E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società

Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 4 luglio 2018, n. 17498.

La massima estrapolata:

E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Ordinanza 4 luglio 2018, n. 17498

Data udienza 10 maggio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 21104/2016 proposto da:
(OMISSIS) s.p.a., gia’ (OMISSIS) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) s.p.a. in Liquidazione e in Concordato Preventivo, in persona dei liquidatori legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 636/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, pubblicata il 19/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/05/2018 dal cons. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
La (OMISSIS) s.p.a. ricorre, sulla base di cinque motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 19 febbraio 2016, la quale ha respinto l’impugnazione della decisione del tribunale della stessa citta’, che ha dichiarato nullo l’accordo concluso in data 1 agosto 2007, come modificato il 23 giugno 2008, tra la medesima e la (OMISSIS) s.p.a., perche’ elusivo del divieto di patto leonino di cui all’articolo 2265 cod. civ..
La corte territoriale ha ravvisato la nullita’ dell’accordo parasociale, il quale, nell’ambito della organizzazione di una “cordata” per l’acquisizione di (OMISSIS) s.p.a. (poi (OMISSIS) s.p.a.), concedeva alla (OMISSIS) s.p.a. l’opzione put con riguardo alla partecipazione sociale rappresentativa del 14,99% del capitale sociale della banca, da esercitare entro il 31 dicembre 2008 dietro corresponsione del prezzo di acquisto delle azioni, oltre interessi e (dopo la modifica con il patto avvenuta nel 2008) gli eventuali ulteriori versamenti eseguiti a patrimonio netto. Essa ha richiamato i principi enunciati dalla corte di legittimita’, i quali esigono, ai fini del giudizio di nullita’, che sia stata pattuita l’esclusione assoluta e costante del socio dalla partecipazione agli utili ed alle perdite: come nella specie, posto che (OMISSIS) s.p.a. avrebbe potuto votare in assemblea ogni aumento del capitale e versare qualsiasi importo senza rischio di perdite, essendo il proprio investimento destinato ad essere rimborsato interamente da (OMISSIS) s.p.a..
Ne’, aggiunge la Corte del merito, sussiste un autonomo interesse meritevole di tutela ex articolo 1322 cod. civ., restando quindi l’accordo idoneo ad eludere il divieto di patto leonino. Premesso che il divieto di cui all’articolo 2265 cod. civ. puo’ essere violato anche da un patto parasociale, la Corte d’appello ha ravvisato la causa dell’accordo nella volonta’ di trasferire interamente il rischio d’impresa sulla (OMISSIS) s.p.a., sottraendo cosi’ l’altro socio da ogni rischio tipico ed ontologico nello status socii, con il venir meno dell’alea tipica dell’investimento finanziario, tanto da elidere ogni interesse alla gestione prudente della societa’ ed al mantenimento del valore della partecipazione sociale, proprio per la certezza di vedersi, in ogni caso, liquidato qualsiasi esborso.
Ha concluso, pertanto, che, sebbene la funzione di scambio fosse presente nell’originario patto del 2007, contenente un’opzione put a prezzo fisso perfettamente lecita, altrettanto non puo’ dirsi dopo la modificazione apportata con il contratto integrativo del 2008; ne’ puo’ essere mantenuta in vita l’opzione nella sua configurazione originaria, perche’ la modificazione sopraggiunta e’ essenziale, posto che, in difetto, la (OMISSIS) s.p.a. non avrebbe consentito all’aumento del capitale sociale.
In tal modo, la Corte territoriale ha reputato assorbita ogni altra domanda.
Resiste la (OMISSIS) s.p.a. in liquidazione con controricorso.
Le parti hanno depositato le memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. I motivi. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2265 cod. civ., per avere la corte territoriale reputato la norma applicabile alla societa’ per azioni.
Posto che l’assunzione del rischio di perdere il conferimento non costituisce, a differenza della partecipazione agli utili, un connotato indefettibile del contratto di societa’, come dimostra anche l’esperienza storica e comparatistica, l’articolo 2265 cod. civ. e’ norma eccezionale, insuscettibile di applicazione oltre i casi previsti, ai sensi dell’articolo 14 preleggi.
Ne’ nella societa’ azionaria sussistono le medesime esigenze che giustificano il divieto, atteso che i soci non possono essere indotti ad operazioni eccessivamente aleatorie, perche’ l’articolo 2380-bis cod. civ. riserva il potere gestorio in capo all’organo amministrativo; ne’ occorre il presidio di quella disciplina contro l’eventuale conflitto di interessi tra soci esonerati ed altri soci, in quanto la s.p.a. gode di un’autonoma tutela prudenziale con le norme sul conflitto d’interessi (articoli 2373 e 2391 cod. civ.) e non sussiste, quindi, lacuna normativa.
