Associazioni di promozione sociale

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 15 giugno 2020, n. 3803.

La massima estrapolata:

In considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, le sedi e i locali adibiti all’attività sociale possono essere localizzati in tutte le parti del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio ad esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo

Sentenza 15 giugno 2020, n. 3803

Data udienza 4 giugno 2020

Tag – parola chiave: Edilizia – Mutamento destinazione d’uso non autorizzato senza opere – Art. 32 comma 1, lett. a) DPR n. 380 del 2001 – Variazione essenziale – Sanzioni – Condizioni – Modifica degli standard ex art. D. 2 aprile 1968

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3512 del 2019, proposto da
-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Co., Ma. Bi. e Ca. Ca., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio Re. Ar. in Roma, via (…);
contro
Comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ia., Ni. On. e Ni. Pa., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’ultimo, in Roma, via (…);
nei confronti
Regione del Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, Si. To., non costituite in giudizio;
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti, concernente un’ordinanza comunale di ripristino dell’uso cui un locale era precedentemente adibito.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Venezia;
Visti tutti gli atti della causa;
Udita la relazione esposta dal Cons. Alessandro Maggio nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2018, svoltasi, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del D.L.n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare 13 marzo 2020, n. 6305 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Il -OMISSIS- è un’associazione che in base all’art. 2 dello statuto “ha carattere religioso, socioculturale, indipendente e non ha scopo di lucro…”.
Nel 2004 ha preso in locazione un locale a uso commerciale ubicato nel Comune di Venezia e lo ha adibito, senza l’esecuzione di opere, all’esercizio di attività coerenti con i propri scopi statutari (così definiti dall’art. 3 dello statuto:
“1 Essere al servizio della cittadinanza per favorire la conoscenza del mondo islamico (cultura, tradizioni, religione, società).
2 Rafforzare i legami di fratellanza tra la comunità ed i cittadini locali attraverso scambio culturale e la collaborazione sociale (…).
3 Essere elemento costitutivo di un’area di dialogo, convivenza e pace promovendo una condotta morale che porti alla pratica del bene.
4 Essere punto di riferimento e di collegamento, attento e costruttivo, tra la comunità islamica e le amministrazioni, enti, associazioni che operano sul territorio.
5 (curare) altresì tutte le manifestazioni del culto islamico compresi convegni, dibattiti, ecc.”.
All’interno del locale, pertanto, venivano svolte attività non solo di carattere religioso, ma concernenti anche l’interscambio culturale fra la cittadinanza veneziana e la comunità islamica di origine bengalese.
Sennonché, a seguito di verifiche compiute, l’amministrazione comunale ha appurato che “i locali… hanno destinazione commerciale mentre al loro interno viene svolta da almeno 5/6 anni, da -OMISSIS-, attività di natura religiosa per cui si configura un cambio di destinazione d’uso senza opere da attività commerciale a attività culturale – religiosa (come da statuto) regolamentata dalla L.R. 12/2006 (art. 31 bis comma 2 lettera c), in assenza del prescritto titolo edilizio P.d.C. o S.C.I.A.”.
Per cui, con provvedimento 6/11/2018 prot. n. 537011 ha emesso formale diffida a conformare, ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. 6/6/2001, n. 380 (T.U. Edilizia), l’edificio alle norme urbanistiche, regolamentari e edilizie ovvero al ripristino della destinazione d’uso dei locali ad attività commerciale.
Ritenendo l’atto illegittimo l’associazione lo ha impugnato con ricorso al T.A.R. Veneto, il quale, con sentenza 5/3/2019, n. 286, lo ha respinto.
Avverso la sentenza ha proposto appello l’associazione.
Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il Comune di Venezia.
Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive.
All’udienza telematica del 4/6/2020 la causa è passata in decisione.
Con un primo motivo dedotto in via principale si denuncia l’assoluto difetto di motivazione dell’impugnata sentenza.
Con gli ulteriori mezzi di gravame, prospettati in via subordinata, l’appellante lamenta che il Tribunale non avrebbe pronunciato sulle seguenti censure qui riproposte.
a) L’avversato provvedimento ripristinatorio si fonda sull’asserita violazione dell’art. 31-bis, comma 2, lett. c), della L.R. 23/4/2004, n. 11, introdotto dall’art. 2, comma 1, della L.R. 12/4/2016, n. 12, ma tale norma non avrebbe potuto trovare applicazione nella fattispecie, in quanto, come ammesso dalla stessa amministrazione comunale, il contestato cambio d’uso risalirebbe a epoca precedente all’entrata in vigore della citata legge (primo motivo).
b) Diversamente da quanto ritenuto dall’appellato comune la contestata modificazione della destinazione d’uso non avrebbe richiesto apposito titolo edilizio, occorrendo quest’ultimo soltanto nell’ipotesi, che qui non ricorre, di modifica urbanisticamente rilevante ex art. 23 ter del D.P.R. n. 380/2001 (secondo motivo).
c) L’impugnata determinazione amministrativa contrasterebbe col citato art. 31-bis della L.R. n. 11/2004, in quanto tale norma, richiamata dall’amministrazione, si riferirebbe alla realizzazione di edifici di culto da parte degli enti ivi contemplati, tra i quali non rientra l’appellante associazione. In ogni caso l’uso a cui è stato adibito il locale di che trattasi sarebbe perfettamente compatibile con la disciplina dettata dagli artt. 31-bis e 31-ter della suddetta L.R. n. 11/2004 (quarto motivo).
