Al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 18 marzo 2020, n. 1924.

La massima estrapolata:

Al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario, che è condizione per l’accertamento della non necessarietà del rilascio del relativo permesso di costruire, occorre verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.

Sentenza 18 marzo 2020, n. 1924

Data udienza 3 marzo 2020

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1793 del 2010, proposto da
Fa. Co., rappresentato e difeso dall’avv. Er. St. Da., presso il cui studio è elettivamente domiciliato, in Roma, alla Via (…)
contro
– Comune di (omissis), in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Ar. Ma., per il presente giudizio elettivamente domiciliato in Roma, al Corso (…), presso lo studio dell’avv. Gi. Ma. Gr.;
– Responsabile pro tempore dell’Area Tecnica del Comune di (omissis);
– Responsabile del Procedimento dell’Area Tecnica del Comune di (omissis);
– Provincia di Taranto, in persona del legale rappresentante;
non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione staccata di Lecce n. 142 del 14 gennaio 2010, resa tra le parti, concernente diniego permesso di costruire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 marzo 2020 il Cons. Roberto Politi e uditi per le parti gli avvocati Gi. Pe. su delega di Er. St. Da.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Espone l’appellante di essere proprietario di un’area (sita in (omissis), alla Via (omissis) s.n. c., e distinta in catasto al fg. (omissis), p.lla (omissis), sub. (omissis)), all’interno della quale esercita attività commerciale di vendita all’ingrosso di prodotti non alimentari (in particolare, manufatti per l’edilizia, rivestimenti, accessori).
Con concessione n. 1 del 28 aprile 1988, veniva autorizzato alla costruzione sulla predetta area in proprietà di una casa rurale con annessi (per un totale di n. 3 corpi di fabbrica: A, B e C).
Realizzati 2 dei 3 corpi di fabbrica autorizzati (A e B) in parziale difformità rispetto alle previsioni del progetto assentito, l’appellante, con istanza del 6 gennaio 2009, chiedeva il rilascio di permesso di costruire in variante, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Nelle more del rilascio di tale titolo, il sig. Fa., onde far fronte ad esigenze di natura temporanea (deposito, protezione di materiali e di attrezzature, esposizione di prodotti), installava all’interno della predetta area una serie di strutture precarie con coperture amovibili.
Con ordinanza n. 6 del 10 luglio 2009, il Comune di (omissis) comunicava la non accoglibilità della suindicata istanza di permesso di costruire in variante, in quanto “all’atto della richiesta… sussiste un volume eccedente quello autorizzato o, comunque, autorizzabile in zona; … l’immobile…, nonché l’intera area nel suo complesso ospita attività non riconducibili a quelle agricole; le strutture precarie (dal 1988 ad oggi) sono tuttora esistenti, in oltre 20 anni hanno comunque perso ogni eventuale titolo di precarietà e altre strutture cosiddette precarie si sono di recente aggiunte a vario titolo”.
2. Con ricorso N.R.G. 1709 del 2009, proposto innanzi alla Sezione staccata di Lecce del T.A.R. della Puglia, il signor Fa. chiedeva l’annullamento della suindicata ordinanza, recante ordine di ripristino delle realizzazioni in essa descritte.
3. L’adito Tribunale, con sentenza oggetto dell’odierno appello, respingeva il ricorso.
In tale pronunzia viene, in particolare, affermato che:
– “sono state riscontrate… diverse strutture edilizie (gazebo in struttura metallica, casetta prefabbricata, ricoveri per materiali) realizzate in assenza di titolo autorizzatorio. Tali strutture non possono considerarsi precarie in quanto il carattere precario di una costruzione non va desunto dalla eventuale facilità di rimozione, bensì dalla durata nel tempo del manufatto stesso e dalla sua obiettiva destinazione a soddisfare esigenze durevoli nel tempo. Nel caso di specie,… le strutture sono state installate da più di 20 anni e assolvono in via continuativa alle necessità dell’impresa commerciale che lo stesso Fa. esercita nell’area… inoltre, il fabbricato realizzato in forza della concessione edilizia rilasciata ha attualmente una volumetria pari al doppio di quella assentita e viene destinato ad uso commerciale in contrasto con la destinazione agricola della zona urbanistica (omissis) in cui è insediato”;
– “anche nel caso di abuso risalente nel tempo… l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive costituisce atto dovuto, non potendo il semplice trascorrere del tempo determinare il legittimo affidamento del contravventore”.
4. Avverso la suindicata sentenza, il signor Fa. ha interposto appello, lamentando quanto di seguito sintetizzato:
– avrebbe errato il Tribunale nel ritenere che le strutture realizzate nelle more del rilascio del permesso di costruire in variante chiesto in data 6 gennaio 2009 non sarebbero precarie in quanto “assolvono in via continuativa alle necessità dell’impresa commerciale”, atteso che esse sono state realizzate con modalità costruttive che ne consentono la facile rimozione;
– quanto, poi, alla realizzazione di una volumetria pari al doppio di quella assentita e destinata ad uso commerciale in contrasto con la destinazione agricola della zona urbanistica (omissis), il giudice di prime cure avrebbe omesso di considerare che, nel corso dell’istruttoria in ordine all’istanza di permesso di costruire in variante presentata in data 6 gennaio 2009, l’interessato aveva dichiarato la propria disponibilità a demolire il 50% del fabbricato A realizzato; né, sotto altro profilo, lo svolgimento di attività commerciale sarebbe incompatibile con la destinazione agricola della zona urbanistica (omissis);
– il Tribunale, poi, non avrebbe considerato che l’odierno appellante aveva comunicato all’Amministrazione, con nota del 20 gennaio 2009, l’installazione delle strutture anzidette; in proposito osservandosi come, a fronte della mancata assunzione, da parte del Comune di (omissis), di alcuna iniziativa volta ad impedire l’esecuzione degli interventi programmati, si sarebbe ingenerato, in capo al sig. Fa., il convincimento circa la piena legittimità del proprio operato.
Parte appellante ha rinnovato, da ultimo, la richiesta di risarcimento danni per equivalente, già formulata in primo grado.
5. In data 27 settembre 2010, l’Amministrazione appellata si è costituita in giudizio ed ha analiticamente controdedotto alle censure proposte con l’appello all’esame; conclusivamente, insistendo per la reiezione del proposto mezzo di tutela.
6. In vista della trattazione nel merito della controversia, l’appellante ha depositato in atti, alla data del 31 gennaio 2020, memoria con la quale, riepilogati i fatti di causa e ribadite le già prese conclusioni, ha insistito per l’accoglimento del mezzo di tutela.
7. L’appello viene trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 3 marzo 2020.