Anzi, la riforma del 2003 ha introdotto una norma, l’articolo 2346 c.c., comma 4, che, dopo avere previsto l’assegnazione a ciascun socio di un numero di azioni proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta, ammette che lo statuto “puo’ prevedere una diversa assegnazione delle azioni”: disposizione ampia ed interpretata nel senso della possibile creazione di partecipazioni senza conferimento, con effetti equivalenti o ancor piu’ dirompenti rispetto al patto di esclusione totale dalle perdite.
2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2265 cod. civ., per avere la corte territoriale reputato la norma applicabile ai patti parasociali.
Viceversa, il mancato coinvolgimento della societa’ e la natura meramente esterna ed obbligatoria del patto escludono di poterlo colpire con la nullita’ in forza della norma organizzativa in questione.
Si tratta, infatti, solo di un patto parasociale con il quale uno dei soci si impegna a garantire ad altro socio il riacquisto delle azioni a un dato prezzo, avente causa di garanzia: ben diverso dal patto organizzativo presupposto dall’articolo 2265 cod. civ., il quale infatti parla di “esclusione” dalle perdite opponibile ai terzi, ivi compresi i creditori sociali; tanto che nessuno dubita della liceita’ dei contratti di copertura del rischio assunto dal socio (contratti di assicurazione, operazioni in derivati).
In ogni caso, perche’ possa predicarsene la nullita’, il patto sociale dovrebbe essere concluso tra tutti i soci.
3. – Con il terzo motivo, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli articoli 1353, 1355 e 1362 ss. cod. civ., per avere la corte territoriale ritenuto che l’accordo inter partes escludesse (OMISSIS) s.p.a. da ogni partecipazione alle perdite.
Se il patto leonino si puo’ ravvisare solo in presenza di una esclusione totale e costante dalle perdite e dagli utili, e solo quando questa non integri una funzione autonoma meritevole di tutela, nella specie entrambe le condizioni mancano.
Ed invero, sotto il primo profilo (riservando il secondo al motivo seguente) non e’ vero che il rischio d’impresa fosse assente, posto che (OMISSIS) s.p.a. avrebbe potuto decidere di non vendere, ad esempio per essere inferiore il prezzo pattuito rispetto al valore assunto dalla partecipazione sociale, o per qualsiasi altro motivo; ne’ la scelta era condizione meramente potestativa, dipendendo da seri ed apprezzabili motivi connessi alla razionale valutazione la riguardo.
4. – Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1322 e 2265 cod. civ., oltre all’omesso esame di fatto decisivo, per avere la corte territoriale ravvisato, in forza del patto, una situazione di disinteresse di (OMISSIS) s.p.a. alla valorizzazione della partecipazione sociale e per non aver valutato la meritevolezza dell’interesse perseguito.
Premesso che l’esistenza di interessi rilevanti pur di altra natura al buon esito dell’andamento dell’impresa esclude di incorrere nel divieto di patto leonino, tali interessi certamente esistevano in capo a (OMISSIS) s.p.a.: la convenzione fissava solo un “minimo garantito”, lasciando intatto l’interesse al plusvalore; negli accordi con gli altri partecipanti alla cordata si prevedeva il reciproco impegno ad operare per la valorizzazione del capitale economico di (OMISSIS) s.p.a.; questa era un’impresa bancaria vigilata e monitorata nella correttezza gestionale e nella stabilita’ finanziaria, onde non era indifferente ad un operatore qualificato e noto come (OMISSIS) s.p.a. dismettere ogni impegno per favorire la corretta ed efficiente gestione od abbandonarsi al dissennato esercizio dei propri diritti sociali, che le avrebbe certamente arrecato pregiudizi reputazionali e di rapporti con l’autorita’ di vigilanza.
5. – Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1230, 1234 e 1418 cod. civ., in quanto la corte territoriale, dopo aver ritenuto nulla l’opzione nel testo modificato nel 2008, ha escluso il vigore della precedente opzione.
Trattandosi, invero, di contratto novativo reputato nullo, restava in vita l’obbligazione originaria di pagamento del c.d. prezzo base previsto con la lettera del 1 agosto 2007, secondo la domanda subordinata proposta sin dall’atto introduttivo nel giudizio di primo grado.
2.1. Patto leonino e s.p.a. – Il primo motivo e’ infondato.
L’articolo 2265 cod. civ. e’ dettato in tema di societa’ semplice e si collega alla particolare situazione delle societa’ personali, in cui ogni socio di regola gestisce la societa’ e risponde in via illimitata e personale delle obbligazioni dell’ente (salvo il socio che cio’ abbia pattuito ex articolo 2267 cod. civ. ed il socio accomandante).
La norma colpisce con la sanzione della nullita’ il “patto” avente ad oggetto l’esclusione da “ogni partecipazione agli utili o alle perdite” maturati dalla societa’.
