Il profitto confiscabile è, seppur reimpiegato o trasformato, solo quello che derivi in modo diretto e causale dalla commissione del reato, con esclusione dei vantaggi ulteriori ed eventuali.

Corte di Cassazione, sezione seconda penale, Sentenza 20 luglio 2018, n. 34293.

La massima estrapolata:

Il profitto confiscabile è, seppur reimpiegato o trasformato, solo quello che derivi in modo diretto e causale dalla commissione del reato, con esclusione dei vantaggi ulteriori ed eventuali. Ai sensi della legge 231 il profitto del reato oggetto della confisca si identifica non soltanto con i beni appresi per effetto diretto e immediato dall’illecito, ma anche da ogni altra utilità che sia conseguenza, anche se diretta e mediata, dell’attività criminosa.

Sentenza 20 luglio 2018, n. 34293

Data udienza 10 luglio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DAVIGO Piercamillo – Presidente

Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere

Dott. PACILLI Giuseppina A.R. – Consigliere

Dott. DI PISA Fabio – Consigliere

Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(OMISSIS) S.R.L., contro l’ordinanza del 12/03/2018 del Tribunale del riesame di Trani;
visti gli atti, i(provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso chiedendo i(rigetto del ricorso;
uditi i difensori, avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS), che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto del 30/01/2018, il giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Trani, ordinava, ai sensi dell’articolo 321 c.p.p., articoli 322 ter, 640 bis e 640 quater c.p., il sequestro preventivo: di tre impianti fotovoltaici; della somma di Euro 7.907.245,44 nella disponibilita’ di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e della societa’ (OMISSIS) s.r.l.; delle ulteriori somme non ancora percepite, e, in subordine, in caso di mancato reperimento, di beni per un importo equivalente.
Il suddetto sequestro era stato ordinato in quanto i suddetti soggetti (persone fisiche e giuridica) erano indagati per il reato di truffa aggravata, ex articolo 640 bis c.p., perche’, secondo il capo d’incolpazione, avevano indebitamente percepito erogazioni pubbliche attraverso l’artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche, solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura, che aveva indotto in errore il Ministero per lo Sviluppo Economico per il tramite del Gestore dei Servizi Economic (GSE) e determinato, quindi, l’ingiusto profitto di (OMISSIS) consistente nel percepimento di tariffe incentivanti per un importo pari ad Euro 7.134.326,38 e di Euro 772.919,06 a titolo di ritiro dedicato (RID).
Proposta istanza di riesame, il Tribunale del riesame di Trani la respingeva con ordinanza del 12/03/2018.
2. Contro la suddetta ordinanza, la (OMISSIS) s.r.l. – societa’ sottoposta ad indagine ex combinato disposto del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 5, comma 1, lettera a), e articolo 24, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. LA VIOLAZIONE DEL Decreto Legislativo n. 387 del 2003, articolo 7, Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, articoli 2 – 6.
La ricorrente ha premesso che, secondo l’ipotesi accusatoria, gli impianti fotovoltaici in questione posti sulla copertura di serre, dovessero rispettare, per avere accesso all’incentivazione, l’obbligo di coltivazione continuativa e permanente durante tutta la durata dell’erogazione degli incentivi.
Sennonche’, la difesa contesta la suddetta interpretazione in quanto, a suo avviso, dalla stessa lettura delle suddette norme, si evince che “non esiste una tipologia specifica di installazione o di tariffe incentivante per le cd. “serre fotovoltaiche”, ma per moduli fotovoltaici integrati ovverosia installati come elementi costruttivi (e.g., rivestimento) di una struttura edilizia “di qualsiasi funzione o destinazione”. In sostanza, le cosiddette “serre fotovoltaiche” non esistono come categoria autonoma nel sistema di cui al Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, ma rientrano nella tipologia 1 o 10 del summenzionato Allegato 3; le stesse potranno dunque accedere alla tariffa per impianti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b3). Il Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, non prescrive alcun ulteriore o specifico requisito per le serre fotovoltaiche, in ragione del fatto che l’incentivo e’ assegnato alla produzione di energia “pulita” da impianti fotovoltaici e, nel caso di specie, da moduli fotovoltaici posti in sostituzione dei tetti o di parte di questi di “strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione”, essendo qui indifferente ai fini dell’accesso agli incentivi stabiliti dal Ministero dello Sviluppo Economico che la struttura edilizia sia una serra o altro manufatto (….) a differenza di quanto asserisce l’ordinanza impugnata, non vi e’ alcuna incompatibilita’ concettuale tra la “sostituzione” della copertura dei fabbricati e la realizzazione di un “nuovo” impianto. L’impianto e’ nuovo perche’ nuovi sono i moduli fotovoltaici di cui si compone. Si realizza mediante sostituzione in quanto i moduli fotovoltaici sono installati come “rivestimento di tetti, coperture, facciate di edifici e fabbricati”, in sostituzione dei materiali di cui si sarebbe composto tale rivestimento e avendo cura di preservare “la medesima inclinazione e funzionalita’ architettonica della superficie rivestita” (….) il Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, riconosce l’accesso agli incentivi ai nuovi impianti realizzati tramite sostituzione della copertura di edifici senza nulla imporre in merito alla destinazione degli edifici medesimi, senza individuare alcun particolare regime di accesso alle tariffe incentivanti per quella peculiare tipologia di fabbricati costituita dalle serre”;
2.2. LA VIOLAZIONE dell’articolo 7 Decreto Legislativo CIT. Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, articolo 2, comma 1, lettera l) – articolo 10.
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale, come ulteriore argomento, ha sostenuto che l’obbligo di adibire le serre a coltivazione continuativa, derivava da apposite linee guida elaborate sin dal marzo-aprile 2009 dal GSE e che tali guide costituivano fonti normative secondarie di carattere contrattuale che avevano avuto la funzione di dettagliare le condizioni per l’accesso e la stipula della convenzione.
La difesa contesta tale affermazione sostenendo, al contrario, che il GSE non era titolare del potere di introdurre nuove condizioni per l’accesso agli incentivi in quanto nessuna norma glielo concedeva e, quindi, “le guide” pubblicate non potevano essere considerate una fonte di diritto.
2.3. LA VIOLAZIONE DEL Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, ARTT. 10 – 20.
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale, come ulteriore argomento, ha sostenuto che l’obbligo di adibire le serre a coltivazione continuativa, derivava, altresi’, dal Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 20, comma 5, a norma del quale “Rientrano nelle tipologie di cui all’allegato 3 del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, le serre fotovoltaiche nelle quali i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per tutta la durata dell’erogazione della tariffa incentivante, a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura”.
