Aggravante dell’uso di mezzo fraudolento

Corte di Cassazione, sezione quarta penale, sentenza 28 febbraio 2019, n. 8768.

La massima estrapolata:

L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinario accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene. (Fattispecie in cui non ricorre l’aggravante in capo all’imputato che si era impossessato in un negozio di una giacca e una camicia, nascondendoli sotto il cappotto)

Sentenza 28 febbraio 2019, n. 8768

Pres. Izzo

est. Dawan

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di L’Aquila, con pronuncia del 31/05/2017, ha confermato la sentenza del Tribunale di Vasto che condannava B.P. alla pena di un anno, mesi sei di reclusione ed Euro 600,00 per il reato di cui agli artt. 110 e 624 c.p. e art. 625 c.p., comma 1, n. 2, perché, in concorso con tre donne rimaste sconosciute e al fine di trarne profitto per sé o per altri, presso il negozio di abbigliamento denominato (…), si impossessava di una giacca da uomo di colore blu, di una camicia a fiori marca (…) del valore complessivo di Euro 200,00. Con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale. In (omissis) .
2. Avverso la sentenza d’appello, il B. , a mezzo del difensore, ricorre per cassazione deducendo, con un unico motivo, violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento. L’insidiosità e la rimarcata efficienza offensiva, sostiene il ricorrente richiamando anche giurisprudenza di legittimità, non si integra nel mero occultamento, sulla persona o nella borsa, di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinario accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene. Nel caso di specie, il notevole rigonfiamento del cappotto sotto il quale il ricorrente aveva nascosto la merce di cui s’era impossessato non può, per intrinseca inadeguatezza, essere considerato mezzo fraudolento.
Chiede, pertanto, che, venuta meno la contestata aggravante, la sentenza impugnata sia annullata per difetto di querela.

Considerato in diritto

1. La sentenza di appello va annullata con rinvio per le ragioni che di seguito si espongono.
2. Nel ritenere sussistente la contestata aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, evidenzi che non si trattò di un mero occultamento della merce sulla propria persona poiché il B. si presentò nel negozio accompagnato da quattro o cinque ragazze e che finse di provare i capi sottratti all’interno di un camerino. Più precisamente, mentre l’imputato era nel camerino, alcune di queste ragazze creavano confusione cercando di distrarre la proprietaria dell’esercizio commerciale. Nel frattempo, un’altra ragazza portava nel camerino tutta una serie di capi di abbigliamento, alcuni dei quali venivano lasciati al suo interno una volta che l’imputato aveva finito di provarli mentre la merce rubata era dallo stesso occultata sulla propria persona che riusciva così ad uscire senza dare nell’occhio. La sentenza ricorda altresì come la teste M.M. , titolare dell’esercizio, abbia dichiarato d’essersi resa conto della sottrazione solo del momento in cui, usciti dal negozio il B. e le ragazze, era rientrata in camerino per rimettere a posto gli indumenti ivi lasciati e di aver rammentato, a quel punto, il rigonfiamento sotto gli abiti del prevenuto.
3. Ciò premesso, il Collegio osserva che il capo di imputazione ascritto al ricorrente pur descrivendo in fatto la circostanza aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 5 – il B. in concorso con almeno tre donne rimaste sconosciute – non la contesta formalmente. Si tratta di una lacuna con cui entrambe le sentenze di merito non si sono confrontate.
Dalle cadenze motivazionali, inoltre, emerge che a venire in considerazione non è tanto l’aggravante, contestata, del mezzo fraudolento, quanto quella, non contestata, della destrezza (art. 625 c.p., comma 1, n. 4).
Le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974), investite della questione ‘se, con riferimento al reato di furto, il mero occultamento all’interno di una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2’, hanno, in particolare, affermato che un’interpretazione dell’idea di frode, con riferimento alla fattispecie di furto, deve tendere ad individuarvi condotte che concretino l’aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale rigore sanzionatorio. Tale interpretazione è ispirata al principio di offensività afferente non al nucleo offensivo del reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini della fattispecie aggravante. La condotta di spoliazione può rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della vittima. La frode allora si riferisce non a qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un’astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione. Entro questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in tale genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che caratterizza l’aggravante. Per contro, uno sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che connotano e delimitano la fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto possibile, l’argomentazione all’astrattezza. È sufficiente richiamare i casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche. Nella condotta fraudolenta si individua un tratto – specializzante rispetto alle modalità ordinarie, costituito da significativamente maggiore gravità a causa delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene. Non meno puntuale appare la sottolineatura della straordinarietà dell’azione, improntata a scaltrezza, astuzia.
Le Sezioni Unite stabilivano quindi il seguente principio di diritto: ‘L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinario accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene’.
Le condotte aggravate dalla destrezza e dall’uso del mezzo fraudolento descrivono modelli prossimi ma non coincidenti: la prima circostanza si caratterizza per la rapidità dell’azione nell’impossessamento, non potuto percepire dalla persona offesa, appositamente distratta; la seconda, per la particolare scaltrezza nell’attività preparatoria, concertata ed attuata mediante qualche comportamento richiedente la presenza del possessore, idonea ad eluderne la vigilanza ed i mezzi approntati a difesa dei suoi beni (Sez, U., sent. n. 34090 del 27/04/2017, Quarticelli, Rv. 270088).
4. Ciò detto, il fatto, così come ritenuto nella sentenza impugnata, può dunque integrare li estremi degli artt. 110 e 624 c.p. e art. 625 c.p., comma 1, nn. 4 e 5. Tale diversa qualificazione non attua una reformatio in peius, in difetto di impugnazione del pubblico ministero, giacché non è in predicato l’esistenza del fatto bensì solo la giuridica qualificazione delle peculiarità della condotta di cui si discute. Tuttavia tale riqualificazione non può essere effettuata in sede di legittimità con ‘atto a sorpresa’, in ossequio al principio costituzionale sancito dall’art. 111 Cost., comma 3, che stabilisce il diritto della persona accusata di un reato ad essere informata (…) della natura e dei motivi dell’accusa (Sez. 6, sent. n. 3716 del 24/11/2015 (dep. 27/01/2016), Caruso, Rv. 266953). La norma rappresenta la trasposizione pressoché letterale della corrispondente disposizione contenuta nell’art. 6, comma 3, lett. a) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali- – come interpretato dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia – la cui inequivocabile formulazione esclude che l’informazione possa essere limitata ai meri elementi fattuali posti a fondamento dell’accusa e impone invece anche l’enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati che necessariamente concorre a definire la natura dell’addebito. Il diritto all’informazione in ordine alla natura dell’accusa si traduce nel diritto alla contestazione dell’imputazione, vera e propria, consistente nella enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti, e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza cui è correlato il potere del giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione.
La Corte di cassazione non può pertanto attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati, pregiudicando in conseguenza il diritto di difesa. Si impone invece l’instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla relativa questione di diritto (Sez. 4, sent. n. 2340 del 29/11/2017 (dep. 19/01/2018), DS, Rv. 271758 – 01).
5. Quanto alla doglianza relativa alla mancanza di procedibilità per difetto di querela, la stessa è infondata stante che, come si è più sopra detto, è contestata in fatto l’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 5.
6. In conclusione, la sentenza della Corte di appello di L’Aquila deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Perugia la quale dovrà tener conto del principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 40354 del 18/07/2013.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Perugia

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