l.89/2001

quanto al ricorso n. 18 del 2014:

della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 07468/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del decreto n. 5954/2011 della Corte di Appello di Roma – equa riparazione l.89/2001

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Caterina Flumene, di Giovanna Maria Flumene, di Maria Leonarda Flumene e di Luisa Ruspi Solfanelli;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 giugno 2014 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati D’Avanzo e Ussani D’Escobar;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con gli appelli in epigrafe il Ministero della Giustizia impugna le sentenze in epigrafe anche, o solo, nella parte in cui è stata disposta la condanna dell’Amministrazione al pagamento di somme di denaro a titolo di penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo ammnistrativo, in ragione della mancata esecuzione dei decreti della Corte di Appello di Roma di condanna alla corresponsione di un indennizzo a titolo di equa riparazione per eccessiva durata del processo di cui alla L. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. Legge Pinto).

I gravami in esame sono affidati alla deduzione della violazione dell’art. 114, comma 4, cod. proc. amm., dell’art. 6 par. i) della CEDU, dell’art. 117 della Costituzione, degli artt. 2 e 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001.

I motivi di ricorso possono così essere compendiati.

1.1. Con un primo motivo la difesa erariale ha ricordato come un primo orientamento giurisprudenziale abbia ritenuto doversi escludere l’ammissibilità dell’astreinte nel caso in cui l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro, in quanto la penalità di mora costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, utile in modo particolare quando si è in presenza di obblighi di facere infungibili: di qui l’iniquità della condanna dell’Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando l’obbligo di cui si chiede l’adempimento consiste, esso stesso, nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria.

Il Tribunale di prime cure, con le decisioni impugnate, avrebbe invece seguito l’orientamento per cui la naturale ‘coercibilità’ degli obblighi di fare dell’Amministrazione nel giudizio amministrativo di ottemperanza e la collocazione della misura sanzionatoria nell’ambito di tale giudizio non consentono, in linea di principio, di escluderne la riferibilità anche alle sentenze di condanna pecuniarie secondo il modello originario dell’astreinte, e non secondo quello di cui all’art. 614 bis c.p.c. .

In coerenza, per il Ministero appellante:

– deve escludersi la possibilità di far ricorso all’astreinte quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma dì denaro, che, come tale, è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali;

— la somma dovuta a titolo di penalità andrebbe indebitamente ad aggiungersi agli altri accessori determinando un ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di quella accessoria;

— l’interpretazione seguita dal primo Giudice contraddirebbe la ratio della norma in questione rinvenibile nella Relazione Governativa di accompagnamento al Codice ove si sottolinea il sostanziale parallelismo con la nuova previsione dell’art. 614 bis c.p.c. (introdotta dall’art. 49 comma 1, 1. 18 giugno 2009 n. 69) che fa riferimento a “obblighi di fare infungibile o di non fare”;

— la formulazione dell’art. 114, comma 4 lettera e) del cod. proc. amm. è identica a quella del nuovo art. 614-bis c.p.c., come introdotto dall’art. 49, comma 1, della L. 18 giugno 2009, n. 69, con l’unica differenziazione relativa all’inciso ‘se non sussistono altre ragioni ostative’;

— si finirebbe per offrire uno strumento ulteriore di coercizione indiretta all’effettività della tutela (art. 1 cod. proc. amm), la quale non è certo volta a garantire al ricorrente più di quanto gli spetti secondo diritto;

— l’istituto de quo si attaglia propriamente a quelle situazioni nelle quali si tratta di porre in essere un’ attività amministrativa da svolgersi, per quanto possibile, nel rispetto dell’ordine fisiologico delle competenze (si pensi all’adozione di una deliberazione in materia urbanistica), in quanto contribuisce a prevenire l’intervento del commissario ad acta: esigenza, questa, estranea alla logica che ispira la disciplina degli adempimenti di prestazioni a carattere pecuniario, sia sul piano fisiologico sia sul piano della patologia derivante dal ritardo, il cui paradigma di riferimento si rinviene essenzialmente nella disciplina civilistica degli interessi e del risarcimento del danno;

