Corte di Cassazione, civile, Sentenza|18 ottobre 2024| n. 27040.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Massima: L’accertamento del giudice di merito circa la comoda divisibilità di un immobile va condotto in base al criterio oggettivo della concreta possibilità di ripartirlo senza pregiudizio per il suo valore economico, così da poter attribuire a ciascun condividente un’entità autonoma e funzionale, valutando la fattibilità dell’intervento edilizio necessario per la divisione in relazione alle caratteristiche del bene e la compatibilità con la disciplina urbanistica vigente, avuto riguardo sia alla normativa nazionale che ai regolamenti e strumenti urbanistici locali, particolarmente in caso di vincoli storico-ambientali.
Sentenza|18 ottobre 2024| n. 27040. La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Data udienza 3 ottobre 2024
Integrale
Tag/parola chiave: Divisione – Divisione ereditaria – Operazioni divisionali – Formazione dello stato attivo dell’eredita’ – Immobili non divisibili – Non comoda divisibilita’ comoda divisibilità – Accertamento del giudice di merito – Criteri di indagine – Compatibilità con la disciplina urbanistica vigente – Necessità – Fondamento.
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta da:
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. PICARO Vincenzo – Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere
Dott. PIRARI Valeria – Consigliere Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 03361/2021 R.G. proposto da:
Po.Ga., Po.Er. e Po.Cl., rappresentati e difesi dall’avv. Lu.Mo. ed elettivamente domiciliati in Roma, via Gi.An., presso lo studio dell’avv. Se.Co.;
– ricorrenti –
contro
Tu.Im., rappresentata e difesa dall’avv. Eu.Ca., nel cui studio in Napoli, piazza G.Bo., è elettivamente domiciliata;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4156/2020 emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, depositata l’1/12/2020 e notificata il 2/12/2020.
Udita la relazione svolta dal consigliere dott.ssa Valeria Pirari nella pubblica udienza del 3/10/2024;
lette le conclusioni scritte della Procura Generale, in persona del sostituto Procuratore Generale Aldo Ceniccola, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità o in subordine il rigetto del ricorso.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
FATTI DI CAUSA
1. Con atto notificato il 12/03/2004, Tu.Im., premesso che, con atto del 20/06/1971, aveva acquistato, unitamente ai germani Gi., Fr., Si. e Co., un fabbricato con giardino, sito in N, via (omissis), nn. (omissis), pro indiviso e per la quota di 1/5 ciascuno, che, con successivo atto del 21/07/1978, aveva acquistato, unitamente a Si., la quote degli altri comproprietari, divenendone ciascuna di esse proprietaria per la quota del 50%, e che la divisione dell’immobile era stata impedita dai chiamati all’eredità di quest’ultima, deceduta il (omissis), ossia dal coniuge Po.Er. e dai figli Po.Ga., Po.Cl. ed Po.Er., convenne in giudizio questi ultimi onde ottenere la divisione dell’immobile e l’assegnazione della propria quota.
Costituitisi in giudizio, Po.Er. eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva per non essere erede di Si., mentre i germani Po.Ga., Po.Cl. ed Po.Er. proposero domanda riconvenzionale volta ad ottenere la validità della scrittura privata del 6/4/2002 relativa ad altro comune immobile in F.
Con sentenza n. 2058/2009, depositata il 09/02/2009, il Tribunale, accolta definitivamente l’eccezione di carenza di legittimazione passiva di Po.Er., rigettò la domanda dell’attrice nei confronti di quest’ultimo e accolse quella riconvenzionale, dichiarando Tu.Im. obbligata a rispettare le convenzioni stabilite nella scrittura 06/04/2002 circa la regolamentazione del godimento dell’immobile in F alla via (omissis), mentre con separata ordinanza dispose la rinnovazione della consulenza tecnica.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Con sentenza n. 10637/2012, depositata il 05/10/2012, il Tribunale di Napoli rigettò la domanda di divisione, assumendo l’indivisibilità del bene per l’accertata esistenza di abusi edilizi ed irregolarità amministrative, in uno con il disallineamento catastale.
Il giudizio di gravame, incardinato da Tu.Im. con atto notificato il 28 – 29/03/2013 e nella resistenza degli appellati, che proposero appello incidentale condizionato, insistendo per la incommerciabilità dei mini appartamenti costruiti abusivamente e nella indivisibilità della villa in quanto struttura unitaria inscindibile per legge, eccependo la novità dalla domanda di regolarizzazione e chiedendo, in subordine, l’accertamento della sua non comoda divisibilità per l’impossibilità di formare quote omogenee e per il notevole deprezzamento del loro valore rispetto all’intero, con conseguente vendita all’incanto in assenza di richieste di attribuzione, si concluse con la sentenza n. 4156/2020, pubblicata l’1/12/2020, con la quale la Corte d’Appello di Napoli riformò la sentenza impugnata, disponendo lo scioglimento della comunione sul fabbricato, dividendolo secondo quanto previsto dal c.t.u. e assegnando a Tu.Im. il 50% delle quote da quest’ultimo formate e alla parte appellata il restante 50%, dispose il sorteggio delle quote al passaggio in giudicato della sentenza, rigettò il gravame incidentale, ordinò la trascrizione della sentenza all’esito dell’attribuzione delle quote, compensò tra le parti la terza parte delle spese del doppio grado del giudizio e condannò gli appellati ai restanti due terzi, ponendo le spese della c.t.u. a carico di entrambe le parti in misura uguale.