La difesa della ricorrente contesta il suddetto argomento, sostenendo che “tale previsione, pero’, lungi dall’introdurre una nuova condizione di accesso agli incentivi non prevista dal Secondo Conto Energia, si limita a specificare che, all’interno del genus costituito dagli impianti fotovoltaici con integrazione architettonica posta sulla copertura di serre (previsto dalla Tipologia 1 dell’allegato 3 del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007) “rientra” altresi’ la species delle serre fotovoltaiche nelle quali i manufatti sono adibiti, per tutta la durata della tariffa, alla coltivazione agricola o alla floricoltura (….) La ratio di questa specificazione va ricavata alla luce del Decreto Ministeriale 6 agosto 2010 nel suo complesso considerato. Infatti, il Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 10, ha previsto “Premi per specifiche tipologie e applicazioni di impianti fotovoltaici”, attribuendoli proprio agli “impiantii cui moduli costituiscono elementi costruttivi di pergole, serre, barriere acustiche, tettoie e pensiline, cosi’ come definiti all’articolo 20, commi 2, 3, 4 e 5″. La specificazione, dunque, era funzionale, attraverso il rinvio operato dal Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 10, a restringere l’applicabilita’ del premio previsto da quest’ultimo a quei soli impianti insistenti sulla copertura delle serre che avessero anche garantito lo svolgimento continuativo dell’attivita’ di coltivazione. Premio che non e’ stato ne’ richiesto ne’ ottenuto da (OMISSIS) (….) ove si ritenesse che l’articolo 20, comma 5, avesse davvero inteso restringere retroattivamente i requisiti di accesso agli incentivi di cui al Secondo Conto Energia, tale norma sarebbe illegittima per violazione del divieto di retroattivita’ dei regolamenti posto dall’articolo 11 preleggi, e si porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 117 Cost., in relazione ai principi, anche di diritto dell’Unione Europea, di irretroattivita’, tutela dell’affidamento e certezza del diritto”;
2.4. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 20, comma 5 Decreto Ministeriale CIT..
La difesa della ricorrente ha premesso che il Tribunale aveva ritenuto sussistente per gli impianti integrati su serra un obbligo di coltivazione per l’accesso e l’erogazione degli incentivi di cui al Secondo Conto energia, da ricavarsi sulla base delle disposizioni di cui alla “Guida” del GSE dell’aprile 2009 e del Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 20, comma 5, che farebbero riferimento al fatto che le serre debbano essere “dedicate” alle coltivazioni agricole o alla floricoltura.
Ad avviso della difesa, invece, “(….) il preteso requisito della “dedizione” delle serre alle coltivazioni agricole o alla floricoltura di cui alla “Guida” del GSE dell’aprile 2009 e al Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 20, comma 5, non puo’ certamente essere interpretato come riferito alla costante presenza in serra di piante in crescita o visibili, a meno di non voler interpretare la normativa secondo dinamiche del tutto estranee all’agricoltura e floricoltura. Quello che potrebbe contare, al piu’, e’ che le serre fotovoltaiche abbiano mantenuto la destinazione d’uso alla coltivazione agricola o alla floricultura e che vengano svolte attivita’ che dimostrino – appunto – la “dedizione” alla coltivazione, come e’ certamente avvenuto nel caso che ci occupa. In queste attivita’ certamente rientra anche la fase del riposo del terreno quale fase prodromica necessaria all’avvicendamento di diverse colture sullo stesso (….) il Tribunale del Riesame ha applicato in modo errato il Decreto Ministeriale 6 agosto 2010, articolo 20, comma 5, stravolgendo del tutto la ratio del Decreto Legislativo n. 387 del 2003, articolo 7, posto che quest’ultimo era espressamente teso a incentivare la produzione di “elettricita’ (…) mediante conversione fotovoltaica della fonte solare” attraverso “una equa remunerazione dei costi di investimento e di esercizio” e non certo l’attivita’ di coltivazione attraverso un’erogazione di incentivi subordinata all’esercizio della coltivazione”;
2.5. LA VIOLAZIONE DEL Decreto Legislativo n. 387 del 2003, ART. 13.
La difesa della ricorrente ha premesso che era stata sottoposta a sequestro la somma di Euro 772.919,06 corrispondente ai corrispettivi percepiti dalla (OMISSIS) a titolo di ritiro dedicato (RID).
Ad avviso della difesa, la suddetta somma non avrebbe potuto essere sequestrata in quanto le somme percepite a titolo di RID sono versate dal GSE “come corrispettivo dell’energia effettivamente prodotta e concretamente immessa nel sistema elettrico, per il solo fatto di derivare da fonte rinnovabile”: quindi, sarebbe errata l’affermazione del Tribunale secondo il quale si tratterebbe di “una sorta di prezzo di favore” in quanto “il prezzo era lo stesso tanto per gli impianti integrati sui tetti che per quelli al suolo e soprattutto prescinde dal riconoscimento degli incentivi stabiliti dal conto energia”;
2.6. CARENZA DEL FUMUS DELICTI.
Ad avviso della difesa “nessun argomento e’ stato portato dai Giudici del Riesame per contestare quanto dimostrato dalla difesa, ovvero che le serre sono state effettivamente pensate e realizzate per esercitarvi l’attivita’ florovivaistica, considerato che: (i) le stesse presentano caratteristiche strutturali peculiari per permettere la floricoltura, piuttosto che per la massimizzazione dell’energia elettrica, tanto e’ vero che i moduli fotovoltaici non sono posti su tutta la copertura ma solo su parte di questa per garantire la corretta illuminazione; (ii) all’epoca il Gruppo (OMISSIS) era un’eccellenza italiana riconosciuta anche all’estero e leader indiscusso del settore florovivaistico”;
2.7. LA VIOLAZIONE DEL Decreto Legislativo n. 231 del 2001, ARTT. 19 – 53.
Ad avviso della difesa il sequestro preventivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1 (cd. impeditivo) non sarebbe ammissibile nei confronti degli enti come si desume non solo dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 53, che richiama l’articolo 321, limitatamente ai commi 3, 3 bis e 3 ter, escludendo il riferimento al comma 1, ma, anche a livello sistematico in quanto le finalita’ precauzionali nei confronti di una persona fisica sarebbe del tutto estranee all’ente per il quale e’ stata previsto il sequestro solo funzionale alla successiva confisca, anche perche’, se cosi’ non fosse si verrebbe a creare una sovrapposizione tra il sequestro impeditivo e l’interdizione dell’attivita’.
Inoltre, ai fini del fumus delicti, occorrerebbe provare non solo gli indizi del reato presupposto, ma anche tutti gli altri elementi che fondano la responsabilita’ dell’ente (cd. fumus allargato), ossia: a) che il reato sia ricompreso fra quelli previsti dalla stesso decreto; b) che l’autore si trovi in posizione apicale o subordinata all’interno dell’ente; c) l’interesse per l’ente o il vantaggio dal medesimo ottenuto dal reato, d) la colpa organizzativa. Sul punto, il tribunale si era limitato solo a vagliare la fondatezza del fumus del delitto commesso dalle persone fisiche senza considerare tutti gli altri elementi che determinano la responsabilita’ da reato dell’ente, motivando, peraltro, in modo apparente sui suddetti presupposti applicativi del sequestro finalizzato alla confisca di Euro 772.919,06;
2.8. Con memoria, pervenuta il 30/06/2018, la difesa della ricorrente ha ulteriormente illustrato il contesto normativo in cui si inserisce la vicenda per cui e’ processo, ribadendo, pertanto, le censure dedotte.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. IL FUMUS DELICTI DELL’ART. 640 BIS c.p..
