Cassazione 14

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 8 aprile 2016, n.14510

Svolgimento del processo

Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale del Riesame di Palermo ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere applicata a T.F. con ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo del 27 novembre 2015, per i reati di cui all’art. 416 bis cod. pen. e artt. 110, 56, 629 cod. pen. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Al T. si contesta la partecipazione all’associazione criminale denominata ‘Cosa Nostra’, nella famiglia mafiosa di Porto Empedocle, con a capo i fratelli M.F., detenuto dal giugno 2012, e M. G. e il reato di tentata estorsione, aggravato dal metodo mafioso, in danno di un’impresa operante in (OMISSIS).

Nell’ordinanza impugnata sono descritte – con richiamo alle intercettazioni telefoniche ed ambientali che coinvolgono direttamente il ricorrente e riferite ad un apprezzabile arco temporale, essendosi protratte da aprile a settembre 2013 – le condotte che ne denotano la intraneità all’associazione desumibili dal suo attivismo nel settore delle estorsioni e degli atti intimidatori; dalla gestione del denaro della ‘famiglia’ mafiosa attraverso i contributi versati ai familiari del M.; dalle interlocuzioni con il vertice della famiglia al fine di ottenere la riammissione a pieno titolo di T.F. nella consorteria, dopo un periodo nel quale era stato temporaneamente ‘sospeso’ dalle attività dirette del clan; dai suoi stretti rapporti con M.F. e dalla cautela che ne contrassegnava la condotta in occasione del suo incontro con tale G.. Con riguardo al reato di tentata estorsione, il Tribunale ha evidenziato che il ricorrente era stato riconosciuto dal capocantiere della ditta AEMME s.r.l. come la persona che si era presentata sul cantiere a nome di ‘ M. di Porto Empedocle’, e, in assenza del titolare dell’impresa, gli aveva detto di riferire al suo datore di lavoro di ‘presentarsi di persona oppure contattare qualcuno di Favara per parlare con loro’, condotta chiaramente finalizzata a pretendere dall’imprenditore avvicinato il pagamento di una tangente.

Con i motivi di ricorso, qui sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari ai fini della motivazione, il difensore deduce plurimi vizi di violazione di legge e illogicità della motivazione con riguardo: 3.1 all’art. 297 c.p.p., comma 3 per l’omessa retrodatazione dell’efficacia della presente misura cautelare in carcere a far data dal 20 novembre 2013, epoca nella quale veniva eseguita altra ordinanza, avente ad oggetto condotte diverse da quelle oggetto del presente provvedimento ma fondata sulle medesime conversazioni intercettate poste a fondamento dell’odierna misura, eccezione proposta in sede di udienza camerale e che il Tribunale non ha esaminato; 3.2 agli artt. 273 cod. proc. pen. e 416 bis cod. pen. per la genericità della contestazione relativa alla condotta del ricorrente e l’illogicità della conclusione alla quale il Tribunale è pervenuto sulla intraneità del T. al sodalizio mafioso di Porto Empedocle in presenza di risultanze delle intercettazioni dalle quali si evince che il T. veniva tenuto lontano dal vertice dell’associazione, tanto che era il C. a farsi carico di un colloquio con M. ed affidando ad un mero giudizio di verosimiglianza la conclusione che il T. fosse stato riammesso nel gruppo; la impossibilità del T. di soddisfare richieste economiche di chiunque e la necessità di comprovare un fattivo contributo partecipativo all’associazione non desumibile nè dalla mera frequentazione con altri compartecipi nè da una mera manifestazione di intenti, come evincibile dalla giurisprudenza di legittimità che richiede, ai fini della prova della condotta di partecipazione, un serio riscontro individualizzante alla chiamata in correità nella quale si attesti la generica disponibilità di un soggetto verso l’associazione; 3.3 con riferimento all’art. 273 cod. proc. pen. e artt. 56 e 629 cod. pen. e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 poichè non vi è certezza su chi ebbe a formulare la frase incriminata nè sullo scopo dell’invito rivolto al titolare della ditta richiedendosi, ai fini della sussistenza del reato tentato, la idoneità della condotta, la messa in pericolo dell’interesse protetto e la ingiustizia del profitto, potendo la condotta del ricorrente, al più, essere qualificata come connivenza non punibile; 3.3 in relazione all’art. 273 c.p.p., comma 3, poichè il Tribunale ha ritenuto non sopraggiunta la prova contraria alla partecipazione all’associazione da parte di ricorrente che non era neanche affiliato alla stessa.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