1.2. Con un secondo ordine di motivi si rileva, poi, che sarebbe del tutto illegittima la liquidazione automatica della predetta misura dato che, l’art. 114, comma 4, lett e) cod. proc. amm., consente il riconoscimento della misura ivi prevista previa la verifica dei presupposti cui il legislatore ha inteso subordinare la condanna anche al pagamento di una somma di denaro ed in particolare: dell’effettiva inerzia dell’Amministrazione nell’esecuzione della sentenza di equa riparazione, della ragionevolezza dei tempi alla luce della giurisprudenza che si è pronunciata in materia (da ultimo, Cass. n. 5924/2012; Cass., sez. unite n. 6312/2014) e delle esigenze di bilancio.

Non si sarebbe potuto prescindere dal vagliare puntualmente la condotta amministrativa ai fini dell’eventuale riscontro di responsabilità.

2. Si sono costituite in giudizio le controparti in epigrafe specificate.

3. Con l’Ordinanza 18 aprile 2014, n. 14, la sezione quarta di questo Consiglio ha riunito gli appelli di cui in epigrafe, in ragione della ricorrenza di profili di connessione oggettiva e parzialmente soggettiva.

Con la stessa Ordinanza si è disposta la rimessione dei ricorsi all’esame dell’Adunanza Plenaria in ragione dei contrasti giurisprudenziali già registratisi in merito alle questioni relative:

a) alla natura ed all’ammissibilità in generale dell’astreinte di cui all’art. 114, comma 4, lett. e) cod. proc. amm. nel caso in cui l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro;

b) alla sua applicabilità, in particolare, all’equa riparazione di cui alla c.d. legge Pinto, per l’indebita “automaticità” della condanna dell’Amministrazione fatta in assenza della previa verifica dei presupposti indicati dal c.p.a.

DIRITTO

1. E’ sottoposta al vaglio dell’Adunanza Plenaria la quaestio iuris relativa all’ammissibilità della comminatoria delle penalità di mora, di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, nel caso in cui il ricorso per ottemperanza venga proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza che abbia imposto alla pubblica amministrazione il pagamento di una somma di denaro.

Ai fini della soluzione del problema è necessaria un’indagine sulla genesi e sulla fisionomia dell’istituto in esame.

2. L’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. prevede che il giudice dell’ottemperanza, in caso di accoglimento del ricorso in executivis, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.

La norma, che costituisce una novità nel processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’ obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).

La norma dà la stura, in definitiva, ad un meccanismo automatico di irrogazione di penalità pecuniarie in vista dell’assicurazione dei valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei confronti della pubblica amministrazione e, più in generale, della parte risultata soccombente all’esito del giudizio di cognizione.

Il modello della penalità di mora trova un antecedente, nell’ambito del processo civile, nell’art. 614-bis (inserito nel c.p.c. dall’art.49, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69), rubricato “attuazione degli obblighi di fare infungibile o non fare”. La norma in analisi dispone che “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. (…)”. Al comma II viene precisato che “Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

3. Sia l’istituto previsto dal codice del processo amministrativo sia quello contemplato dal codice di procedura civile sono fortemente innovativi rispetto alla nostra tradizione processuale.

Il legislatore nazionale si è, infatti, mostrato in passato restio all’abbandono dell’ispirazione liberal-individualistica di matrice ottocentesca, manifestando diffidenza per il recepimento dell’istituto delle misure coercitive indirette, ritenute una forma di eccessiva ingerenza dello Stato delle libere scelte degli individui anche in merito all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando giudiziale.

