Accertamento induttivo dei maggiori ricavi per asserito lavoro nero

Corte di Cassazione, sezione tributaria, Ordinanza 18 aprile 2019, n. 10909.

La massima estrapolata:

Non si può procedere all’accertamento induttivo dei maggiori ricavi per asserito lavoro nero all’interno dell’azienda una volta venuto meno il rapporto di lavoro subordinato. Né si può contestare l’omesso versamento delle ritenute in assenza di rapporto subordinato.

Ordinanza 18 aprile 2019, n. 10909

Data udienza 26 marzo 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere

Dott. CATALDI Michele – Consigliere

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22839/2014 R.G. proposto da:
(OMISSIS) s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS), in (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore;
– resistente con atto di costituzione –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 195/48/2013, depositata il 5 luglio 2013.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 26 marzo 2019 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

RILEVATO

che:
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della (OMISSIS) s.a.s, per l’anno 2003, ritenendo che i due soci accomandatari, (OMISSIS) e (OMISSIS), avessero svolto attivita’ lavorativa irregolare, sicche’, avendo gli stessi percepito la somma di Euro 36.600,00 (rispettivamente Euro 18.000,00 ed Euro 18.600), si presumevano ricavi non dichiarati per Euro 109.800,00 (Euro 36.600 X 3), in quanto i costi per il personale incidevano per 1/3 sui corrispettivi incassati, con un reddito netto di impresa di Euro 109.004,00, pari alla somma tra il reddito dichiarato (Euro 35.084,00), i maggiori corrispettivi per Euro 109.800,00, sottratti i costi certi sostenuti per Euro 36.600,00. Venivano accertate, quindi, maggiori Irap, Iva ed Irpef, quest’ultima relativa alle ritenute non versate.
2. Nel ricorso la societa’ evidenziava che i due soci accomandatari avevano prestato la loro opera nell’interesse della societa’ e che le somme da essi percepite rappresentavano normali prelievi di utili regolarmente dichiarati e tassati, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 5, con imputazione ai soci della quota parte del reddito della societa’, a prescindere dai prelievi operati.
3.La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza riformata dalla Commissione tributaria regionale, la quale riteneva che si era instaurato tra la societa’ ed i soci un rapporto di “dipendenza funzionale”, sicche’ i soci avevano prestato la loro attivita’ lavorativa secondo le direttive della societa’. Inoltre, “trattandosi di soci accomandatari”, quindi con qualifica di amministratori, sarebbe stato possibile configurare un rapporto di lavoro dipendente instaurato con la societa’. Peraltro, le somme corrisposte a qualsiasi titolo dalle aziende agli amministratori erano assimilate ai redditi di lavoro dipendente ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 50, comma 1, lettera c-bis.
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la societa’.
5. L’Agenzia delle entrate non ha svolto attivita’ difensiva.