L’ipotesi accusatoria risultante dalla lettura del capo d’incolpazione (riportato in nota 1 dell’ordinanza impugnata), riguarda l’artificiosa creazione di tre serre fotovoltaiche, solo apparentemente dedicate a coltivazione agricola e a floricoltura, con conseguente induzione in errore del Ministero per lo Sviluppo Economico per il tramite del Gestore dei Servizi Economici (GSE) e conseguimento di un ingiusto profitto consistente nel percepire le “tariffe incentivanti previste dal secondo Conto Energia di cui al Decreto Ministeriale del 19/02/2007 per l’importo di Euro 7.134.326,38 nonche’ della tariffa a titolo di RID (ndr: ritiro dedicato) per l’importo di Euro 772.919,06”: cfr capo d’incolpazione.
Il suddetto importo fu percepito a seguito della stipula di tre convenzioni in base alle quali, appunto, il GSE riconobbe gli incentivi sul falso presupposto che le serre sulle quali erano stati posti gli impianti fotovoltaici, fossero “dedicate a coltivazioni agricole e a floricoltura”.
Si tratta, quindi, di una tipica truffa contrattuale la cui attivita’ decettiva va individuata nel momento della stipula delle convenzioni, ossia “dal 14/11/2011 all’attualita’” cosi’ come indicato correttamente nel capo d’incolpazione.
Va anche precisato, in punto di fatto, che si trattava di un “impianto fotovoltaico con integrazione architettonica ai sensi del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, articolo 2, comma 1, lettera b3), essendo stato realizzato sul tetto di una serra ed i moduli sono installati con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falsa, i cui componenti non modificano la sagoma della serra stessa e la superficie dell’impianto non e’ superiore a quella del tetto, risultando integrati secondo le tipologie di cui all’allegato 3 del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007” (pag. 14 ordinanza impugnata in cui il Tribunale riporta l’asseverazione del direttore dei lavori, ing. (OMISSIS).
2. Le censure dedotte ed illustrate supra in parte narrativa ai §§ 2.1. – 2.2. 2.3., ruotano tutte su quale sia la normativa applicabile alle Convenzioni stipulate dalle parti.
La tesi accusatoria, fatta propria dal Tribunale, sostiene che gli impianti fotovoltaici in questione, realizzati sui tetti delle serre, avrebbero potuto usufruire degli incentivi di cui al cit. D.M., solo ove le serre fossero state “dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura” anche perche’ “tale obbligo derivava ex se dalla sottoscrizione della convenzione con il GSE che, appunto risultava a monte disciplinata dalla predisposizione di regole e parametri che, con la sottoscrizione del contratto, i responsabili hanno pacificamente accettato e recepito” (pag. 8 ordinanza impugnata).
La tesi difensiva, ritiene esattamente il contrario perche’ “non esiste una tipologia specifica di installazione o di tariffe incentivante per le cd. “serre fotovoltaiche”, ma per moduli fotovoltaici integrati ovverosia installati come elementi costruttivi (e.g., rivestimento) di una struttura edilizia “di qualsiasi funzione o destinazione”. In sostanza, le cosiddette “serre fotovoltaiche” non esistono come categoria autonoma nel sistema di cui al Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, ma rientrano nella tipologia 1 o 10 del summenzionato Allegato 3; le stesse potranno dunque accedere alla tariffa per impianti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b3). Il Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, non prescrive alcun ulteriore o specifico requisito per le serre fotovoltaiche (….)”.
3. La censura e’ infondata per le ragioni di seguito indicate.
Il punto nodale della problematica consiste nel verificare quale fosse la normativa vigente al momento (14/11/2011) in cui le Convenzioni furono stipulate.
Il Decreto Ministeriale del 2007, all’articolo 2, comma 1, lettera b3) definisce l’impianto fotovoltaico con integrazione architettonica (cioe’ quello per cui e’ processo) come “l’impianto fotovoltaico i cui moduli sono integrati, secondo le tipologie elencate in allegato 3, in elementi di arredo urbano e viario, superfici esterne degli involucri di edifici, fabbricati, strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione”.
A sua volta l’allegato 3 (“tipologie di interventi valide ai fini del riconoscimento dell’integrazione architettonica”) prevede le seguenti dieci tipologie: “Tipologia specifica 1: Sostituzione dei materiali di rivestimento di tetti, coperture, facciate di edifici e fabbricati con moduli fotovoltaici aventi la medesima inclinazione e funzionalita’ architettonica della superficie rivestita, Tipologia specifica 2. Pensiline, pergole e tettoie in cui la struttura di copertura sia costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto; Tipologia specifica 3: Porzioni della copertura di edifici in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano il materiale trasparente o semitrasparente atto a permettere l’illuminamento naturale di uno o piu’ vani interni; Tipologia specifica 4: Barriere acustiche in cui parte dei pannelli fonoassorbenti siano sostituiti da moduli fotovoltaici; Tipologia specifica 5: Elementi di illuminazione in cui la superficie esposta alla radiazione solare degli elementi riflettenti sia costituita da moduli fotovoltaici; Tipologia specifica 6: Frangisole i cui elementi strutturali siano costituiti dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto; Tipologia specifica 7: Balaustre e parapetti in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano gli elementi di rivestimento e copertura; Tipologia specifica 8: Finestre in cui i moduli fotovoltaici sostituiscano o integrino le superfici vetrate delle finestre stesse; Tipologia specifica 9: Persiane in cui i moduli fotovoltaici costituiscano gli elementi strutturali delle persiane; Tipologia specifica 10: Qualsiasi superficie descritta nelle tipologie precedenti sulla quale i moduli fotovoltaici costituiscano rivestimento o copertura aderente alla superficie stessa”.
Come puo’ notarsi, l’allegato 3, non contiene alcun riferimento esplicito alle serre, sicche’ si poteva inserirle in una delle suddette tipologie solo in via interpretativa come ha fatto il tribunale secondo il quale, il combinato disposto delle tipologie di cui ai nn. 2 (“tettoie in cui la struttura di copertura sia costituita dai moduli fotovoltaici e dai relativi sistemi di supporto”) e 10 (“Qualsiasi superficie descritta nelle tipologie precedenti sulla quale i moduli fotovoltaici costituiscano rivestimento o copertura aderente alla superficie stessa”) “consente di annoverare la tipologia serre fotovoltaiche all’interno della categoria serre”.
Questa interpretazione, pero’, e’ contestata, con gli argomenti di cui si e’ detto, dalla difesa.