E’ vero che essa menziona il “patto”, locuzione frequente specie nell’ambito della disciplina delle societa’ personali, in cui la mancanza di personalita’ giuridica ed il riconoscimento – al piu’ – di una soggettivita’ dell’ente collettivo pongono al centro il contratto tra i soci, per tutta la vita della societa’: tanto che esso puo’ essere modificato a maggioranza solo ove previsto dal contratto stesso, in caso contrario occorrendo il consenso di tutti i soci (articolo 2252 cod. civ.), e ove si richiede l’unanimita’ per una serie di decisioni (cfr. articolo 2272 c.c., n. 3 e articoli 2275 e 2301 cod. civ., ecc.).
Cosi’, un “patto” ad hoc serve per escludere i soci non gestori dalla responsabilita’ per le obbligazioni sociali (articoli 2267 e 2291 cod. civ.), per derogare alla regola della distribuzione degli utili dopo l’approvazione del rendiconto (articolo 2262 cod. civ.) o alla loro assegnazione non proporzionale (articolo 2263 cod. civ.).
Laddove, nella societa’ azionaria, l’espressione e’ riservata usualmente proprio ai rapporti contrattuali, non sociali (cfr. articolo 2341-bis c.c. e articolo 2372 c.c., comma 3), mentre assai piu’ spesso di parla piuttosto di “statuto” (es. articoli 2346, 2348, 2349, 2365, 2380 e 2443, e numerose altre).
Nondimeno, il Collegio condivide l’orientamento maggioritario, il quale reputa l’articolo 2265 cod. civ. una norma transtipica.
Se la societas e’ l’unione di piu’ patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell’intrapresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la totale esclusione di uno o piu’ soci – quali soggetti titolari di una quota del capitale sociale – da quei risultati.
Il conferimento di capitale non collegato allo scopo di cooperare all’attivita’ economica cui e’ volta l’impresa societaria condividendone gli esiti, pur se avente eventualmente altri fini, e’ dunque stigmatizzato dal legislatore con la comminatoria della nullita’ per il patto che abbia un simile risultato, in via diretta (articolo 1418 cod. civ.) o indiretta (articolo 1344 cod. civ.).
La causa del “contratto di societa’” e’ descritta nell’articolo 2247 cod. civ., il quale, accanto alla pluralita’ dei soci (altrimenti trattandosi di costituzione unilaterale, pur ammessa per la s.p.a. e per la s.r.l., dove permane pero’ la potenziale pluralita’ dei componenti), richiede il conferimento “di beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attivita’ economica allo scopo di dividerne gli utili”. La divisione delle perdite deriva implicitamente dalla situazione implicita e simmetrica in cui la societa’ incorra in quella situazione contabile.
Cio’ equivale a sostenere che il legislatore ha ammesso unicamente il contratto tipico di societa’ – pur nei differenti schemi formali integrati da ciascun tipo sociale predisposto dalla legge – al cui modello causale i soci non possono apportare deroghe idonee a snaturarne la funzione di contratto associativo.
Non giova al riguardo il riferimento all’articolo 2346 c.c., comma 2, che secondo la ricorrente ammetterebbe persino le “azioni senza conferimento”: a tacer d’altro, tale categoria di azioni e’ tutt’altro che scontata nell’ordinamento, dovendo trattarsi inoltre, pur per chi l’ammetta, di un’intera “categoria” azionaria.
3. L’opzione put a prezzo predeterminato. – I motivi secondo, terzo e quarto vanno esaminati congiuntamente per la loro intima connessione e sono fondati.
1. La questione. – Essi pongono l’esigenza di verifica della figura negoziale dell’opzione put secondo un duplice ordine di concetti, affinche’ possa reggere la qualificazione d’illiceita’ del negozio atipico, operata dalla sentenza impugnata: da un lato, la ricostruzione della struttura dell’accordo; dall’altro, la funzione perseguita dal medesimo.
La questione posta e’ se sia valido ed efficace l’accordo interno tra due soci, uno dei quali si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in societa’, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, anche comprensivo di somme versate nelle more alla societa’, il quale potrebbe, percio’, non rispecchiarne piu’ il valore effettivo, nonche’ con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto, idonei a neutralizzare la perdita di valore del denaro medio tempore avvenuta od anche rappresentare un guadagno.
2. La ratio del divieto di patto leonino. – Come sopra ricordato, la ratio del divieto di patto “leonino” risiede nel preservare la purezza della causa societatis, cui vanno ricondotte tutte quelle diffuse opinioni secondo cui una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle societa’, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non “prodigarsi” per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attivita’ “avventate” o “non corrette” (cfr. Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927; v. pure Cass. 22 giugno 1963, n. 1686).
