Art. 114 comma 3 lett. e) del codice del processo amministrativo

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 24 settembre 2019, n. 6386.

La massima estrapolata:

L’art. 114 comma 3 lett. e) del codice del processo amministrativo non prevede l’obbligo del giudice dell’ottemperanza di accogliere senz’altro la richiesta di parte e di disporre automaticamente la misura in esso prevista, nel caso di constatato mancato pagamento: il giudice dell’ottemperanza è dotato di un ampio potere discrezionale che gli consente di effettuare una valutazione ostativa alla liquidazione, per considerazioni di carattere equitativo che possono anche escludere la meritevolezza della pena in questione.

Sentenza 24 settembre 2019, n. 6386

Data udienza 19 settembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sull’appello n. 375 del 2016, proposto dal signor Ig. Ma., rappresentato e difeso dall’avvocato An. Pe., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, (…);
contro
Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege in Roma, alla via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione Seconda n. 1505/2015, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 settembre 2019 il pres. Luigi Maruotti;
Uditi per l’avvocato An. Pe. ;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con il ricorso n. 250 del 2015 (proposto al TAR per la Calabria, Sede di Catanzaro), l’appellante ha chiesto la condanna del Ministero della giustizia ad eseguire il decreto della Corte d’appello di Catanzaro, Sez. III, n. 788 del 19 aprile 2013, emesso in applicazione della legge n. 89 del 2001.
2. Il TAR, con la sentenza n. 1505 del 2015, ha accolto il ricorso, ha emanato le misure volta alla esecuzione del giudicato, con la nomina di un commissario ad acta, ed ha condannato l’Amministrazione al pagamento delle spese del giudizio.
In particolare, il TAR ha fissato anche una penalità di mora, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera e) del c.p.a., fissando la relativa decorrenza dalla data di scadenza del termine di sessanta giorni, decorrente dalla comunicazione o dalla notifica della medesima sentenza.
3. Con i primi due motivi del gravame in esame, l’appellante ha chiesto che, in parziale riforma della sentenza del TAR, sia dichiarato il suo diritto di ottenere la penalità di mora, ai sensi dell’art. 114, del c.p.a., a decorrere dal 24 gennaio 2015 sino al pagamento, nella misura percentuale agli importi stabiliti nel decreto di equa riparazione, composti dal capitale e dalle spese di lite rifuse, con riferimento al parametro CEDU dell’interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca Centrale Europea, applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuala .
4. Ritiene il Collegio che le prime due censure – da esaminare congiuntamente – risultano infondate e vanno respinte.
4.1. L’invocato art. 114, comma 3, lettera e), del codice del processo amministrativo dispone che il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per l’ottemperanza, “salvo che non sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato”.
Tale disposizione non prevede l’obbligo del giudice dell’ottemperanza di accogliere senz’altro la richiesta di parte e di disporre automaticamente una tale misura, nel caso di constatato mancato pagamento: il giudice dell’ottemperanza è “dotato di un ampio potere discrezionale” (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 giugno 2014, n. 15), che gli consente di effettuare una valutazione ostativa alla liquidazione, per considerazioni di carattere equitativo che possono anche escludere la meritevolezza della ‘penà in questione (Cons. Stato, Sez. IV, 13 maggio 2019, n. 3065).
Tra gli aspetti che possono essere complessivamente valutati dal giudice, per accogliere o meno una tale richiesta di parte, rientrano tutte le circostanze del caso concreto, tra cui possono avere rilievo la natura del credito insoddisfatto (ad esempio, la sua natura alimentare), la durata dell’inadempimento, la mancata esecuzione di precedenti sentenze già rese in sede di esecuzione, le questioni di carattere organizzativo quando si tratti di giudizi sostanzialmente di carattere seriale, ecc.
Il giudice può ovviamente valutare tutti tali aspetti, anche accogliendo in parte la domanda formulata dall’interessato.
4.2. Nella specie, col ricorso di primo grado è stata chiesta l’ottemperanza ad un giudicato basato sulla violazione della legge n. 89 del 2001, che notoriamente ha comportato e comporta l’insorgenza di un notevole contenzioso avente per oggetto non solo le pronunce di cognizione volte a rilevare la violazione delle disposizioni sostanziali della medesima legge, ma anche le ulteriori fasi di esecuzione.
In relazione a tale contenzioso, ad avviso della Sezione risulta ragionevole la valutazione del giudice dell’ottemperanza, il quale dispone le misure attuative del giudicato, accogliendo in parte la domanda dell’interessato.
In tal caso, vi è pur sempre una effettiva tutela del creditore insoddisfatto e la relativa valutazione discrezionale del giudice dell’ottemperanza non risulta iniqua.
D’altra parte, la penalità di mora consiste in’uno strumento per indurre l’Amministrazione ad eseguire tempestivamente l’ordine di pagamentò, sicché ‘tale strumento non è ovviamente utilizzabile per gli adempimenti pregressi, produttivi piuttosto di obbligazioni di natura risarcitorià (Sez. IV, 13 ottobre 2015, nn. 4780, 4724, 4722): la sentenza non può disporre la penalità con riferimento ad un periodo di tempo anteriore alla sua pubblicazione.