Sennonche’, il Ministero dello sviluppo economico emano’, in data 06/08/2010, il Decreto Ministeriale intitolato “Incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare”.
L’articolo 1, intitolato “Finalita’ e campo di applicazione”, al comma 3, stabilisce: “Il decreto 19 febbraio 2007 continua ad applicarsi, tenendo conto di quanto previsto all’articolo 19, e delle modificazioni di cui all’articolo 20, agli impianti fotovoltaici che entrano in esercizio entro il 31 dicembre 2010”.
L’articolo 20, intitolato “Interpretazioni e modificazioni del Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007,” al comma 5, dispone: “Rientrano nelle tipologie di cui all’allegato 3 del decreto ministeriale 19 febbraio 2007 le serre fotovoltaiche nelle quali i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura o delle pareti di manufatti adibiti, per tutta la durata dell’erogazione della tariffa incentivante, a serre dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura. La struttura della serra, in metallo, legno o muratura, deve essere fissa, ancorata al terreno e con chiusura eventualmente stagionalmente rimovibile”.
Ora, non vi e’ dubbio che la suddetta norma costituisca una tipica ipotesi di interpretazione autentica (ovviamente, di una norma controversa) che, quindi, in quanto tale ha sicuramente efficacia ex tunc. Cio’ si desume agevolmente dalla circostanza che le “modificazioni del decreto ministeriale 19 febbraio 2007” invece, sono testualmente indicate nel comma 8, in cui e’ scritto: “Il Decreto Ministeriale 19 febbraio 2007, articolo 7, commi 1 e 2, sono sostituiti dai seguenti (….)”: per differenza, quindi, tutte le altre ipotesi considerate nei precedenti commi rientrano nelle “interpretazioni”.
Ma, quand’anche si volesse ritenere che il comma quinto debba essere considerato una “modificazione” del Decreto Ministeriale del 2007 – cosi’ come sostiene la difesa dei ricorrenti – nulla cambierebbe per la semplice ragione che, al momento della stipula della Convenzione, il suddetto Decreto Ministeriale risultava gia’ “modificato” da oltre un anno.
Di conseguenza, quando la Convenzione fu stipulata, era in vigore la normativa che stabiliva che gli incentivi sarebbero stati concessi solo ove le serre fossero state “dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura”, condizione questa da ritenersi, pertanto, recepita ed accettata dagli indagati.
Diventa, quindi, del tutto irrilevante discettare sul se la G.S.E. – che aveva fin dal 2009, con delle linee-guida, sostenuto che potevano usufruire degli incentivi anche le serre che fossero dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura – avesse o meno il potere di farlo e, quindi, se le sue indicazioni fossero vincolanti.
Quello che rileva e’ che, lo si ripete, alla data della stipula delle Convenzioni, il Decreto Ministeriale del 2007 risultava essere gia’ stato modificato da oltre un anno, sicche’ gli indagati, quell’obbligo avrebbero dovuto rispettare.
Non e’, quindi, configurabile alcun “divieto di irretroattivita’” anche perche’, prima della stipula della Convenzione, la ricorrente non avrebbe potuto vantare alcun diritto.
Erra, pertanto, la difesa (pag. 19 ricorso) quando, nell’invocare il “divieto di irretroattivita’”, fa retroagire la condotta dei ricorrenti “alla presentazione delle istanze volte ad ottenere i permessi di costruire delle serre (risalente) al 2008. Il deposito delle DIA per la realizzazione degli impianti integrati e’ avvenuto nel 2009. Il Decreto Ministeriale 6 agosto 2010 e’ entrato in vigore il 25 agosto 2010 (il giorno successivo alla sua pubblicazione in G.U. ai sensi del suo articolo 22)”.
In realta’, la ricorrente ha acquisito il diritto di ricevere gli incentivi solo ed esclusivamente per effetto della Convenzione: ove si fosse rifiutata di sottoscriverla, avrebbe, potuto magari adire l’autorita’ giudiziaria per far valere le proprie ragioni (e cioe’ chiedere che le fossero ugualmente corrisposti gli incentivi nonostante le serre non fossero “dedicate alle coltivazioni agricole o alla floricoltura”), ma, di sicuro, il G.S.E. non avrebbe potuto, sua sponte, liquidare milioni di Euro senza una Convenzione.
E’ proprio nel momento della sottoscrizione delle Convenzioni, che si annida, quindi, l’attivita’ fraudolenta dei ricorrenti consistita nell’essere perfettamente consapevoli della modifica del Decreto Ministeriale 2007, nel dichiarare di accettarla, pur sapendo che l’obbligo assunto di dedicare le serre “alle coltivazioni agricole o alla floricoltura” non sarebbe mai stata adempiuto e, quindi, in sostanza, ben consapevoli di chiedere e percepire incentivi non dovuti.
Sul fumus delicti, e’ sufficiente il rinvio alla lettura dell’amplissima motivazione addotta sul punto dal tribunale (in particolare, pag. 22 ss), anche perche’ la difesa non ha ritenuto di proporre alcuna specifica censura.
L’unica doglianza e’ quella illustrata supra in parte narrativa ai §§ 2.4. e 2.6. secondo la quale, essendo le serre comunque “dedicate”, cioe’ predisposte per la coltivazione, sarebbe irrilevante che non fossero state in concreto utilizzate.
Si tratta, pero’, di un argomento – oltre che confutato dal Tribunale a pag. 11 dell’ordinanza con motivazione nella quale non sono ravvisabili violazioni di legge ossia l’unico vizio deducibile, ex articolo 325 c.p.p., in questa sede anche di poco momento che stride con il principio generale secondo il quale ogni norma (anche quella di origine pattizia) va interpretata in modo ragionevole e in buona fede e tale non puo’ essere quella proposta dalla difesa.
La ratio legis della norma che ha previsto la possibilita’ di collocare impianti fotovoltaici sui tetti (anche) delle serre e’ intuitiva: consentire di sfruttare superfici non utilizzate per produrre energia rinnovabile senza, pero’, pregiudicare la coltivazione e la produzione agricola che ha un valore in se’ che va comunque preservato. Attraverso il contemperamento di queste due esigenze entrambe meritevoli di tutela, si e’ voluto, pertanto, impedire che i proprietari terrieri abbandonino l’attivita’ agricola limitandosi a sfruttare il suolo solo per la tenuta delle serre – magari costruite ad hoc, come nella vicenda in esame – al solo fine di lucrare gli incentivi molto piu’ remunerativi del faticoso lavoro agricolo.
Sul punto, e’ anche opportuno osservare che, come rilevato dal giudice delle indagini preliminari – alla stregua di puntuali richiami alla normativa regionale nel decreto di sequestro (pag. 44 ss) “gli indagati non avrebbero potuto altrimenti conseguire i benefici della legge, neppure collocando gli impianti al suolo”: il che conferma che gli indagati architettarono, fin dall’inizio, un piano fraudolento finalizzato all’illegittima percezione dei benefici.