Tutto cio’, tuttavia, presuppone che il patto diverso alteri questa causa e sia con esso incompatibile, e non invece che si ponga, in quanto esterno al contratto sociale, quale fondamento autonomo e distinto della decisione di conferimento di un socio in societa’, che tuttavia non incida sulla causa predetta.
L’esclusione dalle perdite o dagli utili, quale “situazione assoluta e costante”, deve cioe’ riverberarsi sullo status del socio.
Infatti, “perche’ il limite all’autonomia statutaria dell’articolo 2265 cod. civ. sussista e’ necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perche’ il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante perche’ riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di societa’”.
Dunque, “l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la societa’ e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’articolo 2265 cod. civ., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe” (cosi’ Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.).
Tale principio, relativo alla necessita’ che l’esclusione dalle perdite o dagli utili sia “assoluta e costante”, va ora precisato, nel senso che essa deve finire per alterare la causa societaria nei rapporti con l’ente-societa’, che trasla, quanto al socio interessato da quell’esonero dalla condivisione dell’esito dell’impresa collettiva, da rapporto associativo a rapporto di scambio con l’ente stesso.
La duplice aggettivazione – usata dal precedente di legittimita’ menzionato ed intesa ad interpretare la condizione che i soci siano esclusi da “ogni partecipazione”, ossia integralmente, dagli utili o dalle perdite ex articolo 2265 cod. civ. – col suo riferirsi alla quantita’ e alla durata nel tempo dell’esonero serve, dunque, solo ad indicare la necessaria mutazione causale, offrendo al giudice una linea-guida per l’accertamento.
L’indagine non e’, allora, diretta semplicemente a verificare se siano integrati, nella specie, i due lemmi, dal contenuto alquanto generico, ma in definitiva a valutare se – proprio cio’ quelle espressioni essendo intese a significare – la causa societatis del rapporto partecipativo del socio in questione permanga invariata nei confronti dell’ente collettivo, o se, invece, venga irrimediabilmente deviata dalla clausola che lo esonera, atteso il suo contenuto, dalla sopportazione di qualsiasi perdita risultante dal bilancio sociale (nel corso della vita della societa’ e sino alla liquidazione del patrimonio) o lo esclude dalla divisione degli utili maturati e deliberati in distribuzione ex articolo 2433 cod. civ., o da entrambi, perche’ solo in tal caso potra’ dirsi che l’articolo 2265 cod. civ. sia stato violato.
La ratio del divieto va, pertanto, ricondotta ad una necessaria suddivisione dei risultati dell’impresa economica, tuttavia quale tipicamente propria dell’intera compagine sociale e con rilievo reale verso l’ente collettivo; mentre nessun significato in tal senso potra’ assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorche’ non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, ne’ modifichi la posizione del socio in societa’, e dunque non abbia nessun effetto verso la societa’ stessa: la quale continuera’ ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali, nel rispetto del divieto ex articolo 2265 cod. civ. e senza che neppure sia ravvisabile una frode alla legge ex articolo 1344 cod. civ., la quale richiede il perseguimento del fine vietato da parte di un negozio che persegua proprio la funzione di eludere il precetto imperativo.
3. Valutazione di liceita’ e di meritevolezza e giudizio di diritto. Se l’identificazione degli elementi di fatto dell’accordo e’ compito del giudice del merito, la valutazione di liceita’ e di meritevolezza del patto e’ giudizio di diritto.
Sulla portata della norma di cui all’articolo 2265 cod. civ. si e’ gia’ detto.
Giova ora ricordare che, superato il riferimento all'”utilita’ sociale” e volendo far salva l’autonoma valutazione rispetto alla generale nozione di illiceita’ del contratto (l’assimilazione alla quale significherebbe sostanziale abrogazione della norma), si e’ individuata una specifica connotazione degli interessi “meritevoli” quale fondamento di un atto di autonomia.
Si e’ cosi’ distinta l’area del proibito da quella dell'”agiuridico”, che si riferisce specificamente alle ipotesi di difetto di una ragione giustificativa plausibile del vincolo, il quale non merita allora tutela e non e’ coercibile, restando indifferente per l’ordinamento: onde il contratto non e’ produttivo di effetti (si parli poi di invalidita’, o, piu’ frequentemente, di inefficacia o irrilevanza giuridica) per la mancanza della ragione giustificatrice presupposta meritevole.
Come questa Corte ha osservato, la “clausola generale prevista dall’articolo 1322 cod. civ.subordina i contratti non appartenenti ad una disciplina particolare alla verifica che essi siano “diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”: il contratto discende dall’esercizio dell’autonomia privata; tale esercizio e’ libero; il confine di questa liberta’ e’ nella meritevolezza degli interessi perseguiti” (Cass. 10 novembre 2015, n. 22950).