Prima della riforma del 2009, dunque, la possibilità che un provvedimento giurisdizionale di condanna fosse assistito da una penalità di mora era prevista, in modo episodico, solo con riferimento a fattispecie tassativamente individuate da norme speciali, insuscettibili di applicazione analogica. Tra queste vanno ricordati l’art. 18, ultimo comma, dello Statuto dei lavoratori, in base al quale il datore di lavoro, in caso di illegittimo licenziamento, è tenuto al pagamento di una somma commisurata alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a quello dell’effettivo reintegro; gli artt. 124, co. 2, e 131, co. 2, del codice della proprietà industriale, che, in tema di brevetti, prevede l’adozione di una sanzione pecuniaria in caso di violazione della misura inibitoria applicata nei confronti dell’autore della violazione del diritto di proprietà industriale; l’art. 156 della legge sul diritto d’autore, relativo alla protezione del diritto d’autore, che prevede parimenti una sanzione pecuniaria in caso di inosservanza della statuizione inibitoria; l’art. 8, co. 3, d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che, in tema di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, contempla la possibilità di irrogare un’astreinte in caso di mancato rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza che abbia accertato l’iniquità delle clausole contrattuali; l’art. 140, co. VII, del codice del consumo, che ha previsto misure pecuniarie per il caso di inadempimento del professionista a fronte di pronunce rese dal giudice civile su ricorsi proposti dalle associazioni di tutela degli interessi collettivi in materia consumeristica; l’art. 709-ter, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., che, con riferimento alle controversie relative all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità dell’affidamento dei figli, prevede, a carico del genitore inadempiente alle obbligazioni di facere, il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

Con l’art. 614-bis cod. proc. civ. e con l’art. 114, comma 4, lettera e, cod. proc. amm., il nostro ordinamento, conferendo alla misura in esame un respiro generale, ha esibito, quindi, una nuova sensibilità verso l’istituto delle sanzioni civili indirette, dando seguito ai ripetuti moniti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “il diritto ad un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro permettesse che una decisione giudiziale definitiva e vincolante restasse inoperante a danno di una parte” (sent. Hornsby c. Grecia, 13/03/1997, e Ventorio c. Italia, 17/05/2011).

Nell’adeguamento dell’ordinamento nazionale al panorama degli ordinamenti più evoluti in subiecta materia il legislatore ha seguito il modello francese delle cc. dd. “astreintes”, costituenti misure coercitive indirette a carattere esclusivamente patrimoniale, che mirano ad incentivare l’adeguamento del debitore ad ogni sentenza di condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che la parte inadempiente dovrà versare a favore del creditore vittorioso in giudizio.

Il carattere essenzialmente sanzionatorio della misura, prevista dall’ordinamento francese con riferimento ad ogni tipo di sentenza di condanna, è dimostrato dal tenore della legge 5 luglio 1972, ove, all’art. 6, si prevede specificamente che l’astreinte è “indépendante des dommages-intérets”. La natura giuridica della misura coercitiva indiretta francese, dunque, non è ispirata alla logica riparatoria che permea la teoria generale della responsabilità civile, dovendosi configurare la sua comminatoria alla stregua di una pena privata o, più precisamente, di una sanzione civile indiretta. Trattasi, quindi, di una pena, e non di un risarcimento, che vuole sanzionare la disobbedienza all’ordine del giudice, a prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un danno. E’ altresì pacifica, nella stessa prospettiva, la cumulabilità della penalità con il danno cagionato dall’inosservanza del precetto giudiziale, al pari della non defalcabilità dell’ammontare della sanzione dall’importo dovuto a titolo di riparazione.

Nel campo dei rapporti amministrativi la legge 8 febbraio 1995 ha poi attribuito anche ai Tribunaux Administratifs e alle Cours Administraves d’Appel il potere, prima assegnato dal decreto 30 luglio 1963 al solo Conseil d’Etat, di disporre l’astreinte a carico dell’amministrazione inadempiente, anticipando al momento della pronuncia della sentenza la possibilità di disporre il mezzo di coercizione indiretta e introducendo un nuovo potere del giudice amministrativo, nei casi in cui l’esecuzione del giudicato amministrativo comporti necessariamente l’emanazione di un provvedimento dal contenuto determinato, di ordinare all’amministrazione l’adozione dell’atto satisfattorio e, quando risulti opportuno, di fissare un termine per l’esecuzione (si veda la disciplina oggi prevista dagli artt. L.911-4 e 911-5 del code de justice administrative).

Norme simili, pur se con modulazioni diverse, sono presenti anche negli ordinamenti tedesco (c.d. Zwangsgeld) e inglese (c.d. Contempt of Court).