DIRITTO

1. L’appello è infondato.
2. Viene, in primo luogo, in considerazione la censura, rivolta avverso la gravata pronunzia del T.A.R. Lecce, con la quale si assume l’erroneità della valutazione dal giudice di prime cure operata con riferimento al confutato carattere di “precarietà ” delle strutture dal sig. Fa. realizzate nel 2009.
2.1 Trattasi, in particolare, di strutture, asseritamente precarie, con coperture costituite da teli in plastica, pannelli sandwich, legno (le quali, a dire dell’appellante, sarebbero completamente rimuovibili), preordinate a fronteggiare esigenze aventi affermata natura temporanea (deposito, protezione di materiali e di attrezzature, esposizione di prodotti, etc.).
Secondo la prospettazione di parte, il T.A.R. avrebbe “sovrapposto” i distinti concetti di “temporaneità ” e di “precarietà ” dei manufatti; osservandosi, in proposito, come:
– se il concetto di “temporaneità ” evoca un criterio valutativo fondato sul dato temporale;
– diversamente, al concetto di “precarietà ” va ricongiunta una valenza di carattere strutturale (in tale genus, dovendosi ricomprendere i manufatti che, a prescindere dal tempo per il quale sono destinati a permanere al suolo e dalla natura delle esigenze – durevoli o meno – al cui soddisfacimento sono preordinati, siano facilmente amovibili).
2.2 Sul punto, la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., da ultimo, Sez. VI, 14 gennaio 2020, n. 334) è costante nell’affermare che”al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario, che è condizione per l’accertamento della non necessarietà del rilascio del relativo permesso di costruire, occorre verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l’interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire”.
In tal senso, “la precarietà o non di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 dicembre 2017, n. 5762).
Quand’anche possa convenirsi con la tesi di parte appellante, circa la realizzazione dei manufatti di che trattasi con modalità costruttive suscettibili di consentirne l’agevole rimozione, va osservato come, da un punto di vista funzionale, le medesime strutture (per stessa ammissione del sig. Fa., installate da più di venti anni) siano risultate preordinate al soddisfacimento, in via continuativa, delle necessità dell’impresa commerciale.
2.3 Nel ribadire (come da questa Sezione già osservato: cfr. sentenza 28 maggio 2019, n. 3507) che il carattere di “precarietà ” di un manufatto, alla luce del dettato normativo di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, va inteso “non in senso strutturale bensì funzionale, dovendosi la stessa escludere in fattispecie… in cui l’opera risulta destinata al soddisfacimento di esigenze durevoli e non meramente temporanee”, deve quindi escludersi che, quanto alla fattispecie in esame, le opere contestate possano considerarsi manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee in ragione della loro utilizzazione perdurante nel tempo.
3. Contesta, poi, il sig. Fa. l’appellata pronunzia, nella parte in cui viene sostenuta la non ravvisabilità dei presupposti per l’applicazione dell’art. 36 del D.P.R. 380 del 2001, in quanto “il fabbricato realizzato in forza della concessione edilizia rilasciata ha attualmente una volumetria pari al doppio di quella assentita e viene destinato ad uso commerciale in contrasto con la destinazione agricola della zona urbanistica (omissis) in cui è insediato”.
Con riferimento all’eccesso volumetrico indicato nel provvedimento gravato in prime cure (e, ulteriormente, valorizzato nella pronunzia appellata), rappresenta la parte di aver manifestato, nel corso dell’istruttoria avente ad oggetto l’istanza di rilascio di permesso di costruire in variante, la disponibilità a demolire il 50% del fabbricato A realizzato, al fine di contenere le volumetrie insediate nell’ambito di quelle autorizzate giusta concessione n. 1 del 28 aprile 1988.