Il primo motivo di ricorso è generico poichè la denuncia del vizio di motivazione per la mancata risposta alle richieste difensive può essere utilmente dedotta in Cassazione solo quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano un chiaro ed inequivocabile carattere di decisività nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare ad una decisione più favorevole di quella adottata (sulla decisività v. Sez. 2, Sentenza n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445). Proprio in tema di contestazione a catena si è ritenuto che l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento giudiziale, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente. Ne deriva che l’interesse all’accoglimento della richiesta di operatività della cosiddetta contestazione a catena sussiste solo qualora da essa derivi un diverso e favorevole computo del termine di durata della custodia cautelare nella fase delle indagini preliminari, tale da comportare la scarcerazione, e ciò in quanto la retrodatazione degli effetti ne anticipi la scadenza a data antecedente a quella della emissione di uno degli atti di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a) (Sez. 5, n. 32850 del 30/06/2011, Giuffrida, Rv. 250578). Orbene, nel caso in esame, nella prospettazione difensiva sviluppata con i motivi di ricorso, neppure in astratto si deduce la possibilità che, per effetto della retrodatazione, la misura applicata al T. abbia perso efficacia essendosi soffermato il difensore sull’esame del mero interesse della persona sottoposta ad indagini alla retrodatazione della misura cautelare alla luce della giurisprudenza della Corte Edu e della Corte Costituzionale in materia e dei requisiti che regolano l’istituto.

Non meno infondati sono i denunciati vizi di violazione di legge e vizi di motivazione, vizi che il Collegio può esaminare quando, nell’ambito dei poteri riconosciuti al sindacato di legittimità, non propongano censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 5, n. 46124 del 08/10/2008, Pagliaro, Rv.241997) le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. Nel momento del controllo della motivazione, inoltre, non è compito del giudice di legittimità stabilire se la decisione di merito proponga o meno la migliore ricostruzione dei fatti nè che debba condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove.

Alla luce di tali parametri risulta evidente che con i motivi di ricorso innanzi sintetizzati vengono sollevate questioni relative alla valutazione della gravità indiziaria degli elementi raccolti e alla ricostruzione in fatto, già esaminate nell’ordinanza impugnata che è pervenuta alla conferma dell’ordinanza genetica attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della completezza e della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede poichè il Tribunale non ha mancato di prendere in esame quegli elementi pure evincibili dalle intercettazioni telefoniche – le difficoltà frapposte a soddisfare le pressanti richieste economiche dei congiunti del M. e il ‘congelamento’ del ruolo del ricorrente nel contesto associativo riproposti a fondamento dei motivi di ricorso, elementi che, ad una prima e sommaria lettura, potevano apparire dissonanti rispetto alla condotta di partecipazione che, va riferita, piuttosto che ad un mero status di appartenenza, a chi si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare un ruolo attivo in base al quale l’interessato ‘prende parte’ al fenomeno associativo.

Ed è proprio confrontandosi con tale nozione del ruolo di partecipe che il Tribunale ha esaminato le condotte accertate a carico del ricorrente sintetizzate in narrativa – sottolineandone i profili che denotano la condotta di partecipazione evidenziando, con riguardo al contributo offerto per il mantenimento dei familiari delle persone detenute (proprio i congiunti di M.F., il capo cosca) che trattasi di condotta che discende dal rapporto di mutua solidarietà che vincola gli appartenenti a ‘Cosa Nostra’ tanto più che il T. manifestava di agire controvoglia e, quindi, per mero adempimento di un dovere nascente dall’appartenenza al gruppo piuttosto che per ragioni di solidarietà umana e, con riguardo alla condotta estorsiva, che trattasi di condotta tipica della consorteria mafiosa qui consumata con modalità che ne rivendicano la provenienza da un gruppo organizzato (i M. di Porto Empedocle, a nome del quale il T. si era presentato nel cantiere), provenienza vieppiù potenziata dall’invito alla vittima di rivolgersi, per la mediazione sul pagamento della tangente, alla cosca del luogo di provenienza, cioè Favara.