Contrariamente a quanto ha dedotto l’appellante, non vi è alcuna specifica correlazione tra le disposizioni dell’art. 14 del decreto legge n. 669 del 1996 (sul rilievo del termine ‘di tolleranzà di sei mesi) e quelle del c.p.a. sulla penalità di mora, trattandosi di normative – rispettivamente sostanziali e processuali – aventi distinte finalità e presupposti di applicazione: il potere di disporre o meno una penalità di mora è attribuito alla valutazione ampiamente discrezionale del giudice amministrativo
Neppure rilevano in questa sede i principi formulati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, poiché si tratta della applicazione di una normativa dell’ordinamento nazionale, introdotta col codice del processo amministrativo, che si inserisce in un quadro normativo nel quale sono apprestati i rimedi di tutela spettanti, nel pieno rispetto del principio di effettività .
5. Col terzo motivo, è dedotta la violazione dell’art. 26 del c.p.a. e dell’art. 91 del c.p.c., nonché del decreto ministeriale n. 55 del 2014.
L’appellante ha rilevato che vi è stata la integrale soccombenza dell’Amministrazione e che il TAR ha liquidato euro 130 a titolo di spese (da considerare un importo estremamente esiguo, inferiore anche a quello desumibile dalla applicazione dei criteri previsti dal punto 21 della tabella allegata al decreto ministeriale) ed ha chiesto la liquidazione di un importo maggiore, pari ad euro 1.078.
6. Ritiene il Collegio che tale motivo risulta in parte fondato.
6.1. Per la pacifica giurisprudenza, il TAR ha ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8), con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi (per tutte, Consiglio Stato, Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 4936; Sez. III, 9 novembre 2016, 4655; Sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5012; Sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 891; Sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4471; Sez. IV, 27 settembre 1993, n. 798).
Anche in considerazione dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 77 del 2018, il giudice ben può tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, tra cui possono avere rilievo la natura del credito insoddisfatto (ad esempio, la sua natura alimentare), la durata dell’inadempimento, la ricerca di soluzioni extragiudiziarie per evitare la pendenza del contenzioso, la mancata esecuzione di precedenti sentenze già rese in sede di esecuzione, le questioni di carattere organizzativo quando si tratti di giudizi sostanzialmente di carattere seriale, l’esistenza di un diffuso contenzioso in materia, l’assenza delle risorse nell’attuale congiuntura economica e la difficoltà di disporre tempestivamente delle risorse necessarie per disporre i pagamenti.
Il TAR può dunque anche tener conto del fatto che sia stata chiesta l’ottemperanza ad un giudicato basato sulla violazione della legge n. 89 del 2001, che notoriamente ha comportato l’insorgenza di un notevole contenzioso basato su ricorsi che per la loro semplicità possono essere presentati sulla base di schemi precostituiti, anche in assenza di particolari considerazioni di carattere giuridico.
Il TAR – nel caso di accoglimento di un tale ricorso d’ottemperanza – può dunque compensare le spese del giudizio, con una valutazione insindacabile in sede d’appello, che di per sé non incide sul diritto alla effettività della tutela giurisdizionale (poiché le regole sulla statuizione sulle spese coesiste con le altre regole, miranti alla effettività della tutela) e neppure incide sulla dignità e sul decoro della professione forense: la decisione sulle spese non comporta di per sé una valutazione sull’operato del difensore o sulla qualità dei suoi scritti e attiene esclusivamente agli aspetti processuali sopra indicati.
Al riguardo, la sentenza di accoglimento del ricorso comporta comunque l’obbligo del soccombente di rimborsare alla parte vincitrice quanto effettivamente versato a titolo di contributo unificato, pur se tale obbligo non è esplicitato nella sentenza.
6.2. Tuttavia, qualora il TAR abbia disposto la condanna al pagamento delle spese, si deve tenere conto del decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55 (‘Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247’).
Ai fini della liquidazione del compenso si tiene anche conto “delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate” (art. 4, comma 1).
6.3. Tenuto conto di tale normativa, ritiene il Collegio che vada riformata la statuizione del TAR.
Nel caso di specie la liquidazione in primo grado delle spese di lite risulta manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale.
Pertanto, in considerazione dell’attività professionale svolta – di non particolare complessità – e di tutti i criteri sopra esposti, il capo di sentenza impugnato va riformato e, conseguentemente, l’Amministrazione deve essere condannata alle spese del primo grado del giudizio nella misura complessiva di 500 euro, oltre agli accessori di legge.
7. Per le ragioni che precedono, i primi due motivi d’appello vanno respinti, il terzo motivo va in parte accolto, sicché, in parziale riforma della sentenza appellata, il Ministero va condannato al pagamento di euro 500 per spese del primo grado, oltre agli accessori di legge, con distrazione al procuratore antistatario.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta accoglie in parte l’appello n. 375 del 2016 e condanna il Ministero appellato al pagamento, in favore della parte appellante, di euro 500 (incluso quanto già liquidato dal TAR), oltre agli accessori di legge, per spese del giudizio di primo grado.
Respinge l’appello per il resto.
Compensa tra le parti le spese del secondo grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 19 settembre 2019, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente, Estensore
Luca Lamberti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere

 

 

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