A tal fine, occorre dunque procedere all'”analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioe’ della ragione pratica dell’affare”, dovendosi valutare l'”utilita’ del contratto”, la sua “idoneita’ ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale” (Cass., sez. un., 6 marzo 2015, n. 4628, sul contratto preliminare di preliminare).
Che la sussunzione della fattispecie concreta sotto l’astratto ed ancorche’ indeterminato paradigma legislativo, operata dal giudice di merito, possa essere sottoposta al sindacato di questa Corte e’ affermato da lungo tempo in dottrina ed ormai recepito nella giurisprudenza di legittimita’: trattasi, invero, di un giudizio di diritto, controllabile ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Per quanto riguarda il giudizio di liceita’ o meritevolezza dell’interesse, cio’ che rileva e’ l’interesse “tipico” di chi quel patto concluda: ferma la ricostruzione del contenuto del medesimo ad opera insindacabile del giudice del merito, la sussunzione del negozio nell’ambito dei contratti leciti e meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e’ giudizio di diritto.
Cio’ posto, tanto piu’ quando si tratti di soggetti entrambi imprenditori, che abbiano concordato un regolamento pattizio nel pieno esercizio dell’autonomia negoziale privata, ogni intervento giudiziale ex articolo 1322 cod. civ. – col suo effetto d’autorita’ rispetto ad equilibri negoziali liberamente contrattati – non puo’ che essere del tutto residuale.
Il controllo del giudice sul regolamento degli interessi voluto dai soggetti, se mira a limitare l’esercizio di autonomia privata, non deve pero’ perdere di vista che il principio generale e’ quello della garanzia costituzionale ex articolo 41 Cost..
4. Necessita’ di ricercare la causa concreta. – Com’e’ noto, la teoria causale tradizionale, che ricostruisce la causa negoziale come funzione economico-sociale, e’ stata ormai superata in favore di una concezione maggiormente legata alle esigenze concrete dello specifico atto.
La nozione di “causa concreta” e’ stata diffusamente esposta e condivisa da questa Corte (sin da Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, e poi da molte altre successive: es. Cass. 7 maggio 2014, n. 9846, in tema di patto parasociale finalizzato al risanamento aziendale).
Grazie alla “causa concreta”, che attiene agli interessi perseguiti considerati nella loro oggettivita’, e’ possibile, pertanto, operare la qualificazione del contratto, utilizzare il criterio d’interpretazione e quello di adeguamento per il regime delle nullita’ totali o parziali, nonche’ valutare la meritevolezza dell’operazione alla stregua dell’articolo 1322 c.c., comma 2.
Questa impostazione, inoltre, appare la piu’ adatta ad individuare la giustificazione causale proprio nei contratti complessi, nei negozi indiretti e nei collegamenti negoziali – di cui pure si e’ parlato con riguardo alla figura dell’opzione in esame – oltre che nei negozi astratti: ove, in definitiva, occorre valutare il risultato pratico dell’operazione posta in essere, ossia l’esistenza di un interesse, pur sempre obiettivato, che l’atto e’ destinato a raggiungere e per il quale le parti, ed in particolare il disponente, si siano determinate a compierlo.
La prospettiva della causa concreta permette, cosi’, di superare l’esigenza di ricorrere a tali ulteriori figure, posto che a cogliere l’interezza del regolamento negoziale e’ sufficiente ammettere che la causa, a diversi fini, debba essere rilevata e valutata in concreto: cio’ inevitabilmente appannando la contrapposizione tra lo schema, pur tipico, utilizzato e la concreta realizzazione di esso.
In ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se esista, sia lecita e meritevole di tutela: onde il patto non potra’ ricadere nel divieto ex articolo 2265 cod. civ. e superera’ positivamente il vaglio ex articolo 1322 cod. civ., laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, nel senso sopra precisato, ne’ ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
5. La causa dell’operazione di acquisto delle azioni con opzione put. – Ragione pratica del meccanismo in discorso, palesatasi nel mondo degli affari, e’ proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci.
Nel momento della costituzione della societa’, o quando si intenda operarne il rilancio mediante una particolare operazione economica, il contributo di ulteriori capitali, rispetto a quelli disponibili per i soci che il progetto abbiano concepito, puo’ divenire essenziale, anche quale condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato.
In questi casi, accanto alle molteplici forme di finanziamento dell’impresa che il legislatore e la pratica prospettano – a titolo di partecipazione al capitale di rischio (azioni privilegiate, postergate, a voto plurimo, riscattande, ecc.), di debito (mediante obbligazioni strutturate, subordinate, irredimibili ex articolo 2411) o con i numerosi strumenti finanziari che possono essere emessi dalla societa’ (cfr. articolo 2346, comma 6; articolo 2447-ter, comma 1, lettera e) – non e’ precluso alle parti di addivenire pure a simili accordi, in cui la causa concreta e’ mista, in quanto associativa e di finanziamento, con la connessa funzione di garanzia assolta dalla titolarita’ azionaria e dalla facolta’ di uscita dalla societa’ senza la necessita’ di pervenire, a tal fine, alla liquidazione dell’ente.