Tale argomentazione si dimostra appieno inconferente, laddove si consideri come la disposizione di cui all’art. 36 T.U.E. (nel testo ratione temporis applicabile) stabiliva che, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Proprio l’assenza di siffatta “doppia conformità “, appieno evincibile dal consistente eccesso volumetrico realizzato riaspetto a quello autorizzabile (atteso che il fabbricato realizzato in forza della concessione edilizia del 28 aprile 1988 rivela volumetria pari ad oltre il doppio di quella assentita e, comunque, realizzabile secondo la previsione del P.d.F.), esclude l’operatività della invocata previsione in tema di accertamento di conformità .
E, sotto altro profilo, va rimarcato – come correttamente osservato dal giudice di prime cure – che il medesimo manufatto rivela destinazione (commerciale) non compatibile con quella agricola prevista dal P.d.F per la zona (omissis) (all’interno della quale ricade).
Né, diversamente, rivela condivisibile concludenza l’affermazione (dall’appellante, da ultimo, ribadita con memoria depositata in atti il 31 gennaio 2020) circa la destinazione (omissis) impressa all’area di proprietà del sig. Fa. nel P.U.G. del Comune di (omissis) (in fase di definitiva approvazione), compatibile con l’uso commerciale dallo stesso posto in essere.
Come, in proposito, già osservato dalla difesa dell’intimata Amministrazione con controricorso depositato in atti il 29 luglio 2010, soltanto una porzione della proprietà del sig. Fa. sarebbe suscettibile di ricevere destinazione (da agricola a) commerciale (omissis).
Se tale diversa vocazione non riguarderebbe la parte dell’area sulla quale insistono gli interventi di che trattasi (rilievo, questo, in punto di fatto, non smentito dall’appellante), per la quale permane la caratterizzazione quale zona (omissis) (agricola), va, comunque, osservato come anche una complessiva immutazione della destinazione urbanistica non renderebbe – in ogni caso – applicabile l’art. 36 del D.P.R. 380 del 2001, in ragione della divisata carenza del requisito (da tale disposizione postulato) della “doppia conformità ” alla disciplina urbanistica vigente al momento della trasformazione urbanistica del territorio ed all’epoca della richiesta di sanatoria.
4. La risalente collocazione nel tempo degli abusi, rispetto all’esercizio del potere repressivo sostanziatosi nell’irrogazione di ordine ripristinatorio, ha poi indotto l’appellante a ribadire la censura – già in prime cure dedotta – in ordine alla carenza motivazionale dei provvedimenti comunali, nonché all’affidamento che sarebbe stato ingenerato per effetto del decorso del tempo, in difetto di adozione di misure sanzionatorie.
Può, in proposito, osservarsi che, come da questa Sezione già rilevato (cfr. sentenza 24 giugno 2019, n. 4315):
– se “la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico – quale è, per l’appunto, quella del ripristino della legalità violata nelle attività di trasformazione edilizia del territorio – non è per certo idonea a far divenire legittimo ciò che è sin dall’origine illegittimo, ossia l’edificazione sine titulo…”;
– allora, “tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata”;
conseguentemente, escludendosi che – ferma l’irrilevanza del decorso del tempo quanto alla “ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione” – l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo “debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata”, in ragione della sufficienza del “mero richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, per contro applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria”.
5. L’esclusa fondatezza delle censure dedotte con l’appello all’esame, conduce al rigetto dell’anzidetto mezzo di tutela, con riveniente conferma della pronunzia resa in prime cure.
Le spese di lite, in ragione della particolarità della controversia, possono formare oggetto di compensazione fra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 marzo 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giulio Castriota Scanderbeg – Presidente
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Carla Ciuffetti – Consigliere
Roberto Politi – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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