Le Zwangsgeld, in particolare, possono assistere esclusivamente provvedimenti di condanna a obblighi di fare infungibili o di non fare (come negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e consistono in una condanna al pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld) in favore dello Stato, con la possibilità di conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel caso in cui il debitore non disponga di un patrimonio capiente.

Il Contempt of Court, invece, può, come avviene per le astreintes francesi, essere pronunciato a fronte della violazione di ogni provvedimento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto, e consiste in una sanzione pecuniaria da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una sanzione detentiva (arrest for the contempt of the court), con facoltà di scelta discrezionale per il giudice tra la misura patrimoniale e quella limitativa della libertà personale.

3.1. Tutte le misure descritte sono ispirate dalla medesima esigenza di offrire uno strumento di coazione all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.

La breve ricognizione comparatistica effettuata, mettendo in luce l’eterogeneità delle opzioni abbracciate nei vari ordinamenti circa l’ambito di applicazione delle penalità di mora, consente di mettere in chiaro che la scelta attuata dall’art. 614-bis c.p.c., al pari di alcuni degli altri ordinamenti passati in rassegna, di limitare l’astreinte al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile, non deriva da un limite concettuale insito nella ratio o nella struttura ontologica dell’istituto ma è il frutto di un’opzione discrezionale del legislatore.

4. Si deve, a questo punto, segnalare che la penalità di mora disciplinata dall’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. si distingue in modo significativo da quella prevista per il processo civile.

I profili differenziali rispetto all’omologo istituto di cui all’art. 614 bis c.p.c. sono, infatti, molteplici e di rilevante importanza:

a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di merito, la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale;

b) di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia a condanna condizionata (oin futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel termine all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l’astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d’ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l’inadempimento del debitore;

c) le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale, una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si è riprodotto nell’art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile;

d) la norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell’ammontare della somma fissati dall’art. 614 bisc.p.c.;

e) il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della sentenza e al limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo consistente nella ricorrenza di “ragioni ostative”.

4.1 La questione dell’applicabilità delle astreintes nel caso in cui sia chiesta, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza, l’esecuzione di un titolo giudiziario avente ad oggetto somme di danaro, trae origine dalla terza delle differenze delineate.

Per il processo amministrativo, infatti, manca una previsione esplicita che limiti la riferibilità delle penalità di mora al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile. Nasce quindi il problema relativo alla possibilità di richiedere l’applicazione delle penalità anche nel caso dell’ottemperanza a sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario.

5. Mentre la dottrina è in gran parte favorevole ad una lettura estensiva della norma de qua, la giurisprudenza amministrativa ha manifestato significative divisioni sulla questione rimessa all’Adunanza Plenaria.

5.1. L’opinione prevalente ammette l’applicazione delle penalità di mora anche per le sentenze di condanna pecuniaria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462, Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3781; Cons. Stato, sez. V, sent., 19 giugno 2013, n. ri 3339, 3340, 3341 e 3342; Cons. Stato, sez. III, 30 maggio 2013, n. 2933; C.g.a.r.s., 30 aprile 2013, n. 424; Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2012, n. 3272; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2012, n. 2744; Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011 n. 6688; Cons. di Stato, Sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4216; C.g.a.r.s., 22 gennaio 2013, n. 26; Cons. Stato sez. VI, 6 agosto 2012, n. 4523, Cons. Stato sez. VI, 4 settembre 2012, n. 4685).

Deporrebbero a favore di tale opzione ermeneutica (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462) le seguenti argomentazioni:

a) il tenore letterale della disposizione, che, a differenza dell’art. 614-bis cod. proc. civ., non pone “alcuna distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna dell’amministrazione inadempiente al pagamento della penalità di mora” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462), con una scelta che “appare coerente con il rilievo che il rimedio dell’ottemperanza, grazie al potere sostitutivo esercitabile, nell’alveo di una giurisdizione di merito, dal giudice in via diretta o mediante la nomina di un commissario ad acta, non conosce, in linea di principio, l’ostacolo della non surrogabilita? degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688);

b) la peculiare natura giuridica della penalità di mora ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che, in virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cc. dd. “astreintes”, “assolve ad una finalita? sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688), integrando un strumento “di pressione nei confronti della p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti dal decisum giudiziale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462);

c) il rilievo secondo cui la matrice sanzionatoria della misura, idonea a confutare il rischio di duplicazione risarcitoria, è confermata dalla considerazione da parte dell’art. 614-bis, comma 2, cod. proc. civ., sempre nell’ottica dell’aderenza al modello francese, della misura del danno quantificato e prevedibile come “solo uno dei parametri di commisurazione in quanto prende in considerazione anche altri profili, estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).