6. Il favor del diritto positivo per le tecniche anche atipiche di apporto all’impresa. – E’ da molti sottolineata la chiara scelta legislativa, specialmente dopo la riforma del 2003, di favorire la pluralita’ delle tecniche di reperimento presso terzi delle risorse finalizzate a rafforzare o permettere la realizzazione di un’impresa economica collettiva, diverse dai tradizionali canali di ricorso al credito bancario.
Vengono, a tal fine, evidenziate le fattispecie dei titoli obbligazionari, para-obbligazionari e dei nuovi strumenti finanziari partecipativi (per questi ultimi, a fronte di un apporto da taluno assimilato al modello dell’associazione in partecipazione); e si noti che persino nella s.r.l. start up innovativa, in deroga all’articolo 2468, commi 2 e 3, e’ ora possibile (in base al Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 e al Decreto Legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito nella L. 24 marzo 2015, n. 33) creare categorie di quote fornite di diritti diversi sotto il profilo patrimoniale o amministrativo, come le quote postergate nelle perdite, senza voto, con diritto di voto non proporzionale o limitato a dati argomenti, oppure strumenti finanziari partecipativi forniti anche di diritti amministrativi; mentre ancora nuove forme di finanziamento sono favorite nell’ambito della soluzione delle crisi d’impresa.
Ne deriva che per gli strumenti finanziari partecipativi – come gia’ per i diritti di pegno, usufrutto e sequestro delle azioni – si assiste ad una scissione tra rischio d’impresa e potere sull’impresa, appartenendo il secondo anche a chi il primo non sopporta.
7. Il nesso “potere-rischio”. – Occorre rilevare come, sebbene il divieto di patto leonino venga sovente ricondotto al rapporto “potere-rischio”, che si vuole indissolubile, questo sia stato ormai messo in crisi da una pluralita’ di istituti, tra i quali i detti strumenti finanziari partecipativi, i c.d. prestiti “a tutto rischio” o, piu’ in generale, da tutte quelle fattispecie, in cui esistono soggetti non soci dotati di diritti amministrativi e capaci di interloquire sul governo societario, e soci che invece non partecipano al voto (sebbene gli articoli 2346 e 2351 cod. civ. esigano che i soci conservino la priorita’ nel potere di gestione della societa’).
E’ vero che, nelle variegate fattispecie ricordate, potrebbe dirsi non sempre o non interamente escluso il rapporto potere-rischio: ma tali figure vengono qui richiamate perche’ indicative di uno sviluppo e di una linea di tendenza dell’ordinamento che non pare corretto ignorare quale canone generale ricostruttivo del sistema delle societa’ di capitali nell’attuale momento storico e dei principi che le riguardano.
Sull’altro fronte della partecipazione sociale, piu’ che nella tradizionale correlazione potere-rischio, l’accento viene oggi posto dagli interpreti sull’interdipendenza tra i soggetti che partecipano alle sorti dell’organizzazione, dove cio’ che e’ imprescindibile non sarebbe tanto la definitivita’ dell’attribuzione patrimoniale compiuta con il conferimento o il grado di rischio sopportato, quanto l’accettazione del “principio di gerarchia” e di “conformazione” dei diritti dei partecipanti, insito nella teoria dell’impresa e della societa’ azionaria: il socio e’ vincolato alle regole organizzative (in primis, il principio maggioritario e la competenza gestoria esclusiva degli amministratori) e non e’ mai estraneo ad un interesse superindividuale, non essendo legittimato a tener conto esclusivo del proprio interesse individuale in modo indipendente dagli altri soci; mentre cio’ non vale per coloro che soci non sono, come i titolari di strumenti finanziari partecipativi, il cui rapporto resta nell’ambito del modello contrattuale di scambio.
E’ vero altresi’ che, pur nell’aumentata autonomia privata in tema di finanziamento dell’impresa, permane la summa divisio tra capitale di rischio e capitale di debito (cfr. Cass. 7 luglio 2016, n. 13854), posto che resta distinta la causa del rapporto sottostante all’emissione del titolo; e che le azioni continuano ad essere la forma necessaria di partecipazione al contratto sociale.
Per quanto ora interessa, allo stato della legislazione appare difficile altresi’ sostenere l’assoluta uguaglianza fra gli azionisti, ormai tralasciata dal diritto positivo a favore del favor per la ricerca di fonti alternative di finanziamento.