2. Avverso questa sentenza, Po.Ga., Po.Er. e Po.Cl. hanno proposto ricorso per cassazione, affidandolo a undici motivi, mentre Tu.Im. si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., con riferimento agli artt. 191, 194 cod. proc. civ., 92 disp. att. cod. proc. civ., 101, 112, 115 e 183 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto necessaria l’acquisizione, da parte del c.t.u. in grado d’appello, della licenza edilizia n. 36/38, rilasciata in data 16/03/1938 alla baronessa Ca.Ro. per la trasformazione delle facciate del villino, e dell’ulteriore licenza n. (omissis), rilasciata il 16/5/1938 alla medesima per la costruzione di un’autorimessa, ritenendole funzionali alla verifica della legittimità dell’immobile e della sua commerciabilità, benché vi fosse stata opposizione da parte dei ricorrenti in ragione dell’assoluto divieto di produzione di nuovi documenti e in assenza di autorizzazione dei giudici. I giudici, ad avviso dei ricorrenti, non avevano considerato che i predetti atti avrebbero potuto essere prodotti nel primo grado del giudizio in quanto risalenti al 1938, che la loro acquisizione da parte del c.t.u. ledeva il contraddittorio, quand’anche non eccepita nel primo atto difensivo, e che inoltre da essi non era possibile evincere l’avvenuto frazionamento, a quella data, della villa in quattro unità immobiliari, risultante sì dalle planimetrie catastali, ma non realizzato in via di fatto, come evidente dalla descrizione dell’immobile riportata negli atti di trasferimento acquisiti in giudizio.
2. Con il secondo motivo, si lamenta l’omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio – costituito dal giudicato interno formatosi sulla indivisibilità dell’immobile – che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., da valutarsi anche sotto l’aspetto della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e in particolare dell’art. 324 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ., in relazione alla censura di cui all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., perché i giudici di merito non avevano considerato che il Tribunale, con l’appellata sentenza definitiva n. 10637/2012, aveva dichiarato l’impossibilità di procedere ad una assegnazione in natura di distinte quote dell’immobile di cui era stata chiesta la divisione, essendo possibile, una volta sanati gli abusi, effettuare lo scioglimento della comunione unicamente attraverso la vendita giudiziaria del bene, con divisione del ricavato tra le parti, stante la sua indivisibilità. I ricorrenti hanno, sul punto, evidenziato come Tu.Im., in sede d’appello, non avesse mai fatto riferimento alle singole unità immobiliari, ma avesse descritto la villa come un’unica entità e chiesto la divisione della stessa in senso orizzontale, sicché sulla questione della indivisibilità del bene si era ormai formato il giudicato interno, essendosi l’appellante limitata ad eccepire la commerciabilità della villa perché costruita prima del 1967.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
3. Col terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, nonostante l’appellante avesse chiesto la divisione orizzontale dell’immobile e gli stessi appellati, laddove fattibile, avessero suggerito la medesima forma di divisione onde non stravolgere l’originario assetto della villa, avevano invece disposto la divisione verticale dell’immobile, in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
4. Col quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 869 e 871 cod. civ., 46 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, 17 e 40 legge n. 47 del 1985, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., sull’erroneità manifesta delle conclusioni condivise della Corte territoriale e del proprio ausiliare con riguardo alla divisione della villa in quattro mini appartamenti, nonché la violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., per non avere la Corte di merito tenuto conto dell’annullamento della mancata CILA, per motivazione apparente, abnorme e inadeguata, oltre che incoerente sul piano del processo logico e fuori dai limiti del razionale e del plausibile, e per violazione dell’art. 46, comma 1, D.P.R. n. 380 del 2001 (che ha sostituito, mutuandone il contenuto, l’art. 17 della legge n. 47 del 1985) e dell’art. 40, comma 2, legge n. 47 del 1985, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, valutando la sussistenza attuale di impedimenti alla commerciabilità e, dunque, alla divisibilità dell’immobile in comunione tra le parti, avevano affermato che il disallineamento catastale del bene rispetto allo stato di fatto, in quanto superabile attraverso la presentazione di DOCFA, e l’attuale distribuzione degli ambienti interni, ancorché frutto di frazionamenti non assentiti, non inibiva la divisione, essendo stato il bene realizzato prima del 1967 ed essendo munito di due licenze edilizie. Ad avviso dei ricorrenti, non era stato però considerato che il regolamento edilizio del Comune di N, risalente al 1935, non avrebbe consentito l’attuazione della progettata divisione in quattro unità abitative, che la decisione si poneva in contrasto con la sentenza n. 25021 del 2019 delle Sezioni unite che vietava la divisione di un bene abusivo, che il Comune di N, in data 16/1/2020, aveva dichiarato l’inefficacia della CILA, ritenuta dal c.t.u. sanante degli abusi, disponendo altresì il ripristino delle unità ricavate mediante frazionamenti non consentiti in verticale, in quanto non era stata chiesta da tutti i comproprietari e in quanto gli abusi realizzati non avrebbero potuto essere sanati alla stregua della normativa edilizio-urbanistica vigente nella zona, e che i giudici, ritenendo irrilevante detto provvedimento e l’ordine di rimessione in pristino, erano incorsi nel vizio di motivazione apparente e abnorme.