Alla stregua di quanto si e’ detto, pertanto, allo stato degli atti, deve ritenersi sussistente il fumus delicti della truffa contrattuale che si ha allorche’ l’agente ponga in essere artifici e raggiri al momento della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo che viene indotto a prestare un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato.
Vanno, quindi, disattese le censure illustrate supra in parte narrativa ai §§ sub 2.1.-2.2.-2.3.-2.4.-2.6.
In ordine al sequestro, la difesa della ricorrente ha dedotto le seguenti censure:
a) il sequestro impeditivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1, non avrebbe potuto essere disposto nei confronti della Societa’;
b) il Tribunale, in ordine al sequestro finalizzato alla confisca, non aveva motivato su tutti gli elementi che fondano la responsabilita’ dell’ente (cd. fumus allargato);
c) la somma di Euro 772.919,06 corrispondente ai corrispettivi percepiti dalla (OMISSIS) a titolo di ritiro dedicato (RID) era errata per eccesso;
4.1. IL SEQUESTRO IMPEDITIVO.
Risulta dall’ordinanza impugnata (pag. 12) nonche’ dallo stesso decreto emesso dal giudice delle indagini preliminari (pag. 42) che, su richiesta del Pubblico Ministero, il giudice delle indagini preliminari ordino’ “il sequestro preventivo ex articolo 321 cod. proc. pen. degli impianti fotovoltaici, in quanto beni che hanno permesso la realizzazione dei fatti-reato e il conseguimento di erogazioni pubbliche che altrimenti gli indagati non avrebbero potuto conseguire: e’ quindi evidente che la libera disponibilita’ di siffatti impianti, in quanto beni pertinenti al reato, potrebbero aggravare, protrarre o agevolare la commissione di altri reati” (pag. 42 decreto giudice delle indagini preliminari).
Il sequestro degli impianti fotovoltaici fu, quindi, ordinato a norma dell’articolo 321 c.p.p., comma 1, – come letteralmente si desume dalla motivazione dinnanzi riportata – nei confronti della societa’ ricorrente (pacificamente proprietaria dei suddetti impianti) in quanto indagata Decreto Legislativo n. 231 del 2001, ex articolo 5, comma 1, lettera a), e articolo 24, ed il cui legale rappresentante risulta essere (OMISSIS), allo stato non indagato, almeno stando a quanto risulta dallo stesso decreto di sequestro.
Il Tribunale (pag. 31 ss) ha ritenuto di confermare il suddetto sequestro adducendo una motivazione che, in pratica, ricalca quella del giudice delle indagini preliminari.
4.1.1. La censura e’ infondata per le ragioni di seguito indicate.
La legge n. 231/2001 prevede un complesso sistema di repressione degli illeciti commessi dall’ente, basato sulle sanzioni amministrative indicate nell’articolo 9 che vengono applicate all’esito del processo che si concluda con la condanna dell’ente (articolo 69).
Non potendosi tuttavia, attendere sempre l’esito definitivo del processo, il legislatore ha previsto che, nel corso delle indagini o durante lo stesso processo (articolo 47), all’ente si possano applicare delle misure cautelari: “L’esigenza di apprestare un sistema di cautele con riferimento all’illecito imputabile alla persona giuridica ubbidisce a un duplice scopo: evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato; “paralizzare” o ridurre l’attivita’ dell’ente quando la prosecuzione dell’attivita’ stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato” (Relazione Ministeriale § 17).
Il sistema delle misure cautelari (articolo 45) si basa, da una parte, sulle sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, e, dall’altra, sul sequestro preventivo (articolo 53) e sul sequestro conservativo (articolo 54).
L’articolo 53, comma 1 dispone “1. Il giudice puo’ disporre il sequestro delle cose di cui e’ consentita la confisca a norma dell’articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui all’articolo 321 c.p.p., commi 3, 3-bis e 3-ter, articoli 322, 322 bis e 323 c.p.p., in quanto applicabili”.
Il suddetto articolo, prevede testualmente che, nei confronti degli enti, si possa applicare il solo sequestro (del prezzo o del profitto del reato) a fini di confisca di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 2.
Quindi, il sequestro preventivo di cui all’articolo 53, non coincide con quello previsto nell’articolo 321 c.p.p., non solo perche’ non e’ previsto il sequestro impeditivo di cui al comma 1, ma anche perche’ il sequestro a fini di confisca non ha l’ampia latitudine di quello previsto dall’articolo 321, comma 2 (“il giudice puo’ disporre il sequestro delle cose di cui e’ consentita la confisca”) essendo ristretto e limitato, in virtu’ del rinvio all’articolo 19, al solo prezzo o profitto del reato (la confisca del profitto ex articolo 6, comma 5, e articolo 15, comma 4, e’ consentita solo con la sentenza di condanna e non e’ anticipabile con il sequestro essendo questo previsto solo per l’ipotesi di cui all’articolo 19).
La suddetta disposizione e’, peraltro, coerente con quanto si legge nella Relazione Ministeriale in cui, al § 17 – dedicato alle misure cautelari – si trova scritto: “Discorso a se’ stante meritano, infine, le previsioni di cui agli articoli 53 e 54. Queste introducono due ipotesi di cautele autonome rispetto all’apparato di misure interdittive irrogabile alle persone giuridiche. Per quanto non espressamente previsto dalla legge delega, si e’ ravvisata la necessita’ di disciplinare le ipotesi di sequestro preventivo a scopo di confisca e del sequestro conservativo, posto che la loro operativita’ in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti – questo espressamente previsto dalla delega – non si sarebbe potuta mettere seriamente in discussione in ragione di una incompatibilita’ con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, in realta’ non ravvisabile se non in relazione al sequestro preventivo in senso proprio, che pertanto e’ da ritenersi ipotesi non applicabile nella specie. Da qui la disciplina sopra richiamata che consente il sequestro preventivo in funzione di confisca con conseguente richiamo di parte della disciplina codicistica, nonche’ l’altra previsione, che appunto rende possibile il sequestro conservativo – anche qui con richiamo della disciplina codicistica in quanto applicabile – dei beni o delle somme dovute o che garantiscano il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario”.
Quindi, non fu prevista la possibilita’ del sequestro impeditivo perche’ la funzione cautelare da questo assolta (impedire che “la libera disponibilita’ di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati)”, avrebbe determinato “una incompatibilita’ con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche”, anch’esse aventi la stessa finalita’.
4.1.2. Poiche’ l’incompatibilita’ fra il sequestro impeditivo e le misure interdittive ha costituito l’unico motivo per cui il sequestro di cui all’articolo 321 c.p.p., e’ stato ritenuto inapplicabile nei confronti degli enti, non resta allora che verificare se la suddetta affermazione sia fondata oppure se, al contrario, il sequestro impeditivo abbia un suo autonomo raggio di azione: in quest’ultimo caso, occorre stabilire quale sia il finium regundorum fra i due suddetti istituti.