8. La funzione di garanzia in senso lato e il perdurante interesse alle buone sorti della societa’. – Come questa Corte aveva gia’ da tempo prospettato (Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.), gli interessi sottostanti sono analoghi a quelli rinvenibili nel pegno della partecipazione sociale: ove al creditore, pur non socio, e’ concesso il diritto di voto, al fine del migliore controllo e “garanzia” (in senso atecnico, non trattandosi di un patrimonio che ex articolo 2740 cod. civ. si aggiunge a quello del debitore principale, ma di una causa definibile come assicurativa lato sensu) del suo credito.
Possono, infatti, esistere interessi rilevanti di varia natura, pur sempre connessi al buon esito dell’andamento dell’impresa sociale; e l’attribuzione del diritto di voto al creditore pignoratizio palesa l’idoneita’ della causa di garanzia a sostenere, sotto il profilo funzionale, la partecipazione alla vita amministrativa della societa’ e dunque l’attribuzione al medesimo dei poteri gestionali. Cio’, proprio a protezione del creditore/finanziatore contro i comportamenti opportunistici dei soci.
Si e’ parlato, al riguardo, di garanzie atipiche, diffuse per superare le limitazioni proprie delle garanzie reali previste dalla legge.
Come il pegno, dalla struttura legata all’immobilizzazione della res e coerente con le fasi statiche dell’economia, ove prevale lo sfruttamento dominicale dei beni, ha visto elaborare nuove forme dotate di profili di atipicita’ (pegno di crediti, pegno rotativo, pegno omnibus, sino alla disciplina legale del pegno non possessorio), cosi’ l’operazione in esame si presta al raggiungimento di quella funzione, pur nell’ambito di un negozio traslativo della partecipazione sociale.
E come il creditore pignoratizio, sebbene non socio, ha comunque interesse a votare per la valorizzazione della partecipazione sociale, la quale costituisce garanzia reale (stavolta in senso tecnico) del suo diritto di credito, cosi’ il finanziatore divenuto socio con clausola put ha un sicuro interesse a favorire le buone sorti della societa’ e, con esse, del suo investimento: sia perche’ ha eseguito il conferimento, avendo investito pur sempre nell’intento di moltiplicare il valore del proprio denaro e non soltanto di recuperarlo dopo un dato periodo di tempo, sia soprattutto perche’ il suo debitore proprio grazie al successo dell’impresa economica potra’, con assai maggiore probabilita’, restituire l’importo pattuito: onde quel successo il socio finanziatore sara’ portato, per definizione, a propiziare.
Il diritto di avere in restituzione il credito non azzera l’interesse alla conservazione ed all’incremento del valore della partecipazione sociale, che, tornata nel patrimonio del dante causa (o del debitore), a sua volta costituisce garanzia patrimoniale generica dell’adempimento dell’obbligazione: ne’ il creditore e’ indifferente alla composizione e all’entita’ del patrimonio del suo debitore, nell’osservazione della realta’ pratica e nel sistema delle tutele concesse dall’ordinamento, con il riconoscimento e la conservazione di quella garanzia (articoli 2900 ss. cod. civ.).
Sotto il profilo del perdurante interesse in capo al soggetto oblato nell’opzione put, la ricorrente ricorda, altresi’, come la cordata fu costituita su iniziativa della (OMISSIS) s.p.a. stessa, allo scopo di completare necessari partners per l’acquisizione di (OMISSIS) s.p.a., in ordine alla quale la (OMISSIS) aveva ottenuto il diritto esclusivo di trattativa, in vista del progetto di quotazione delle azioni della banca; e che, in occasione dell’acquisizione, furono conclusi fra le parti, compresa la compratrice del pacchetto azionario, alcuni accordi, miranti all’enunciazione del comune intendimento di realizzare il piano industriale, predisposto dai consulenti, a favore del quale tutte le parti si impegnavano ad attivarsi, anche votando in assemblea al fine della sua implementazione, reputata la quotazione il metodo preferibile per rendere liquido il complessivo investimento effettuato nella societa’.
Questo pacifico antefatto rivela ulteriormente l’intima ratio della complessa operazione, potendo le prospettive di tutti i soci – ivi compreso quello c.d. finanziatore e di minoranza – mutare radicalmente in caso di esito positivo del programma di quotazione della societa’ su di un mercato regolamentato, ipotesi in cui le azioni avrebbero potuto essere vendute con offerta pubblica ed evidenti profitti per l’investitore che aveva creduto nell’iniziativa.
9. L’obiezione del diritto di recesso occulto. – Neppure giova affermare che, in tal modo, il socio godrebbe di un diritto di recesso non contemplato dalla legge: invero, le cautele di cui il legislatore ha da sempre circondato questo diritto, tanto da ammetterlo solo in casi determinati e sempre previo calcolo vigilato delle somme liquidate al recedente, mirano a proteggere il patrimonio sociale, non quello di un altro socio; onde il richiamo si palesa inappropriato.