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5. Col quinto motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 869 e 871 cod. civ., con riguardo ai vincoli paesaggistici di cui alla legge n. 1497 del 1939 e alla legge n. 431 del 1985, al piano territoriale paesistico di Posillipo, D.M. 14/12/1955 e artt. 27,99 e 100 del piano regolatore del Comune di N vigente fin dal 1935, nonché dell’art. 345 cod. proc. civ., per violazione sull’acquisizione della pratica di CILA in sanatoria, con riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., e dell’art. 101 cod. proc. civ. sul contraddittorio, perché i giudici di merito, nonostante la constatazione della sussistenza di abusi edilizi e di irregolarità amministrative, avevano ritenuto il bene commerciabile in quanto passibile di agevole sanatoria attraverso l’inoltro all’Ufficio edilizia privata del Comune di N di una CILA in sanatoria o tardiva, alternativa all’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, senza considerare che gli abusi esistenti, consistenti nel frazionamento della villa, non avrebbero consentito la sanatoria con la pratica indicata, trattandosi tra l’altro di immobile soggetto a vincoli paesaggistici, che il deposito della pratica CILA non avrebbe potuto essere effettuato perché in violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., che le affermazioni in merito alla fattibilità del frazionamento e accorpamento alla stregua del piano regolatore di N non rispondevano a verità, considerato tra l’altro che la realizzazione di due piccoli wc e la condivisione tra essi di metà della finestra ciascuno, nonché la necessaria modifica dell’ampia balconata costituente il maggior pregio della villa, avrebbe determinato la modificazione della facciata esterna e non interessato, come detto, soltanto la ripartizione interna degli ambienti, oltre a far perdere le caratteristiche storico-archiettoniche del bene per diventare edificio condominiale. Inoltre, non soltanto le osservazioni del c.t.u. erano state tempestivamente dedotte sia con la comparsa conclusionale, sia con le memorie di replica, sia con le note dei c.t.p., unico momento in cui era stato possibile proporre le relative contestazioni, ma la stessa inefficacia della CILA, dichiarata dal Comune di N nel 2020 in ragione della tutela cui era soggetta la villa perché ricadente nel perimetro del Piano Territoriale Paesistico di Posillipo e depositata con la seconda comparsa conclusionale, non aveva impedito ai giudici di merito di emettere la sentenza impugnata, non avendo neppure considerato la pendenza di un ordine di rispristino dei luoghi. Infine, allineamento catastale e CILA, peraltro annullata, non avrebbero potuto essere depositati in quanto documenti nuovi.
6. Col sesto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, primo comma, cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 2699 cod. civ., 2700 cod. civ., relativamente alla valutazione dei mezzi di prova e all’ammissibilità della prova orale, artt. 2724, 2725, 2722 e 2729 cod. civ., e 215 cod. proc. civ., sul riconoscimento della scrittura privata, nonché comunque omessa e contraddittoria motivazione circa fatti controversi decisivi oggetto di discussione le parti virgola in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito affermato che la villa, all’atto della costruzione nel 1924 – 1928 fosse divisa in quattro unità immobiliari, così ponendosi in contrasto con le stesse asserzioni, contenute in sentenza, circa la consistenza dell’immobile, come unitario, riportata nell’atto del notaio De. del 1936, così come negli atti del 1959 e 1971, nell’atto di constatazione del 1971 e nell’atto di donazione alle germane Si. e Tu.Im. del 21/7/1978, oltre a poter essere confermato dai testimoni indicati, in sede di giuramento decisorio di Tu.Im. regolarmente deferito e in sede di ispezione dei luoghi ex art. 258 cod. proc. civ. chiesta in giudizio. In tal modo i giudici, avevano violato gli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in quanto avevano tratto la prova sull’originaria consistenza della villa dalle contraddittorie affermazioni del c.t.u., il cui ragionamento era frutto di mere supposizioni o presunzioni contrastanti con il contenuto degli atti pubblici notarili da lui stesso richiamati e con le stesse ammissioni di Tu.Im., che, non a caso, aveva chiesto la divisione del bene. Inoltre, i giudici avevano errato allorché avevano affermato che le prove orali, il giuramento decisorio e l’ispezione, ritenute superflue dal Tribunale nel 2005 per essere chiara la consistenza unitaria del bene, non erano state riproposte, essendo avvenuto esattamente il contrario, ossia col foglio di deduzioni e conclusioni depositato al verbale di udienza di primo grado del 20/12/2011 e con la comparsa conclusionale del 6/12/2018 in appello, e avevano trascurato la scrittura del 12/10/1991 con cui le sorelle Tu. si erano ripartite l’uso della villa, lasciando a Si. il primo piano e a Tu.Im. il piano terra rialzato.
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7. Col settimo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 789 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per nullità del procedimento dovuta all’omesso deposito di un progetto divisionale e alla fissazione dell’udienza di discussione del medesimo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nonché violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sul principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, per avere la Corte d’Appello ritenuto di recepire totalmente la CTU, nonostante le incongruenze e illegittimità riscontrate ed evidenziate, senza depositare il progetto di divisione, ritenuto attuabile, onde consentire alle parti di svolgere le loro deduzioni in base agli argomenti esposti dalla stessa Corte o dal Tribunale, cui sarebbero dovuti essere rimessi gli atti, senza considerare che i ricorrenti avevano aderito alla divisione in natura, sia pure subordinatamente e sia pure proponendo alla Corte d’Appello l’opportunità di una divisione orizzontale.
8. Con l’ottavo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1117, 1118 e 1119 cod. civ. sulla delle pertinenze e delle parti comuni degli edifici, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., nonché per omessa, apparente motivazione, manifestamente ed insanabilmente illogica circa fatti controversi decisivi oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello accolto la proposta di divisione in verticale dell’immobile, elaborata dal c.t.u., attraverso la divisione dei due piani in due mini appartamenti ciascuno, con attribuzione ad ognuna delle parti del 50% dei muri maestri, delle aree pavimentate che circondano la villa, del lastrico solare e delle parti comuni, senza considerare che le pertinenze non sono divisibili ai sensi delle citate norme in materia di condominio e che la delimitazione dei confini delle parti comuni, della balconata, costituente la parte di maggior pregio della villa, e del lastrico solare non avrebbero consentito un uso più comodo delle stesse, oltretutto senza il consenso dell’altro condividente.