La paventata incompatibilita’ potrebbe ravvisarsi laddove la misura interdittiva avesse lo stesso effetto di un sequestro impeditivo: ad es., la misura interdittiva dell’esercizio dell’attivita’ (che, puo’ essere disposta anche in via definitiva ex articolo 16), paralizzando l’attivita’ dell’ente puo’, apparentemente, sortire lo stesso effetto di un sequestro impeditivo che colpisca le “cose che pertinenti al reato”.
In realta’, non e’ cosi’.
Infatti, se e’ vero che l’uso delle suddette “cose” puo’ rimanere “paralizzato” a seguito di un provvedimento interdittivo, e’ anche vero, pero’, che si tratta solo di un effetto indiretto e tendenzialmente temporaneo (articolo 13, comma 2, fatta eccezione l’ipotesi di cui all’articolo 16).
Tale effetto, invece, non si verifica con il sequestro impeditivo perche’, a norma dell’articolo 323 c.p.p., comma 3, “se e’ pronunciata sentenza di condanna, gli effetti del sequestro permangono quando e’ stata disposta la confisca della cose sequestrate” ex articolo 240 c.p.p..
Si puo’, quindi, affermare che il campo d’applicazione del sequestro impeditivo non coincide con le misure interdittive per una molteplicita’ di ragioni.
Innanzitutto, per la temporaneita’ della misura interdittiva laddove il sequestro e’ tendenzialmente definitivo ove, all’esito del giudizio di cognizione, sia disposta la confisca.
In secondo luogo, per l’effetto: mentre la misura interdittiva “paralizza” l’uso del bene “criminogeno” solo in modo indiretto (quale effetto di una delle misure interdittive), al contrario, il sequestro (e la successiva confisca) colpisce il bene direttamente eliminando, quindi, per sempre, il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati.
Infatti, il sequestro e’ diretto contro le “cose” (non a caso, e’ denominato “reale”) che abbiano una potenzialita’ lesiva dei diritti costituzionali sicche’ e’ finalizzato a sottrarle a chi ne abbia la disponibilita’ proprio a tutela della collettivita’: sul punto, e’ opportuno rammentare, che – sulla scia dei lavori preparatori – e’ stato ritenuto che “i limiti di disponibilita’ dei beni si correlano alla funzione preventiva della cautela e, quindi, ad esigenze connesse ad una situazione di pericolo per la collettivita’ che ben possono giustificare l’imposizione del vincolo”: Corte Cost. n. 48/1994. Al contrario, le misure interdittive sono dirette contro la societa’, tant’e’ che i criteri per la loro applicabilita’ sono stati parametrati su quelli delle misure cautelari personali (articoli 45 – 46).
Il sequestro impeditivo ha, quindi, una selettivita’ che la misura interdittiva non ha. E, cosi’, proseguendo nell’esempio ipotizzato (che, a fortiori, puo’ essere esteso anche alle altre misure meno invasive), se e’ vero che l’interdizione dell’esercizio dell’attivita’ puo’ paralizzare anche l’utilizzo delle cose “criminogene”, e’ anche vero che nulla vieta all’ente di continuare a disporre di quei beni: una cosa, infatti, e’ la paralisi dell’attivita’ dell’ente (al fine di impedirgli di continuare a trarre profitto dal reato), ben altra cosa e’ il blocco di singoli e ben determinati beni che, ove non sequestrati, ben potrebbero continuare ad esplicare la loro carica criminogena ad es. perche’ utilizzati dall’ente in altri rami dell’attivita’ non colpita dall’interdittiva o perche’, addirittura, ceduti a terzi che continuino ad utilizzarli.
L’unico caso in cui le conseguenze ipotizzate si potrebbero evitare e’ quello del commissariamento dell’ente (articolo 45, comma 3) e sempre che il commissario, motu proprio, blocchi l’utilizzo materiale e giuridico dei beni “criminogeni.
Ma, a parte la temporaneita’ e le stringenti condizioni che devono sussistere per disporre il commissariamento (articolo 15), sembra evidente che il mezzo utilizzato sarebbe sproporzionato per lo scopo che si volesse raggiungere (impedire che singoli beni possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati): il che costituisce un’u(teriore conferma del fatto che la cautela interdittiva – o perche’ inidonea o perche’ troppo invasiva – non ha quella duttilita’ (anche in considerazione dei ferrei criteri cui deve sottostare ex articolo 46) che ha, invece, il sequestro impeditivo.
Il sequestro impeditivo, ha, quindi, una finalita’ che la misura interdittiva non ha: impedire l’utilizzo di singoli beni ed evitare, sottraendoli alla disponibilita’ dell’ente, che possano continuare – nonostante la misura interdittiva quantomeno ad “agevolare la commissione di altri reati” con conseguente pericolo per la collettivita’.
4.1.3. Individuato l’autonomo raggio d’azione del sequestro impeditivo rispetto alle misure interdittive, resta, pero’, da capire in base a quale argomento il suddetto sequestro possa essere veicolato nell’ambito della normativa di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.
A livello sistematico, l’applicazione del sequestro impeditivo si puo’, innanzitutto, giustificare laddove si tenga presente che si tratta di un istituto generale (in quanto previsto nel cod. proc. pen.) che non trova ostacolo di natura logica-giuridica, per quanto si e’ ampiamente illustrato, ad essere applicato anche agli enti, proprio perche’ il pericolo di sovrapposizione paventato nella Relazione Ministeriale non e’ ipotizzabile.
A livello letterale, la norma che consente di applicare il sequestro impeditivo anche agli enti, va rinvenuta nell’amplissimo disposto dell’articolo 34 a norma del quale “per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano (….) in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del Decreto Legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.
D’altra parte, non appare superfluo evidenziare che solo un’interpretazione costituzionalmente orientata – come quella alla quale si ritiene di dover pervenire – puo’ fugare i dubbi di costituzionalita’ che sorgerebbero laddove si volesse teorizzare per l’ente un regime privilegiato rispetto a quello generale previsto dal codice di rito e, quindi, privare la collettivita’ di un formidabile ed agile strumento di tutela finalizzato ad eliminare dalla circolazione beni criminogeni.
Ovviamente, nulla vieta, come pure e’ stato proposto in dottrina, di disporre il sequestro impeditivo nei confronti della persona fisica indagata o imputata che utilizzi il bene “criminogeno” di proprieta’ dell’ente che, quindi, sia pure in modo indiretto, ne verrebbe privato: ma si tratta di una possibilita’ che va ritenuta aggiuntiva o alternativa ma non sostitutiva.
