Nell’ambito delle opere edilizie quando è ravvisabile una “ricostruzione”

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|15 dicembre 2020| n. 28612.

Nell’ambito delle opere edilizie – anche alla luce dei criteri di cui all’art. 31, comma 1, lettera d), della legge n. 457 del 1978 (oggi art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001) -, è ravvisabile una “ricostruzione”, quando l’opera di modifica dell’edificio preesistente si traduce non soltanto nell’esatto ripristino della costruzione precedente, ma anche nella riduzione della volumetria rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio; è ravvisabile, viceversa, una “nuova costruzione”, quando l’opera di modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio preesistente che ne comporti un aumento della volumetria, con la conseguenza che solo all’ipotesi di “nuova costruzione” è applicabile la disciplina in tema di distanze ai sensi dell’art. 873 c.c. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha qualificato come “ricostruzione” un manufatto – nella specie una tettoia-veranda – che presentava, rispetto a quello preesistente, un decremento della superficie, tanto da determinare un aumento del distacco dal confine di 40 cm).

Ordinanza|15 dicembre 2020| n. 28612

Data udienza 2 ottobre 2020

Integrale

Tag/parola chiave: Distanze legali – Realizzazione di manufatti abusivi in violazione delle distanze – Operatività dell’art. 873 c.c. – Reiterazione di censure già scrutinate nel giudizio di merito – Genericità ed apoditticità dei motivi di censura – Rigetto

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere

Dott. ABETE Luigi – Consigliere

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 2999/2016 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 3745/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 02/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