9. Col nono motivo, si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 720 cod. civ. in ordine all’omogeneità delle quote e ai criteri di valutazione, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano accolto le proposte del c.t.u. che aveva previsto la divisione della villa in quattro piccole abitazioni di 70 mq. calpestabili nemmeno di identica consistenza e la divisione delle quote esterne in due unità, sostenendo che alle minori dimensioni di quella di sinistra si sarebbe potuto ovviare rimuovendo le aiuole, senza considerare che al condividente non può essere imposto un tacere, ossia modifiche e variazioni di consistenza, che questa forma di divisione avrebbe svalutato la quota divisa rispetto all’intero, in contrasto col principio secondo cui le posizioni realizzate non devono comportare limitazioni funzionali o modifiche tali che, pur tecnicamente realizzabili, sarebbero idonee a snaturare le originarie caratteristiche dell’immobile o ridurne nel complesso e in sensibile misura il valore. Nella specie, la divisione delle unità interne e di quelle esterne avrebbe comportato la creazione di mini appartamenti non più signorili, la riduzione della godibilità esclusiva degli spazi esterni e la limitazione delle caratteristiche di orientamento e prospicienza, oltre a penalizzare il piano rialzato per panoramicità, con conseguente non omogeneità delle due quote che si sarebbe avuta con una divisione orizzontale.
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10. Col decimo motivo, si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 37 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ., in merito al difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, rilevabile in ogni stato e grado del processo, giacché, nel corso della consulenza di secondo grado, dopo il deposito della bozza, Tu.Im. aveva depositato una CILA in sanatoria degli abusi riscontrati in primo grado, la quale era stata annullata con provvedimento del Comune di N per cui pendeva giudizio amministrativo, mentre la Corte, pur essendo stata portata a conoscenza di tale annullamento e dell’ordine di ripristino, aveva ritenuto sostanzialmente la sua competenza, asserendo di non dover tener conto dell’annullamento, così sostituendosi all’autorità amministrativa e alla giurisdizione del competente T.A.R. della Campania, che, peraltro, adito dalla stessa Tu.Im. successivamente al deposito delle comparse conclusionali onde ottenere la provvisoria sospensione del provvedimento di inefficacia della CILA del 2020, aveva respinto la domanda.
11. Con l’undicesimo motivo, si lamenta, infine, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano compensato tra le parti 1/3 delle spese del doppio grado del giudizio e posto i restanti due terzi a carico della parte appellata, rendendo sul punto una motivazione apparente, inadeguata e insanabilmente illogica. I ricorrenti hanno evidenziato, sul punto, che il giudizio di divisione consente l’applicazione del principio della soccombenza soltanto per la fase relativa alla decisione delle eccezioni sollevate dalle parti, ma non anche per la fase divisionale, per la quale le spese vanno poste a carico della massa, che i giudici non avevano motivato in ordine a tale aspetto, che i ricorrenti non si erano opposti alla divisione, alla quale avevano subordinatamente aderito proponendo la suddivisione orizzontale del bene, ma avevano sollevato dubbi soltanto in ordine alla sua fattibilità urbanistica, stante lo stravolgimento dell’assetto originario della villa, il disallineamento catastale e il provvedimento di ripristino del Comune di N, sicché non si trattava di una vera soccombenza, la quale era comunque reciproca, essendo stata accolta la domanda dei ricorrenti in merito alla scrittura privata con cui le germane Tu. avevano disciplinato il godimento dell’immobile in F, ciò che avrebbe dovuto comportare la compensazione delle stesse. Inoltre, la quantificazione delle spese era avvenuta in violazione del D.M. n. 55 del 2014, non essendo stato applicato lo scaglione di valore indeterminato medio, alla stregua di quanto dichiarato dall’attrice nell’atto introduttivo del primo grado del giudizio.
12.1 Il primo e sesto motivo, da trattare congiuntamente in quanto riguardanti entrambi il medesimo thema decidendum afferente alla fondatezza della domanda di scioglimento della comunione e, dunque, all’an della pretesa, ricollegata alla reale consistenza (unitaria o frazionata) della villa fin da epoca antecedente al 1967, sono parte inammissibili e parte infondati.
12.2 La doglianza proposta col primo motivo in ordine alla illegittimità dell’operato del c.t.u., per avere egli acquisito le due licenze edilizie n. 36/38 del 16/3/1938 e n. 150/38 del 16/5/1938 che avrebbero potuto e dovuto essere prodotte tempestivamente dalla controparte, si scontra, in particolare, col principio secondo cui il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti – non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio (in tal senso Cass., Sez. 3, 7/9/2023, n. 26144; Cass., Sez. U., 1/2/2022, n. 3086; Cass., 6 – 3, 31/8/2022, n. 25604).
Proprio in applicazione di tale principio, Cass., Sez. 3, 7/9/2023, n. 26144, in un caso del tutto analogo a quello in esame, ha, ad esempio, confermato la sentenza di merito che, nell’ambito di una consulenza tecnica percipiente volta ad accertare la condizione urbanistica di un immobile, aveva ritenuto legittimamente utilizzabile dal c.t.u. un “file autocad” dal quale era possibile risalire agli interventi abusivi apportati sul bene nel corso del tempo, dallo stesso c.t.u. autonomamente acquisito al di fuori della produzione documentale delle parti.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Va, peraltro, rilevato che il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti nel giudizio di appello, previsto dall’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., che deriva dal carattere tendenzialmente chiuso delle fasi di impugnazione, non opera quando il giudice eserciti il proprio potere di disporre o rinnovare le indagini tecniche attraverso l’affidamento di una consulenza tecnica d’ufficio (Cass., Sez. 1, 27/6/2017, n. 15945), con conseguente legittimità dell’acquisizione delle licenze edilizie da parte del c.t.u., potendo il perito attingere aliunde notizie non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni che formano oggetto dei suoi accertamenti, quando ciò sia necessario ad espletare compiutamente il compito affidatogli (Cass., Sez. 1, 7/10/2016, n. 20232).