CONSIDERATO

che:
1. Con un unico motivo di impugnazione la societa’ deduce “violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 1, lettera C) e D), nonche’ del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 54, comma 5, dell’articolo 5, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articoli 49 e 50 e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articoli 23, 25, 26, 37 e 40, con riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, in quanto la questione in ordine alla tassazione delle somme ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 50, era stata sollevata per la prima volta dalla Agenzia solo in sede di appello. Inoltre, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 5, anche se il socio non effettua prelievi, e’ comunque tenuto a riportare in dichiarazione la sua quota parte di utili dichiarati dalla societa’. Allo stesso modo se il socio preleva una somma superiore a quella corrispondente alla parte di utili (utili accantonati relativi ad esercizi precedenti), e’ comunque tenuto a riportare in dichiarazione la parte di utili, dichiarati dalla societa’, proporzionale alla sua quota di partecipazione. L’articolo 2263 c.c. e l’articolo 2295 c.c., n. 7, prevedono, poi, la condizione di “socio d’opera”. La carica di socio accomandatario non puo’ cumularsi con quella di lavoratore subordinato, non potendo riunirsi in un unico soggetto la qualita’ di esecutore della volonta’ sociale e quella di organi competenti ad esprimere tale volonta’.
1.1. Tale motivo e’ fondato.
1.2. Anzitutto, si evidenzia che in grado di appello l’Agenzia delle entrate ha dedotto, per la prima volta, che le somme corrisposte ai due soci accomandatari erano assimilate ai redditi da lavoro dipendente ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 50, comma 1, lettera c-bis.
Tuttavia, non costituisce questione nuova la prospettazione in appello, di una qualificazione giuridica del rapporto oggetto del giudizio parzialmente diversa da quella effettuata inizialmente, ove basata sui medesimi fatti (Cass., 7743/2017; Cass., 4384/2016).
1.3. Quanto al merito, poiche’ e’ pacifico che i due soci erano accomandatari (cfr. motivazione sentenza della Commissione regionale “trattandosi di soci accomandatari”), trova applicazione il principio giurisprudenziale per cui, nelle societa’ a base personale (nella specie societa’ in accomandita semplice), la carica di amministratore unico e’ incompatibile con la posizione di lavoratore subordinato della stessa, in quanto non possono in un unico soggetto riunirsi la qualita’ di esecutore subordinato della volonta’ sociale e quella di organo competente ad esprimere tale volonta’ (Cass., sez. L., 22 marzo 2013, n. 7321). Infatti, la costituzione e l’esecuzione del rapporto lavorativo subordinato devono essere collegabili ad una volonta’ della societa’ distinta da quella dell’amministratore (Cass., 15 settembre 1979, n. 4779; Cass., 17 maggio 1975, n. 1940). Si e’ anche aggiunto che, instaurandosi il rapporto di lavoro subordinato nei confronti dell’amministratore della societa’, nel caso di amministratore unico verrebbe a mancare l’elemento dell’intersoggettivita’, senza il quale e’ inconcepibile la stessa esistenza di tale rapporto giuridico. Cio’ vale a maggior ragione per le societa’ di persone, nelle quali la mancata istituzione di un distinto ente giuridico e la minore spersonalizzazione dei soggetti preposti agli organi sociali fanno apparire ancor piu’ necessaria la distinzione tra i soggetti dei relativi rapporti giuridici (Cass., 3 novembre 1977, n. 4690).
Va, peraltro, considerato che nelle societa’ di persone e’ possibile che il socio conferisca la propria opera ai sensi dell’articolo 2263 c.c., comma 2. Si e’ sul punto affermato da questa Corte che nelle societa’ di persone e’ configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la societa’ e uno dei soci purche’ ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua attivita’ lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte piu’ o meno importanti per la vita della societa’ non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilita’, sicche’ anche quando esse ricorrano e’ comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni (Cass., 16 novembre 2010, n. 23129).
Del resto, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 5, prevede che, per il principio della “trasparenza”, ” i redditi delle societa’ semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice…sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.
Tale norma, dunque, prescinde in modo espresso dalla effettiva percezione degli utili da parte del socio, ponendo una “presunzione legale di percezione degli utili”. Cio’ quale conseguenza logica del principio di “immedesimazione” esistente tra societa’ a base personale e singoli soci, tanto che, rispetto all’Agenzia delle entrate, le societa’ di persone si pongono come uno schermo, dietro il quale operano i soci, che hanno poteri di direzione, di gestione e di controllo, anche quando non ne sono amministratori (Cass., Sez. Un., 8 gennaio 1993, n. 125). Il presupposto di imposta, in questo caso, e’ costituito dal reddito della societa’, ma la relativa obbligazione tributaria cade su ciascun socio, che e’ tenuto al pagamento dell’imposta, non perche’ ha percepito la somma di sua spettanza, ma per il suo status di socio, in quanto beneficia dell’incremento di ricchezza della societa’.
Una volta, venuta meno la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, non si puo’ procedere all’accertamento induttivo dei maggiori ricavi, per l’asserito svolgimento di lavoro irregolare all’interno dell’azienda. Ne’ si puo’ contestate l’omesso versamento delle ritenute, in assenza di rapporto di lavoro subordinato.
2. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata ma, non essendo necessari, ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo’ essere decisa nel merito, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., con l’accoglimento del ricorso originario della contribuente.
3. Le spese dei giudizi dei gradi di merito vanno compensate interamente tra le parti, per la peculiarita’ della controversia. Le spese del giudizio di legittimita’ vanno poste a carico della Agenzia delle entrate, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente.
Compensa interamente tra le parti le spese dei giudizi dei gradi di merito.
Condanna l’Agenzia delle entrate a rimborsare alla contribuente le spese del giudizio di legittimita’ che si liquidano in Euro 2.300,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura forfettaria del 15%, ed accessori di legge.

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