Il che significa, in ultima analisi che, oltre all’espressa e speciale ipotesi prevista dall’articolo 53, del sequestro preventivo del prezzo o del profitto del reato, nei confronti dell’ente deve ritenersi ammissibile (in virtu’ del rinvio alle disposizioni del cod. proc. pen. “in quanto compatibili”) anche la normativa generale del sequestro preventivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1, spettando al Pubblico Ministero individuare, di volta in volta, quello piu’ funzionale all’esigenza cautelare che intenda conseguire.
Deve, pertanto, ritenersi la legittimita’ del disposto sequestro impeditivo non essendovi alcun dubbio sul nesso di pertinenzialita’ fra il reato contestato (di cui e’ stato ampiamente provato il fumus: cfr supra) e le “cose” sottoposte a sequestro (le serre votovoltaiche) che, ove lasciate nella libera disponibilita’ della ricorrente avrebbero continuato “a produrre una lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (articolo 640 bis c.p.) poiche’ risulta acquisita la prova che le serre negli anni di esercizio non sono state destinate ne’ a coltivazione agricola, ne’ ad attivita’ di floricoltura, circostanza che, in assenza di revoca della concessione da parte del G.S.E., aggrava le conseguenze del reato” (pag. 32 ordinanza impugnata).
In conclusione, la censura dev’essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: “in tema di responsabilita’ dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, e’ ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma primo dell’articolo 321 c.p.p., non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilita’ di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive”.
4.2. IL FUMUS ALLARGATO.
Nei confronti della societa’ ricorrente e’ stato, inoltre, disposto il sequestro preventivo della somma di Euro 772.919,06 quale corrispettivo percepito a titolo di ritiro dedicato (cd RID).
La difesa della ricorrente (supra in parte narrativa § 2.7.: pag. 29 ss del ricorso) ha censurato l’ordinanza impugnata in quanto – cosi’ come il decreto del giudice delle indagini preliminari – in essa non era stato specificato se fossero stati o meno violati tutti i requisiti necessari per disporre il sequestro.
La ricorrente, a sostegno della propria tesi, ha invocato la sentenza di questa Corte (n. 34505/2012 riv. 252929) secondo la quale, “non appare corretta una automatica trasposizione del regime dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall’articolo 321 c.p.p., in quanto nel caso del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 53, il sequestro e’ direttamente funzionale ad anticipare in via cautelare, la confisca di cui all’articolo 19, d.lgs. cit., che e’ sanzione principale, obbligatoria e autonoma (cosi’ Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Impregilo ed altri) e che come tale si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca cui si riferisce lo stesso Decreto Legislativo n. 231 del 2001 (ad esempio, nell’articolo 6, comma 5, e articolo 15, comma 4)”. Di conseguenza, il dibattito (e le conclusioni) sui presupposti applicativi richiesti per il sequestro preventivo di cui ai commi 1 e 2, cod. proc. pen., e, in particolare, sul “fumus boni iuris”, “non puo’ essere integralmente replicato con riferimento al sequestro preventivo previsto dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 53”. Pertanto, proprio perche’ il sequestro di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 53, “e’ prodromico ad una sanzione principale, che viene applicata solo a seguito dell’accertamento della responsabilita’ dell’ente, al pari delle altre sanzioni previste dall’articolo 9”, e’ necessaria “una piu’ approfondita valutazione del presupposto del “fumus commissi delitti”. Quindi, in conclusione, “presupposto per il sequestro preventivo di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 53, e’ un fumus delitti “allargato”, che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilita’ dell’ente, al pari di quanto accade per l’emanazione delle misure cautelari interdittive. Sicche’ i gravi indizi coincideranno con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgono di per se’ a dimostrare oltre ogni dubbio l’attribuibilita’ dell’illecito all’ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato, una qualificata probabilita’ di colpevolezza. L’apprezzamento dei gravi indizi deve portare il giudice a ritenere l’esistenza di una ragionevole e consistente probabilita’ di responsabilita’, in un procedimento che avvicina la prognosi sempre piu’ ad un giudizio sulla colpevolezza, sebbene presuntivo in quanto condotto allo stato degli atti, ma riferito alla complessa fattispecie di illecito amministrativo attribuita all’ente indagato (cfr., Sez. 6, 23 giugno 2006, La Fiorita)”.
Questa tesi, pero’, e’ rimasta isolata essendosi, in senso opposto, sostenuto che “in tema di responsabilita’ dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui e’ obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 19, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, ne’ la loro gravita’, ne’ il “periculum” richiesto per il sequestro preventivo di cui all’articolo 321 c.p.p., comma 1, essendo sufficiente accertarne la confiscabilita’ una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato”: Cass. 41435/2014 rv. 260043; Cass. 51806/2014 rv. 261571; Cass. 9829/2006 rv. 233373.
Questo Collegio, ritiene di aderire e dare continuita’ a quest’ultimo indirizzo in quanto il suddetto diverso orientamento interpretativo “si fonda su interpretazione estensiva del dettato normativo ed addebita al legislatore delegato di avere mutuato criteri propri del sistema processuale penale in tema di sequestro preventivo. Vero e’ che la confisca disciplinata dal Decreto Legislativo in esame costituisce una delle sanzioni a carico degli enti, ma il legislatore nel disciplinare le misure cautelari a carico degli stessi ha richiesto la verifica dei gravi indizi di responsabilita’ solo per le misure interdittive cautelari e non per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca” (Cass. 41435/2014), cosi’ come risulta dalla precisa ed inconfutabile ricostruzione normativa effettuata da Cass. 9829/2006 cit.
La censura, va, quindi, respinta.
4.3. IL QUANTUM SEQUESTRABILE.
La difesa della ricorrente ha contestato che potesse essere sottoposta a sequestro la somma percepita a titolo di RID, adducendo la censura illustrata supra in parte narrativa al § 2.5. (ricorso pag. 22 ss).
Il tribunale (pag. 29) ha ritenuto sequestrabile l’intera somma avendo condiviso l’assunto accusatorio secondo il quale “tale produzione di energia, intanto e’ stata possibile ed e’ stata effettuata, in quanto la realizzazione degli impianti e’ avvenuta avvalendosi, in maniera fraudolenta ed indebita, degli incentivi garantiti dal GSE: in altri termini, se, trattandosi di terreni non adibiti a coltivazione ne’ ad attivita’ di floricoltura, le serre fotovoltaiche non si fossero realizzate, alcuna energia sarebbe stata prodotta, onde l’intero corrispettivo risulta illegittimamente percepito dal Conto Energia”.
4.3.1. Il Decreto Legislativo n. 387 del 2003, articolo 13, comma 3, dispone che l’energia elettrica prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili “e’ ritirata, su richiesta del produttore, dal gestore di rete alla quale l’impianto e’ collegato. L’Autorita’ per l’energia elettrica ed il gas determina le modalita’ per il ritiro dell’energia elettrica di cui al presente comma facendo riferimento a condizioni economiche di mercato”.