E poiché, come risulta dalla sentenza impugnata, i giudici d’appello avevano chiesto al c.t.u. di accertare, per un verso, l’avvenuta demolizione delle irregolarità e degli abusi edilizi presenti nell’immobile, come già individuati e descritti dal c.t.u. nel giudizio di primo grado, e, per altro verso, di descrivere, in caso negativo, quelli ancora esistenti e la loro idoneità a precludere o meno la commerciabilità del bene, deve ritenersi che correttamente i giudici di merito abbiano escluso che questi avesse travalicato dal suo compito, stante l’indagine officiosa a lui demandata, con conseguente infondatezza della censura.
12.3 Quanto al sesto motivo, col quale viene sostanzialmente contestata la valutazione delle prove documentali e orali, operata dai giudici di merito in ordine alla reale consistenza della villa fin dall’atto di costruzione, risalente agli anni 1924 – 1928, e alla riconducibilità a quel periodo del frazionamento in quattro unità immobiliari, in contrasto con la descrizione del bene contenuta negli atti dispositivi risalenti a quel periodo, occorre osservare come la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configuri unicamente nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando il ricorrente intenda lamentare, come nella specie, che, a causa di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, la sentenza impugnata abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, così come la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. può, invece, essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., Sez. 2, 21/3/2022, n. 9055).
La doglianza, poi, circa la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., Sez. U., 30/9/2020, n. 20867; Cass., Sez. 5, 9/6/2021, n. 16016), che però intanto è ravvisabile, dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, in quanto vi sia stata la violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, e dunque di totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487; Cass., Sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass., Sez. 6 – 3, 20/11/2015, n. 23828; Cass., Sez. 2, 13/08/2018, n. 20721; Cass., Sez. 3, 12/10/2017, n. 23940), nella specie non sussistenti, avendo la Corte di merito dato ampio conto dei motivi della decisione.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
12.4 Quanto alla questione afferente all’omesso esame dei testi, occorre osservare come la Corte d’Appello non si sia limitata a richiamare il giudizio di superfluità già espresso dai giudici di primo grado, né a dire che le relative deduzioni non erano state più riproposte, ma ha altresì ritenuto la genericità delle stesse, senza che, sotto questo profilo, vi sia stata alcuna doglianza.
Da ciò discende l’inammissibilità della censura, operando il principio secondo cui qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3951; Cass., Sez. 2, 30/3/2022, n. 10257).
13.1 Il quarto e il quinto motivo devono essere trattati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, riguardando anche essi la contestazione sull’accoglibilità della domanda di scioglimento della comunione in ragione della sussistenza di abusi edilizi che avevano comportato la declaratoria di inammissibilità della CILA in sanatoria e che si ponevano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, che impedivano la suddivisione della villa in quattro unità abitative.
Gli stessi, già resi difettosi dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, in contrasto col principio che vieta la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (in questi termini, Cass., Sez. 1, 23/10/2018, n. 26874), sono infondati.
13.2 Quanto alla doglianza afferente all’inammissibilità della produzione della documentazione relativa alla CILA e all’allineamento catastale, va, innanzitutto, premesso che la disciplina applicabile alla specie è quella dettata dall’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., nella versione successiva alla modifica di cui all’art. 54, comma 1, lett. b), D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”, atteso che, in assenza di una disciplina transitoria e in applicazione del principio del tempus regit actum, la modifica, in senso restrittivo, dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, trova applicazione soltanto se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge n. 134 del 2012, di conv. del D.L. n. 83 cit. e, cioè, dal giorno 11 settembre 2012 (Cass., Sez. 2, 14/3/2017, n. 6590), e che, nella specie, la sentenza di primo grado è stata pubblicata il 5/10/2012.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Orbene, il divieto di produzione di nuovi documenti in appello, di cui al vigente art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. può essere superato solo ove il giudice accerti che non era possibile provvedere al tempestivo deposito nel giudizio di primo grado, per causa non imputabile alla parte, restando a tal fine ininfluente l’indispensabilità del documento ai fini del decidere (Cass., Sez. 1, 12/6/2024, n. 16289) e anche la mancata opposizione della controparte, non trattandosi di salvaguardare il principio del contradditorio sulla prova, bensì di assicurare il rispetto della regola – di ordine pubblico processuale – stabilita dalla predetta disposizione (Cass., Sez. 3, 19/5/2022, n. 16235).
Nella specie, è pacifico che allineamento catastale e CILA siano state prodotte dall’appellante soltanto in grado d’appello all’udienza del 15/1/2020, come risulta dalla sentenza impugnata, ed è altrettanto evidente che i predetti documenti si sono formati successivamente alla conclusione del giudizio di primo grado, come evidenziato dagli stessi giudici del gravame, allorché hanno affermato che l’appellante aveva accolto il suggerimento del c.t.u., che aveva ritenuto “/e irregolarità residue (frazionamento e accorpamento) di nulla incidenza sulla commerciabilità, anche perché passibili di agevole sanatoria secondo una delle due modalità consentite dall’attuale normativa urbanistica, di cui la prima opportunità, più rapida, consiste nell’inoltro all’ufficio edilizia privata del Comune di N di una CILA in sanatoria o tardiva (…), alternativa all’accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001”, accogliendo il suggerimento e depositando per l’appunto detti documenti.