Può, dunque, pervenirsi alla conclusione che l’ordinanza impugnata, sulla scorta di considerazioni affatto illogiche o irragionevoli e corrette dal punto di vista giuridico, ha valorizzato concrete e specifiche condotte del T., piuttosto che mere manifestazioni di intenti e/o rapporti di frequentazione con i consociati, che ne comprovano l’organico inserimento nel sodalizio criminoso e la condivisione del vincolo associativo, al di là di contingenti momenti in cui tale vincolo può manifestare segnali di crisi, non risolutivi in presenza della conclamata volontà del ricorrente di ripristinarne appieno la portata per come si evince dai tentativi posti in essere dal T. (descritti alle pagg. 2 e 3 dell’ordinanza) per esservi riammesso a pieno titolo attraverso la mediazione del C.. Consegue che le critiche mosse all’ordinanza impugnata, lungi dall’evidenziare profili di evidente illogicità o carenza argomentativa, si risolvono nella prospettazione dell’esistenza di diverse chiavi di lettura, le quali però non si impongono rispetto a quella avversa con carattere di oggettività e univocità e che non possono pertanto trovare ingresso in questa sede, tanto più in quanto caratterizzata, come sopra detto, dai criteri valutativi più fluidi ed elastici propri della fase cautelare.

Con riferimento al reato di tentata estorsione, premesso che nell’ordinanza impugnata si dà atto (cfr. pag. 6) che il capocantiere della ditta AEMME Costruzioni s.r.l. ha individuato sulla foto del T. la persona che si era presentata sul cantiere spendendo il nome del M. e invitando il titolare della ditta a ‘mettersi a posto’, rileva il Collegio che le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale del Riesame sono in linea con la giurisprudenza di legittimità che, anche in assenza di minacce esplicite, ai fini della sussistenza del reato di tentata estorsione ritiene integrato il requisito della minaccia e la sua idoneità a coartare la volontà del soggetto passivo, da valutare ex ante, in ragione dell’apprezzamento delle modalità con cui la condotta è stata posta in essere, avendo riguardo alla personalità sopraffattrice del soggetto agente, alle circostanze ambientali, all’ingiustizia del profitto, alle particolari condizioni soggettive della vittima (Sez. 2, n. 2833 del 27/09/2012 (dep. 2013), Adamo ed altri, Rv. 254297). A tale criterio si è attenuta l’ordinanza impugnata che ha valorizzato la spendita del nome della famiglia mafiosa del luogo, accompagnata dall’invito a contattare persone del luogo di provenienza dell’imprenditore al fine di trovare la strada per ‘regolare’ il pagamento dell’estorsione, evidenziando, con passaggio argomentativo ineccepibile, che tale condotta, in un contesto come quello siciliano, risulta ex se idonea a configurare il reato nella forma tentata per la messa in pericolo dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, e che tale era stata interpretata dal destinatario della richiesta che ha denunciato il fatto con un comportamento oppositivo che esclude la configurabilità del recesso attivo del ricorrente, pure evocato dalla difesa nella discussione odierna.

Con riguardo alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari rileva la Corte che l’art. 275 c.p.p., comma 3, come novellato dalla L. n. 47 del 2015, pone nei confronti dell’indagato per reato associativo di cui all’art. 416 bis cod. pen. una presunzione relativa di pericolosità sociale, che inverte gli ordinari poli del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrazione in positivo della ricorrenza dei pericula libertatis, ma soltanto di apprezzamento delle ragioni di esclusione, eventualmente evidenziate dalla parte o direttamente evincibili dagli atti, tali da smentire, l’effetto della presunzione. Nel caso concreto, con argomentazione affatto illogica, il Tribunale ha esaminato la condizione soggettiva del T., temporaneamente ‘sospeso’ dall’esecuzione delle attività criminali commesse nell’interesse della famiglia, valorizzando in contrario la sua pervicace volontà di esservi riammesso e le iniziative intraprese in tal senso quali elementi idonei a giustificare il persistere del giudizio di pericolosità sociale.

Alla inammissibilità del ricorso consegue condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre che al pagamento processuali, al pagamento della somma indicata in dispositivo in favore della cassa della ammende, essendo imputabile a sua colpa la determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma – 1 ter.

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