Il RID consiste nella cessione di tutta l’elettricita’ immessa in rete al Gestore dei Servizi Energetici – GSE S.p.A. che provvede a remunerarla, corrispondendo al produttore un prezzo per ogni Kwh ritirato, per poi rivenderla sul mercato elettrico.
Ora, a parte lo snellimento burocratico derivante dal fatto che il GSE e’ l’unico interlocutore dei produttori di energia, quello che interessa focalizzare, ai fini della problematica dedotta dalla ricorrente, e’ l’aspetto economico sotteso al suddetto meccanismo.
Per effetto della convenzione che i produttori di energia stipulano con il GSE, viene garantito – in alternativa ai prezzi di mercato – un prezzo minimo aggiornato, su base annuale, al tasso di variazione annuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati rilevato dall’Istat.
Quindi, in sostanza, la cessione al GSE dell’energia prodotta, evita al produttore di vendere l’energia sul libero mercato, in quanto gli e’ garantito un prezzo minimo dal GSE.
4.3.2. Chiarita la nozione del RID, non resta ora che valutare se e in che misura la somma percepita dalla societa’ ricorrente potesse essere sottoposta a sequestro.
La somma in questione e’ stata sequestrata perche’ ritenuta profitto del reato di cui all’articolo 640 bis c.p..
Della determinazione del profitto confiscabile si sono specificamente occupate le Sezioni Unite che, trattando specificamente proprio il tema della confisca sanzione Decreto Legislativo n. 231 del 2001, ex articolo 19, affermarono il seguente principio di diritto: “il profitto del reato oggetto della confisca di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001 articolo 19, si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto”; SSUU 26654 del 2008; Cass. 33226/2015 rv. 264941; Cass. 23013/2016 rv. 267065; Cass. 53650/2016 rv. 268854.
Tale nozione, successivamente, e’ stata ampliata dalle stesse SSUU che fermo il principio secondo cui il profitto confiscabile, seppure reimpiegato o trasformato, e’ solo quello che derivi in modo diretto e causale dalla commissione del reato, con esclusione di vantaggi ulteriori ed eventuali (SSUU 31617/2015) hanno ritenuto che “in tema di responsabilita’ da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca diretta di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 19, si identifica non soltanto con i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche con ogni altra utilita’ che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attivita’ criminosa”, come ad es. “il risparmio di spesa che si concreta nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare o nello svolgimento di una attivita’ in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto” SSUU 38343/2014 Rv. 261116-261117; SSUU 10561/2014.
Ritornando alle SSUU del 2008, va osservato che, contestualmente, pero’, le SSUU cit. hanno tracciato un netto discrimen fra profitto derivante da un “reato contratto” e profitto derivante da un “reato in contratto”.
Per reato contratto deve intendersi quel reato che tale possa essere definito per effetto della semplice stipula di un contratto e, quindi, a prescindere dalla sua esecuzione, in quanto si verifica un’immedesimazione del reato col negozio giuridico che ne risulta integralmente contaminato da illiceita’: pertanto, poiche’ il relativo profitto e’ conseguenza immediata e diretta della suddetta illiceita’, esso e’ assoggettabile totalmente a confisca.
Per reato in contratto s’intende, invece, quel reato in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in se’, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volonta’ contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale: in tali casi, poiche’ il contratto e’ lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex articoli 1418 e 1439 c.c.), occorre verificare se il profitto che ne ha tratto l’agente sia o meno ricollegabile alla condotta criminosa in quanto, solo nel primo caso, il profitto e’ confiscabile e non nelle ipotesi in cui sia il frutto di una prestazione lecita eseguita in favore della controparte.
In quest’ultima categoria rientra proprio la truffa, relativamente alla quale le SSUU cit. hanno chiarito “che non integra un “reato contratto”, considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra. Trattasi, quindi, di un “reato in contratto” e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, puo’ mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entita’ del profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento”.
Da questa precisazione, e’ stata, pertanto tratta la seguente conclusione: “Nella peculiarita’ che caratterizza il rapporto sinallagmatico (….) la parte di utilita’ eventualmente conseguita ed accettata dalla vittima va inevitabilmente ad incidere, per l’equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo corrispettivo versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell’ambito di un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatio, con la conseguenza che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale) la controprestazione ricevuta, perche’ non costituente profitto illecito. Diversamente opinando, vi sarebbe un’irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto al soggetto coinvolto nell’illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione legittimamente eseguita e comunque accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la controparte fosse l’Amministrazione statale, un ingiustificato arricchimento di questa”.
Quindi, in sostanza, ove ci si trovi di fronte ad un reato in contratto, il profitto (confiscabile) dev’essere commisurato alla differenza fra l’intero valore del contratto e l’utilita’ effettivamente conseguita dalla controparte, ossia calcolato al netto dell’effettiva utilita’ eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato: ex plurimis Cass. 20506/2009 rv. 243198; Cass. 8339/2014 rv. 258787; Cass. 53430/2014 rv. 261841; Cass. 9988/2015 rv. 262794; Cass. 23013/2016 rv. 267065.
4.3.3. Applicando i suddetti principi al caso di specie ne consegue che:
a) la questione se, nella fattispecie in esame, debbano o meno essere considerate anche le conseguenze indirette del suddetto profitto, allo stato, non si pone perche’, in punto di fatto, non risulta evidenziato, nell’ordinanza impugnata, alcun profitto “indiretto” di cui si debba eventualmente tener conto;
b) non vi e’ dubbio che il RID fu percepito a seguito e per effetto della stipula della Convenzione a monte della quale vi era la truffa di cui si e’ detto;
c) il reato contestato va qualificato, ai fini della quantificazione del profitto confiscabile, come “reato in contratto”;
d) e’ errata la conclusione alla quale e’ pervenuto il Tribunale che, sulla base della motivazione di cui si e’ detto, ha ritenuto confiscabile l’intera somma percepita dalla ricorrente a titolo di RID: in realta’, poiche’ il GSE ha comunque commercializzato l’energia cedutale dalla societa’ ricorrente, ricavandone, quindi, un guadagno. Di conseguenza, per stabilire quale sia il profitto confiscabile occorre calcolare l’effettiva utilita’ conseguita dalla ricorrente e cioe’ occorre procedere a calcolare la differenza fra il corrispettivo erogato a titolo di RID ed il prezzo di mercato al quale la GSE vendette l’energia. L’eventuale differenza negativa restata a carico della GSE, costituisce il profitto confiscabile.
Pertanto, in conclusione, l’ordinanza impugnata dev’essere annullata ed il Tribunale, in sede di rinvio, si atterra’ al principio di diritto illustrato al precedente punto sub d).

P.Q.M.

ANNULLA l’ordinanza impugnata limitatamente alla somma sequestrata di Euro 772.919,06 con rinvio al Tribunale di Trani, sezione per il riesame delle misure cautelari, per nuovo esame nei limiti di cui alla parte motiva;
RIGETTA nel resto il ricorso.

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