Vero è che gli stessi, ancorché depositati tardivamente, non sono stati posti a fondamento della pronuncia, che, anzi, non ha considerato ostativa al giudizio di divisibilità del bene il successivo provvedimento di annullamento della CILA in sanatoria, in quanto non chiesta da tutti i comproprietari.
Né osta al riconoscimento della fondatezza della domanda di scioglimento della comunione la sentenza del Consiglio di Stato n. 03932/2022 pubblicata in data 18/05/2022, pronunciatasi sulla consistenza della villa e sulla insanabilità, mediante CILA, degli abusi riscontrati in corso di causa, atteso che la decisione sulla pregiudiziale amministrativa non dà luogo ad un giudicato sulla commerciabilità del bene, non essendovi tra i due giudizi, amministrativo e ordinario, alcuna coincidenza e potendo il primo al più essere oggetto di valutazione da parte del giudice ordinario.
A differenza di quanto accade col giudicato civile, infatti, il giudice amministrativo non può spingersi fino al “merito” del rapporto tra le parti, ma deve limitarsi a conoscere della legittimità dell’atto impugnato, sicché, correlativamente, il giudicato amministrativo non può che essere rapportato a ciò che il giudice ha espresso in relazione allo specifico atto oggetto d’impugnazione, e a non altro, attenendo gli ulteriori riflessi qualificati della decisione all’attività adeguatrice dell’amministrazione, che trova nella sentenza del giudice il divieto di riprodurre l’atto annullato (vedi sul punto, Cass., Sez. 1, 14/5/1998, n. 4854; sulla pregiudiziale amministrativa Cass., Sez. 6 – L., 23/1/2018, n. 1607; Cass., Sez. 63, 3/8/2018, n. 20491).
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
13.3 Venendo alle ulteriori questioni, occorre ricordare come le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 25021 del 7/10/2019, abbiano affermato che il giudice non può disporre lo scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria) avente ad oggetto fabbricati, senza osservare le prescrizioni dettate dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, rispettivamente applicabili a seconda che l’edificio sia stato costruito successivamente o anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, e che, per gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, la nullità prevista dall’art. 40, comma 2, viene a profilarsi allorché da essi non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria, ovvero ad essi non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967.
Tale principio è in linea con quanto affermato dalle medesime Sezioni unite con la sentenza n. 8230 del 22/03/2019, nella quale si è detto che la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del terzo comma dell’art. 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile, sicché, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato, trattandosi di una nullità che costituisce la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell’interesse generale all’ordinato assetto del territorio (cfr. Cass., Sez. 1, 24/06/2011, n. 13969), ciò che spiega la sua rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Cass. Sez. Un., 11/11/2009, n. 23825; Cass., Sez. 2, 07/03/2019, n. 6684).
Essendo la regolarità edilizia del fabbricato posta a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, la carenza della documentazione attestante tale regolarità è, dunque, rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (Cass., Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009), così come è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il mancato esame di tale documentazione da parte del giudice (Cass., Sez. U., 7/10/2019, n. 25021 cit.).
Quando, dunque, sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Questo comporta che soltanto con la produzione della documentazione attestante la regolarità urbanistica del bene viene meno l’impedimento giuridico alla divisione di un fabbricato (Cass., Sez. 2, 4/4/2023, n. 9255).
Nella specie, i giudici di merito, tenendo conto dell’esame dei titoli di acquisto via via intervenuti dal 22/7/1936 al 21/7/1978, dell’ingiunzione di demolizione delle opere abusive notificata all’usufruttuaria Ci.Ma. il 30/9/2014 dal settore esecuzione demolizioni presso la Procura della Repubblica di Napoli in seguito alla sentenza del Tribunale di Napoli del 2/4/1992, dell’esecuzione delle demolizioni attestate dal decreto di archiviazione del 16/3/2015 e degli accertamenti compiuti in loco dal c.t.u., hanno stabilito, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, che le opere che avevano determinato l’avvio del procedimento penale (ossia il corpo aggiunto al piano interrato, la scala in muratura e la chiusura di due porte nel seminterrato) erano state demolite e che le difformità ancora persistenti, ossia il frazionamento tra le unità al piano rialzato e i sottostanti seminterrati e il diverso accorpamento di questi ultimi, erano state realizzate in periodo antecedente al 1967, sì da non inibire la commerciabilità del bene.
Le considerazioni svolte dai ricorrenti invece, ancorché presentate in termini di difetto di motivazione e di falsa violazione di legge, tendono a scardinare l’accertamento di fatto compiuto, senza considerare che la valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass. 29/10/2018, n. 27415).
Nessuna rilevanza possono assumere al riguardo il permanere di abusi edilizi minori, atteso che la distinzione tra questi e gli abusi c.d. maggiori aveva un senso allorché l’abuso edilizio andava ad incidere sulla stessa validità del contratto, indipendentemente dall’indicazione in esso di un titolo urbanistico, mentre diversamente deve ritenersi all’esito dell’arresto delle Sezioni unite di questa Corte del 2019, che, come sopra detto, hanno ancorato la validità del contratto al dato formale dell’indicazione in esso del titolo edilizio, purché esistente e riferito all’immobile che ne è oggetto, ed escluso la rilevanza, ai fini della sua validità, della difformità del bene rispetto allo stesso titolo (vedi Cass., Sez. 2, 21/6/2024, n. 17148, in motivazione).