5.2 L’opposto orientamento dà risposta negativa alla questione (cfr. di recente Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno 2013 n. 3293; Cons. Stato, Sez. III, 06 dicembre 2013, n. 5819) sulla scorta delle seguenti argomentazioni:

a) la considerazione per la quale la funzione della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza sarebbe quella di “incentivare l’esecuzione di condanne di fare o non fare infungibile prima dell’intervento del commissario ad acta, il quale comporta normalmente maggiori oneri per l’Amministrazione, oltre che maggiore dispendio di tempo per il privato”, di modo che “ove il giudizio di ottemperanza sia prescelto dalla parte per l’esecuzione di sentenza di condanna pecuniaria del giudice ordinario, la tesi favorevole all’ammissibilità dell’applicazione dell’astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca atteso che il creditore pecuniario della p.a. nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile solo in base ad un’opzione puramente potestativa” (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);

b) la valorizzazione dell’iniquità della condanna al pagamento di una somma di danaro laddove l’obbligo oggetto di domanda giudiziale sia esso stesso di natura pecuniaria, di talché sarebbe già assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi, con le conseguenze della “duplicazione ingiustificata di misure volte a ridurre l’entità del pregiudizio derivante all’interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato, nonché dell’ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di quella accessoria” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);

c) l’impossibilità di cumulare un modello di esecuzione surrogatoria con uno di carattere compulsorio, dal momento che il sistema nazionale di esecuzione amministrativa della decisione, connotato da caratteri di estrema incisività e pervasività, porrebbe già a presidio delle ragioni debitorie dell’amministrazione “la doppia garanzia sul piano patrimoniale del riconoscimento degli accessori del credito e su quello coercitivo generale dell’intervento del Commissario ad acta” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. 18 aprile 2014, n. 2004).

6. L’Adunanza Plenaria ritiene di aderire all’orientamento prevalente che ammette l’operatività dell’istituto per tutte le decisioni di condanna adottate dal Giudice Amministrativo ex art. 112 c.p.a., ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie.

6.1. A sostegno dell’opzione estensiva si pone, innanzitutto, un argomento di diritto comparato.

Si deve considerare, infatti, che il sistema francese, modello sul quale sono stati coniati gli istituti nazionali che prevedono l’irrogazione della penalità di mora, è connotato da un’indiscussa funzione sanzionatoria, essendo teleologicamente orientato a costituire una pena per la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, e non un risarcimento per il pregiudizio sofferto a causa di tale inottemperanza.

Il modello transalpino, quindi, in aderenza al favor espresso dalla giurisprudenza della CEDU verso la massima estensione, anche in executivis,dell’effettività delle decisioni giurisdizionali, dimostra che il rimedio compulsorio in esame può operare anche per le condanne pecuniarie, in quanto non conosce limiti strutturali in ragione della natura della condotta imposta dallo iussum iudicis.

Si conferma, in questo modo, che la delimitazione dell’ambito oggettivo di operatività della misura è frutto di una scelta di politica legislativa e non un limite concettuale derivante dalla fisionomia dell’istituto.

6.2. L’argomento di diritto comparato si salda con l’argomento letterale.

L’analisi del dato testuale dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., chiarisce, infatti, che, in sede di codificazione del processo amministrativo, il legislatore ha esercitato la sua discrezionalità, in sede di adattamento della conformazione dell’istituto alle peculiarità del processo amministrativo, nel senso di estendere il raggio d’azione delle penalità di mora a tutte le decisioni di condanna. La norma in analisi non ha, infatti, riprodotto il limite, stabilito della legge di rito civile nel titolo dell’art. 614-bis, della riferibilita? del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.