Con altro mezzo di gravame, infine, si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel respingere il motivo con cui era stata dedotta la violazione dell’art. 32, comma 4, della L. 7/12/2000, n. 383 in base al quale, “la sede delle associazioni di promozione sociale ed i locali nei quali si svolgono le relative attività sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
E invero, la tesi, affermata nell’appellata sentenza, secondo cui l’operato cambio di destinazione avrebbe, comunque, richiesto il titolo edilizio sarebbe del tutto priva di fondamento normativo (terzo motivo).
Le doglianze così sinteticamente riassunte si prestano a una trattazione congiunta.
Occorre preliminarmente rilevare che, per pacifica giurisprudenza, i difetti di motivazione della sentenza, così come il mancato esame di uno o più motivi di ricorso, non sono idonei a viziare la decisione, atteso che, in virtù dell’effetto devolutivo dell’appello, in secondo grado il giudice valuta tutte le domande proposte, integrando – ove necessario – le argomentazioni della sentenza appellata senza che, quindi, rilevino le accidentali carenze motivazionali di quest’ultima o le eventuali omissioni di pronuncia (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 18/4/2019, n. 2973; 6/2/2019, n. 897; 14/4/2015, n. 1915; Sez. V, 23/3/2018, n. 1853; 19/2/2018, n. 1032 e 13/2/2009, n. 824; Sez. IV, 5/2/2015, n. 562).
Ciò premesso, può procedersi alla delibazione delle questioni poste.
Occorre in primo luogo rilevare come l’art. 31-bis della L.R. n. 11/2004, richiamato nell’impugnato provvedimento ripristinatorio, non sia applicabile alla fattispecie.
La norma dispone:
“1. La Regione e i comuni del Veneto, ciascuno nell’esercizio delle rispettive competenze, individuano i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi da effettuarsi da parte degli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione, e delle altre confessioni religiose.
2. Le attrezzature di interesse comune per servizi religiosi riguardano:
a) gli immobili destinati al culto anche se articolati in più edifici, compresa l’area destinata a sagrato;
b) gli immobili destinati all’abitazione dei ministri del culto, del personale di servizio, nonché quelli destinati ad attività di formazione religiosa;
c) gli immobili adibiti, nell’esercizio del ministero pastorale, ad attività educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro, compresi gli immobili e le attrezzature fisse destinate alle attività di oratorio e similari che non abbiano fini di lucro;
d) gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone, in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali.”.
Come emerge chiaramente dal tenore della trascritta disposizione, la medesima disciplina la realizzazione delle “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi” da parte degli enti ivi contemplati, tra i quali non rientra l’associazione appellante.
Il nodo centrale della controversia consiste, dunque, nell’appurare se la realizzata modifica di destinazione d’uso fosse subordinata al rilascio di apposito titolo edilizio.
La risposta non può che esser negativa.
L’art. 71, comma 1, del D. Lgs. 3/7/2017, n. 117 (analogamente a quanto stabiliva il precedente art. 32, comma 4, della L. n. 383/2000) prevede che: “Le sedi degli enti del Terzo settore (fra i quali ai sensi dell’art. 4 del medesimo D. Lgs. rientra l’associazione appellante) e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
La trascritta norma, in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, consente, dunque, che le relative sedi e i locali adibiti all’attività sociale siano localizzabili in tutte le parti del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio ad esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo (Cons. Stato, Sez. V, 15/1/2013, n. 181).
Inoltre, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001, il mutamento di destinazione d’uso non autorizzato e attuato (come nella specie) senza opere, dà luogo a una c.d. variazione essenziale sanzionabile, se e in quanto implichi una modifica degli standards previsti dal D.M. 2/4/1968, ossia dei carichi urbanistici relativi a ciascuna delle categorie urbanistiche individuate nella fonte normativa statale in cui si ripartisce la c.d. zonizzazione del territorio. In caso contrario, non essendo stata realizzata alcuna opera edilizia né alcuna trasformazione rilevante, il mutamento d’uso costituisce espressione della facoltà di godimento, quale concreta proiezione dello ius utendi, spettante al proprietario o a colui che a titolo a godere del bene (Cons. Stato, Sez. V, 3/5/2016, n. 1684).
Nel caso in esame da nessun elemento oggettivo, versato in causa, e prima ancora perspicuamente indicato nell’atto impugnato, si evince che la destinazione impressa al locale di che trattasi dall’associazione appellante abbia comportato un aumento del carico urbanistico della zona.
Ne consegue che il mutamento d’uso realizzato, che peraltro non ha comportato il passaggio da una ad altra delle categorie funzionali indicate nell’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001, deve ritenersi urbanisticamente irrilevante, e quindi non subordinato al preventivo rilascio di un titolo edilizio.
L’appello va, in definitiva, accolto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza annulla il provvedimento sanzionatorio gravato col ricorso di primo grado.
Condanna il comune appellato al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellante, liquidandole forfettariamente in complessivi € 2.000/00 (duemila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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