14.1 Venendo ora alle doglianze più propriamente afferenti al quomodo della divisione, occorre analizzare, per rigettarle, quelle, di carattere processuale, proposte con il secondo, il terzo e il settimo motivo e riguardanti rispettivamente l’omesso esame del giudicato sulla divisibilità dell’immobile, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il mancato deposito del progetto di divisione.
14.2 Quanto alla prima questione, occorre osservare come l’ambito di operatività del giudicato, in virtù del principio secondo il quale esso copre il dedotto e il deducibile, sia correlato all’oggetto del processo e colpisca, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, incidendo, da un punto di vista sostanziale, non soltanto sull’esistenza del diritto azionato, ma anche sull’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi, ancorché non dedotti, senza estendersi a fatti ad esso successivi e a quelli comportanti un mutamento del petitum e della causa petendi, fermo restando il requisito dell’identità delle persone (Cass., Sez. 1, 9/11/2022, n. 33021).
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
La preclusione per effetto di giudicato sostanziale può scaturire, invero, solo da una statuizione che abbia attribuito o negato “il bene della vita” preteso e non anche da una pronuncia che non contenga statuizioni al riguardo, pur se essa risolva questioni giuridiche strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso, atteso che non sono suscettibili di passare in giudicato quei capi della pronuncia che, sebbene non impugnati, sono strettamente collegati da rapporto pregiudiziale o conseguenziale (Cass., Sez. 1, 17/1/2022, n. 1252).
Il giudicato interno si forma, infatti, solo su di un capo autonomo di sentenza che, restando del tutto indipendente, risolva una questione avente una propria individualità e autonomia, la quale non può dirsi sussistente allorché consista in una mera argomentazione, ossia nella semplice esposizione di un’astratta tesi giuridica, pur se funzionale a risolvere questioni strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso. In quest’ultimo caso, infatti, l’impugnazione della pronunzia di merito coinvolge necessariamente anche il ragionamento giuridico – esatto o errato che sia – che la sostiene, lasciando libero il giudice dell’impugnazione di confermare la decisione anche sulla base di una diversa motivazione in diritto (Cass., Sez. 1, 30/6/2022, n. 20951; Cass., Sez. 3, 05/09/2005, n. 17767; Cass., Sez. 1, 28/10/2005, n. 21092; Cass., Sez. 2, 03/07/2003, n. 10527; Cass., Sez. 3, 23/01/2002, n. 738; Cass., Sez. 3, 17/05/2001, n. 6757; Cass., Sez. 3, 02/10/1997, n. 9628).
In particolare, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico, con la conseguenza che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (fra le tante Cass., Sez. 3, 19/10/2022, n. 30728; Cass., Sez. 6 – L., 12/8/2018, n. 24783, non massimata).
Nella specie, i giudici di primo grado, con la sentenza n. 10637/2012, impugnata davanti alla Corte d’Appello, nel sostenere che, nella specie, “lo scioglimento debba avvenire non già mediante attribuzione di un singolo bene (o parte di beni) ai condividenti ovvero con assegnazione del tutto indivisibile ad un coerede richiedente, ma mediante vendita giudiziale (stante la non divisibilità e la mancata richiesta di assegnazione da alcuna delle parti)”, secondo quanto affermato in ricorso, hanno anche escluso che potesse procedersi a qualsiasi forma di divisione, stante la presenza di abusi edilizi atti a inibirla in applicazione dell’art. 17, comma 1, legge n. 47 del 1985 (oggi art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001), come espressamente riportato nella sentenza impugnata, senza dunque far seguire a tale affermazione anche un precetto se non quello del rigetto per motivi tutt’affatto differenti.
Peraltro, con l’impugnazione di detta pronuncia, l’appellante, nel chiederne la riforma, domandando l’accoglimento della domanda di scioglimento della comunione in maniera orizzontale e/o in qualsiasi altro modo ritenuto opportuno, con sorteggio di quote, ha riaperto la cognizione della questione della divisibilità del bene, impedendo con ciò il passaggio in giudicato di quella che, oltretutto, non può che considerarsi mera argomentazione e non certo decisum.
14.3 Quanto alla seconda questione, occorre, innanzitutto, evidenziare come l’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione, pur limitando il giudizio all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi proposti (Cass., Sez. L., 03/04/2017, n. 8604), precluda al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico (Cass., Sez. 3, 13/4/2018, n. 9202), sicché detto principio non può dirsi violato allorché il giudice di secondo grado fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel thema decidendum del giudizio (Cass., Sez. L., 03/04/2017, n. 8604, cit.).
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Orbene, risulta dalla stessa sentenza impugnata che con l’atto d’appello Tu.Im. aveva chiesto lo scioglimento della comunione sia mediante divisione orizzontale della villa, sia in qualsiasi altro modo ritenuto opportuno, sicché la dedotta violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato non soltanto non sussiste in concreto, attesa l’estensione della domanda proposta dall’appellante, ma neppure in via astratta, essendo le modalità di attuazione del progetto divisionale in base alla stima dei beni rimesse alla valutazione del giudice di merito (in questi termini vedi Cass., Sez. 6 – 2, 23/5/2013, n. 12779; Cass., Sez. 2, 19/4/2013, n. 9655).