A cio’ si aggiunga che il diritto di recesso e’ stato ampliato anche nelle s.p.a. e che si e’ di fatto legittimata, mediante l’articolo 2437-sexies, la fattispecie delle azioni riscattabili, aventi parimenti l’effetto dell’uscita del socio dalla societa’.
Si vuol dire che, sebbene in tale ultima ipotesi e’ il riscattato a trovarsi in posizione di soggezione, resta il fatto che con la categoria delle azioni riscattabili – contemplata espressamente dalla riforma del 2003 – e’ ben possibile operare al fine del reperimento di finanza per la societa’, in modo che al “socio temporaneo” sia attribuita la possibilita’ di dismettere la partecipazione ad un tempo prestabilito: in sostanza, si e’ creato uno strumento integrabile dalla causa concreta volta a volta voluta dalle parti, a secondo di quella cui il potere sia concesso dall’autonomia negoziale.
E, se lo strumento delle azioni riscattabili puo’ assolvere alla funzione di finanziare la societa’, l’opzione put puo’ perseguire quella di finanziamento al socio, ma sempre ai fini di incentivazione dell’impresa economica collettiva.
La gamma delle variabili ammesse per atteggiare la posizione dell’azionista (recesso convenzionale, azioni riscattabili dal socio) comporta che egli non sia piu’ indefettibilmente astretto dal conferimento, non ripetibile se non dopo la liquidazione della societa’: tanto meno, dunque, appare immeritevole un patto tra soci che quell’exit assicuri.
10. Conclusioni. – Rispetto all’alterazione della causa societaria, sopra paventata, altro e’, in definitiva, il caso del descritto accordo concluso fra le parti.
Nell’opzione put a prezzo preconcordato si assiste all’assoluta indifferenza della societa’ alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell’esercizio di essa, le quali restano neutrali ai fini della realizzazione della causa societaria, gia’ per la presenza di elementi negoziali idonei a condizionare il potere di ritrasferimento a circostanze varie, capaci di orientare la scelta dell’oblato nel senso della vendita, ma anche della permanenza in societa’; onde non ne viene integrata l’esclusione da ogni partecipazione assoluta e costante dalle perdite.
Lo schema causale dell’operazione complessiva, secondo i fatti accertati dal giudice di merito, non reca dunque neppure insiti in se’ i rischi che sono tradizionalmente ricondotti al divieto di patto leonino.
Nel negozio dai caratteri che si stanno esaminando, il socio finanziatore assume tutti i diritti e gli obblighi del suo status, ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite.
Si rivela, altresi’, un interesse, meritevole di tutela ai sensi dell’articolo 1322 cod. civ., al finanziamento dell’intrapresa societaria, ove la meritevolezza e’ dimostrata dall’essere il finanziamento partecipativo correlato ad un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario. Interesse che, si noti, potrebbe addirittura reputarsi latamente generale, in quanto operazione coerente con i fini d’incentivazione economica perseguiti dal legislatore, quale strumento efficiente della finanza d’impresa.
L’atipicita’, a ben vedere, attiene non alla causa del contratto di societa’, che resta intatta, ma al c.d. finanziamento in forma partecipativa, il quale si pone a rafforzamento di un’impresa societaria con modalita’ atipiche, escogitate dalla pratica degli affari ed, anzi, sovente perorate proprio dal soggetto finanziato – nel raggiungimento di un reciproco vantaggio sinallagmatico: da una parte, la partecipazione all’impresa con la remunerazione del conferimento e la fruizione di una garanzia dell’esborso, mediante il controllo sulla vita sociale e la possibilita’ di dismissione, attribuite al socio di minoranza; dall’altra, il reperimento di un finanziamento a condizioni piu’ favorevoli, grazie alla contrazione del rischio per il creditore, dunque a tassi di regola inferiori e pure quando il sistema bancario non lo concederebbe, senza necessita’ di sottoporre i beni del patrimonio del finanziato a vincoli reali o di ricercare onerose garanzie personali.
Altro e’ se, nel singolo caso, ricorra uno dei vizi della volonta’ ex articoli 1427 ss. cod. civ., oppure un altro vizio genetico o funzionale del contratto, o comunque un’altrui condotta illecita idonea a comportare obblighi risarcitori: perche’ allora saranno quei rimedi, con i rispettivi elementi costitutivi oggetto di onere di allegazione e prova, ad essere invocabili, e non la sanzione di espunzione dalla sfera di giuridicita’ del patto, comminata dall’articolo 1322 cod. civ..
Va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto:
“E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di societa’ azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo cosi’ operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in societa’, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della societa’”.
4. – Il quinto motivo e’ assorbito.
5. – In conclusione, la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio innanzi alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, perche’ decida sulle domande proposte, alla luce del principio di diritto enunciato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso, respinto il primo ed assorbito il quinto; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimita’, innanzi alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.

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