Si deve aggiungere che la norma in esame non solo non contiene un rinvio esplicito all’art. 614-bis, ma neanche richiama implicitamente il modello processual-civilistico.

Decisiva risulta la constatazione che l’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., modifica l’impianto normativo del rito civile prevedendo l’ulteriore limite negativo rappresentato dall’insussistenza di “ragioni ostative”.

Significativa appare, in questa direzione, anche la considerazione che nel giudizio civile l’astreinte è comminata dalla sentenza di cognizione con riguardo al fatto ipotetico del futuro inadempimento, mentre nel processo amministrativo la penalità di mora è applicata dal giudice dell’esecuzione a fronte del già inverato presupposto della trasgressione del dovere comportamentale imposto dalla sentenza che ha definito il giudizio.

Non può, dunque, essere attribuito un rilievo decisivo ai lavori preparatori, in quanto il riferimento, operato dalla Relazione governativa di accompagnamento, alla riproduzione dell’art. 614-bis cod. proc. civ., va inteso come richiamo della fisionomia dell’istituto e non come recepimento della sua disciplina puntuale.

In definitiva, a fronte dell’ampia formulazione dell’art. 114, co. IV, lett. e, cod. proc. amm., un’operazione interpretativa che intendesse colmare una lacuna che non c’è attraverso il richiamo dei limiti previsti dalla diversa norma del processo civile, si tradurrebbe in un’inammissibile analogia in malam partem volta ad assottigliare lo spettro delle tutele predisposte dal codice del processo amministrativo nel quadro di un potenziamento complessivo del giudizio di ottemperanza.

6.3. Occorre mettere l’accento, a questo punto, sull’ argomento sistematico.

La diversità delle scelte abbracciate dal legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in ragione della diversa architettura delle tecniche di esecuzione in cui si cala e va letto il rimedio in esame.

Nel processo civile, stante la distinzione tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili in re, la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato mira a introdurre una tecnica di coercizione indiretta che colmi l’assenza di una forma di esecuzione diretta. Detto altrimenti, nel sistema processual-civilistico, con l’innesto della sanzione in parola il legislatore ha inteso porre rimedio all’anomalia insita nell’esistenza di sentenze di condanna senza esecuzione, dando la stura ad una tecnica compulsoria che supplisce alla mancanza di una tecnica surrogatoria.

Nel processo amministrativo, per converso, la norma si cala in un archetipo processuale in cui, grazie alle peculiarità del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dalla nomina di un commissario ad acta con poteri sostitutivi, tutte le prestazioni sono surrogabili, senza che sia dato distinguere a seconda della natura delle condotte imposte.

La penalità di mora, in questo diverso humus processuale, assumendo una più marcata matrice sanzionatoria che completa la veste di strumento di coazione indiretta, si atteggia a tecnica compulsoria che si affianca, in termini di completamento e cumulo, alla tecnica surrogatoria che permea il giudizio d’ottemperanza.

Detta fisionomia impedisce di distinguere a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che anche per le condotte di facere o non facere, al pari di quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il requisito della surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere un rimedio compulsivo volto ad integrare quello surrogatorio.

6.4. Le considerazioni esposte sono suffragate anche dall’argomento costituzionale.

6.4.1. Non può ravvisarsi, in primo luogo, la paventata disparità collegata all’opzione potestativa, esercitabile da parte del creditore, attraverso la scelta, in sostituzione del rimedio dell’esecuzione forzata civile – priva dello strumento della penalità di mora per le sentenze di condanna pecuniaria –, dell’ottemperanza amministrativa, rafforzata dalla comminatoria delle astreintes.

Il riscontro di profili di disparità dev’essere, infatti, effettuato tenendo conto dei soggetti di diritto e non delle tecniche di tutela dagli stessi praticabili.

Ne deriva che la possibilità, per un creditore pecuniario della pubblica amministrazione, di utilizzare, in coerenza con una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo Consiglio, due diversi meccanismi di esecuzione, lungi dal porre in essere una disparità di trattamento, per la quale difetterebbe il referente soggettivo discriminato, evidenzia un arricchimento del bagaglio delle tutele normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost. in una con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.