14.4 Quanto alla terza questione, si rileva come l’art. 789 primo comma cod. proc. civ., nel prevedere che il giudice istruttore, predisposto il progetto di divisione, deve depositarlo in cancelleria e fissare la comparizione delle parti per la discussione del progetto medesimo, sia rivolto a consentire l’eventuale definizione non contenziosa del procedimento, ai sensi del secondo comma della stessa norma, per il caso di mancanza di contestazioni, sicché il giudice, ove le parti abbiano già manifestato il loro disaccordo o abbiano già escluso, con il loro comportamento processuale, la possibilità di una chiusura del procedimento mediante accettazione consensuale della proposta divisione, può omettere gli indicati adempimenti, di cui non è richiesta una stretta osservanza, e rimettere direttamente il giudizio alla fase decisoria (Cass., Sez. 2, 30/5/2017, n. 13621; Cass., Sez. 2, 11/1/2010, n. 242; Cass., Sez. 2, 21/6/1985, n. 3728).
Non rileva, pertanto, che i giudici abbiano, nella specie, invitato le parti a precisare le conclusioni, senza previamente depositare il progetto di divisione, essendo chiaro dal comportamento processuale dalle stesse tenuto l’impossibilità di addivenire ad una definizione concordata dello scioglimento della comunione, senza che perciò possa dirsi violato il diritto al contraddittorio e alla difesa, avendo le parti potuto esercitali entrambi attraverso il deposito delle memorie conclusionali e delle repliche.
15. L’ottavo, nono e decimo motivo, anch’essi afferenti al quomodo della divisione, stavolta affrontata da un punto di vista sostanziale, sono invece fondati.
Si osserva, in primo luogo, che, pur essendo il giudizio concreto sulla comoda divisibilità di un immobile rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito, la divisione non deve produrre un deprezzamento del bene, né imporre la formazione di servitù non eccessivamente gravose e deve consentire la formazione di quote suscettibili di autonomo godimento, ancorché in regime di condominio edilizio (Cass., Sez. 2, 21/4/1976, n. 1410).
Difatti, il diritto di ciascun comunista di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 cod. civ., trova deroga, ai sensi dell’art. 720 cod. civ., non solo nel caso di mera “non divisibilità” dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano “comodamente” divisibili e, cioè, allorché il frazionamento non richieda accorgimenti ed operazioni troppo costose e complesse o, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, ancorché in regime di condominio edilizio, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero ovvero comporterebbero una più o meno grave deviazione dalla naturale utilizzazione del complesso indiviso secondo la sua naturale funzione (Cass., Sez. 2, 15/12/2016, n. 25888; Cass., Sez. 2, 23/4/1979, n. 2285), ciò al fine di evitare che rimanga in qualche modo pregiudicato l’originario valore del cespite, ovvero che ai partecipanti vengano assegnate porzioni inidonee alla funzione economica dell’intero (Cass., Sez. 2, 28/5/2007, n. 12406; Cass., Sez. 2, 7/5/1987, n. 4233).
Pertanto, l’indagine sulla comoda o non comoda divisibilità, al fine del riconoscimento o meno, in sede di divisione giudiziale, del diritto di ciascun partecipante di ottenere la sua quota in natura, deve essere non solo rigorosa, ma deve anche essere condotta alla stregua del criterio oggettivo costituito dalla concreta possibilità o meno di ripartire il bene medesimo, nella sua attuale consistenza e destinazione, senza pregiudizio per il suo valore economico, ed in modo tale che la porzione da attribuirsi a ciascun condividente configuri un’entità autonoma e funzionale, tenuto conto dell’usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso (Cass., Sez. 2, 9/11/1977, n. 4738; Cass., Sez. 2, 29/5/2007, n. 12498).
A tali fini, rileva altresì la complessiva valutazione dell’intervento stesso in relazione alle caratteristiche dell’immobile e la sua compatibilità con la disciplina urbanistica vigente, sia avuto riguardo alla normativa nazionale, sia ai regolamenti e strumenti urbanistici locali, dovendosi verificare se l’intervento edilizio necessario per la divisione del fabbricato sia giuridicamente fattibile in quanto pienamente compatibile con la suddetta normativa, a maggior ragione in caso di vincoli storico-ambientali, e se il frazionamento possa essere utilmente realizzato senza compromettere il valore dell’intero edificio, nonché il godimento e il valore economico delle singole unitarie realizzabili (in questi termini, Cass., Sez. 2, 11/3/2019, n. 6915, non massimata).
Tale accertamento non risulta, invece, essere stato adeguatamente effettuato dalla sentenza impugnata, la quale ha liquidato i rilievi sollevati dagli appellati in ordine alla sussistenza di vincoli amministrativi (come le NTA del Comune di N sul centro storico; i vincoli geomorfologici di cui al D.M. 18/7/1970 ai sensi della legge n. 1497 del 1939; il Piano Territoriale Paesistico di Posillipo ex D.M. 14/12/1995; il D.P.C.M. del 24/6/2016 sull’area di pianificazione di emergenza per il rischio vulcanico Campi Flegrei), astrattamente atti ad inibire il materiale frazionamento della villa, richiamando genericamente quanto osservato dal c.t.u. circa la non incidenza degli stessi all’attuazione della soluzione da lui prospettata, senza invece verificare le disposizioni contenute in ordine all’area sulla quale ricade l’immobile dividendo, onde accertare la concreta fattibilità giuridica della realizzazione della divisione mediante il prospettato frazionamento dello stesso in plurime unità abitative.
La comoda divisibilità di un immobile e il criterio oggettivo
Per quanto detto, le censure sono fondate.
16. L’undicesimo motivo resta assorbito dall’accoglimento dei precedenti ottavo, nono e decimo.
12. In conclusione, dichiarata l’infondatezza del primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo motivo, la fondatezza del l’ottavo, nono e decimo e l’assorbimento dell’undicesimo, il ricorso deve essere accolto e per l’effetto la sentenza cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2024.
Depositata in Cancelleria il 18 ottobre 2024.
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