6.4.2. Non può neanche ravvisarsi, sotto altra e complementare angolazione, una discriminazione ai danni del debitore pubblico, per essere lo stesso soggetto, diversamente dal debitore privato, a tecniche di esecuzione diversificate e più incisive.

Tale differenziazione è il precipitato logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto pubblico destinatario di un comando giudiziale.

La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione dei soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte di tali soggetti, del precetto giudiziale, in guisa da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si iscrive il meccanismo delle penalità di mora.

In questo quadro va rimarcato che la previsione di cui all’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., si inserisce armonicamente in una struttura del giudizio di ottemperanza complessivamente caratterizzata, proprio per la specialità del debitore, da un potere di intervento del giudice particolarmente intenso, come testimoniato dall’assenza del limite dell’infungibilità della prestazione, dalla previsione di una giurisdizione di merito e dall’adozione di un modello surrogatorio di tutela esecutiva.

6.5. La tesi esposta non è, infine, scalfita dall’argomento equitativo su cui fanno leva i fautori della tesi restrittiva, richiamando il rischio di duplicazione di risarcimenti, con correlativa locupletazione del creditore e depauperamento del debitore.

L’argomento è inficiato dal rilievo che la penalità di mora, come fin qui osservato, assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria e non, o quanto meno non principalmente, ad una funzione riparatoria, come dimostrato, tra l’altro, dalle caratteristiche dei modelli di diritto comparato e dalla circostanza che nell’articolo 614 bis c.p.c. la misura del danno è solo uno di parametri di quantificazione dell’importo della sanzione.

Trattandosi di una pena, e non di un risarcimento, non viene in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un unico danno ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. E’, in definitiva, insito nella diversa funzione della misura, da un lato, che a tale sanzione, diversamente da quanto accade per i punitive damages, si possa accedere anche in mancanza del danno o della sua dimostrazione; e, dall’altro, che al danno da inesecuzione della decisione, da risarcire comunque in via integrale ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., si possa aggiungere una pena che il legislatore, pur se implicitamente, ha inteso destinare al creditore insoddisfatto.

Si deve soggiungere che la locupletazione lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento sanzionatorio di ricchezza, ulteriore rispetto al danno, dall’autore della condotta inadempitiva alla vittima del comportamento antigiuridico, si verifica in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario, per le quali parimenti il legislatore, pur se non attraverso meccanismi automatici propri degli accessori del credito pecuniario (rivalutazione e interessi), prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3, cit), in aggiunta alla possibilità di fare leva sul meccanismo delle penalità di mora.

Anche sotto questo punto di vista, quindi, le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono problemi specifici e non presentano caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di condanna.

Va soggiunto che la funzione deterrente e general-preventiva delle penalità di mora verrebbe frustrata dalla mancata erogazione della tutela in analisi ove vi sia già stato o possa essere assicurato un integrale risarcimento.

6.5.1. Si deve, infine, osservare che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un’astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nonché al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo.

Non va sottaciuto che l’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso favorevole, del debitore pubblico – con specifico riferimento alle difficoltà nell’adempimento collegate a vincoli normativi e di bilancio, allo stato della finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici- ha aggiunto al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito civile, quello, del tutto autonomo, della sussistenza di altre ragioni ostative.

Ferma restando l’assenza di preclusioni astratte sul piano dell’ammissibilità, spetterà allora al giudice dell’ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di scrutinio delle ricordate esimenti che in sede di determinazione dell’ammontare della sanzione, verificare se le circostanza addotte dal debitore pubblico assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l’importo.

7. L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il seguente principio di diritto: “Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria”. .

8. Ciò affermato l’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla Sezione quarta di questo Consiglio per le ulteriori pronunce di rito, sul merito della controversia e sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

affermato il principio di diritto di cui in motivazione, restituisce gli atti alla Sezione quarta per ogni ulteriore statuizione di rito, nel merito della controversia e sulle spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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