FATTI DI CAUSA

1. (OMISSIS) citava in giudizio presso il Tribunale di Latina (OMISSIS) sua confinante di un villino sito in fondi, localita’ (OMISSIS). L’attrice assumeva che la convenuta negli anni aveva realizzato molteplici abusi edificando in violazione delle distanze legali e del diritto di veduta e di panorama di cui ella aveva sempre goduto e in particolare per una tettoia ricostruita nel 1996 in modo abusivo in violazione delle distanze.
2. La convenuta (OMISSIS) si costituiva in giudizio e spiegava domanda riconvenzionale volta ad accertare che l’attrice aveva costruito il proprio fabbricato a distanza inferiore a quello legale e aveva illecitamente realizzato una porzione di muro sul terreno della convenuta.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale rigettava entrambe le domande compensando le spese tra le parti.
3. L’attrice (OMISSIS) proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
4. L’appellata spiegava a sua volta appello incidentale.
5. La Corte d’Appello di Roma rigettava entrambe le impugnazioni. In particolare, rigettava l’eccezione di nullita’ della consulenza tecnica d’ufficio ed evidenziava che oggetto dell’appello era quanto realizzato nel 1996 rispetto al fabbricato preesistente, ai fini dell’applicazione del cosiddetto criterio di prevenzione.
La Corte d’Appello evidenziava che l’accertamento sulla reale consistenza dei luoghi era stata estremamente difficoltoso anche per il fatto che entrambe le parti avevano nei tempo realizzato numerose violazioni della normativa urbanistica ponendo in essere numerosi abusi poi oggetto di pratiche di condono. Dall’esame della consulenza tecnica e dai numerosi documenti ad essa allegati era emerso che l’edificio realizzato dalla (OMISSIS) risaliva al 1962 e gia’ prima del 1968 era dotato di una tettoia, successivamente chiusa e trasformata in veranda. Risultava, dunque, accertato che, gia’ prima del 1968, e quindi della costruzione dell’edificio di proprieta’ della appellante, l’appellata aveva gia’ eseguito sulla sua costruzione adibita a studio di scultura diverse opere senza alcun titolo autorizzativo, tra cui una sopraelevazione della parte destra e la realizzazione di una tettoia aperta, fronte mare, in struttura lignea sorretta da pilastri, con una parte sporgente verso il lotto confinante di proprieta’ della (OMISSIS).
La tettoia all’origine era sorretta da pali di legno infissi al suolo sicche’ la stessa aveva caratteristiche quali la stabilita’ e l’immobilizzazione al suolo essenziali per essere considerata a tutti gli effetti una costruzione, con tutto cio’ che ne conseguiva sul piano della disciplina delle distanze legali. La suddetta tettoia nel corso del tempo era stata oggetto di interventi di natura edilizia tanto da essere menzionata anche in una domanda di condono presentata nel 1986. Nel (OMISSIS) la (OMISSIS), al fine di provvedere alla ricostruzione della tettoia oramai gia’ trasformata in veranda e crollata a seguito di alcuni eventi atmosferici, aveva dato inizio ad un’attivita’ di ripristino che era stata oggetto di denuncia dell’appellante con conseguente sequestro da parte della Procura della Repubblica di Latina. In tale occasione erano stati effettuati tre sopralluoghi, due dei quali da parte dell’architetto (OMISSIS). All’esito di tale indagine era emerso che l’attivita’ edilizia intrapresa dall’appellata era in realta’ un restauro della veranda coperta e che era in corso di realizzazione una tettoia che era stata abbassata di circa 1 metro nella parte piu’ vicina alla proprieta’ dell’appellante, con riduzione anche della volumetria attraverso un abbassamento di circa 1,30 metri e una riduzione delle dimensioni in pianta con conseguente aumento del distacco del confine di circa 40 cm. Tale riduzione era apparsa evidente al consulente anche per la presenza dei ruderi di una preesistente parete muraria piu’ vicina al confine come dai documenti allegati.
Sulla base di tali considerazioni il consulente della procura aveva ritenuto che gli ulteriori interventi eseguiti dalla (OMISSIS) erano intervenuti tra il 1968 e il 1992. Pertanto, come gia’ ritenuto dal Tribunale, l’attivita’ edilizia intrapresa nel 1996 dalla (OMISSIS), concernente la tettoia gia’ trasformata in veranda, non poteva considerarsi come nuova costruzione, essendo limitata alla sola effettuazione di lavori di restauro e manutenzione straordinaria relativi ad un precedente crollo per acclarati motivi atmosferici, lavori che avevano comportato una riduzione di altezza e cubatura rispetto alla precedente veranda crollata. Pertanto, trattandosi di un manufatto avente dimensioni inferiori rispetto a quelle che caratterizzavano l’originaria struttura doveva ritenersi che le norme sulle distanze legali vigenti all’epoca della realizzazione erano state rispettate.
Con riferimento al mancato riconoscimento della tutela risarcitoria era da escludersi non essendosi verificata alcuna violazione delle norme sulle distanze legali mentre per quanto riguardava il diritto di panorama non era configurabile sia in ragione dell’esistenza, sin dall’origine, di una visuale parzialmente coperta determinata dalla preventiva costruzione del fabbricato del muro di confine della (OMISSIS) sia della mancata rilevazione di concrete opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che consentiva una semplice veduta.
Anche l’appello della (OMISSIS) doveva essere rigettato non essendovi stata alcuna abusiva realizzazione o sconfinamento da parte dell’appellante.
5. (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di sette motivi.
6. (OMISSIS) e’ rimasta intimata.
7. La Ricorrente con memoria depositata in prossimita’ dell’udienza ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in giudicando per violazione e falsa applicazione della disciplina stabilita dall’articolo 873 c.c., L. n. 765 del 1967, articolo 17, comma 1, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, errata qualificazione giuridica della originaria tettoia come struttura rilevante ai sensi dell’articolo 873 c.c..
La censura attiene alla parte della sentenza che ha ritenuto che la tettoia esistente prima dell’intervento del 1996 potesse ritenersi come costruzione rilevante ai fini della disciplina delle distanze legali per essere stabilmente immobilizzata ai suolo. Il ricorrente richiama l’articolo 873 c.c., evidenziando che, ai fini dell’applicazione della disciplina sulle distanze, e’ necessario che sussista un’opera preesistente che possa assumere rilevanza concreta in relazione alle norme sulle distanze. Nel caso in esame, secondo la ricorrente, la tettoia esistente alla data di edificazione dell’immobile acquistato dalla ricorrente nel 1968 era costituita da esili pilastri in legno senza fondamenta, senza una solida copertura, coperta da una mera incappucciata e priva dei necessari requisiti di solidita’. Pertanto, la stessa non poteva ritenersi idonea a creare volumi ed intercapedini pericolose non essendo neanche collegata all’edificio principale con la conseguenza che non poteva costituire ne’ un volume a se’ stante, essendo priva di una copertura stabile, ne’ un prolungamento del volume dell’edificio principale a quale non era collegata. Dunque, l’opera in esame non era una struttura edilizia rilevante ai fini delle distanze non avendo le caratteristiche tecnico-giuridiche e costruttive per essere annoverata tra le costruzioni.
2. Il secondo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in giudicando per violazione e falsa applicazione dell’articolo 873 c.c., articolo 875 c.c., L. n. 457 del 1978, articolo 31, comma 1, lettera b) e c), oltre che del Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9, comma 1, n. 2, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato la disciplina sulla manutenzione straordinaria di recupero conservativo ad opere che avevano comportato un mutamento della sagoma originaria delle altezze e dei prospetti e della cubatura.
La ricorrente, contrariamente a quanto stabilito dalla Corte territoriale, ritiene che gli interventi eseguiti dalla (OMISSIS) sull’originaria tettoia, poi trasformata nel corso della ricostruzione posta in essere tra il mese di aprile e il mese di maggio del 1996, non potevano essere inquadrati nell’ambito della disciplina relativa ai lavori di restauro e manutenzione straordinaria avendo di contro determinato l’edificazione di un’opera nuova non riconducibile alla vecchia originaria tettoia esistente all’atto dell’edificazione del fabbricato. Pertanto, doveva essere rispettata la disciplina sulle distanze legali per le nuove costruzioni sopravvenuta e, dunque, doveva disporsi l’abbattimento o all’arretramento dell’opera. Richiamati gli articoli 873 e 875 c.c., secondo il ricorrente l’allora vigente della L. n. 457 del 1988, articolo 31, comma 1, stabiliva che per il restauro o manutenzione straordinaria non dovevano essere alterati i volumi e le superfici delle singole unita’ immobiliari ne’ modificata la destinazione d’uso. Nella specie, invece, vi era stata una modifica del volume e dell’altezza. Dunque, le due costruzioni succedutesi erano del tutto diverse e la nuova non poteva essere riconducibile a quella preesistente e non era configurabile una manutenzione straordinaria o un restauro conservativo. Peraltro, la struttura si era rialzata di circa 2 mt. rispetto all’originaria costruzione come accertato dai vigili urbani rispetto invece a quanto accertato dall’architetto (OMISSIS).
Pertanto, trattandosi di una nuova costruzione doveva applicarsi la normativa in materia di distanze vigente all’epoca di attuazione della stessa di talche’, essendo vigente il nuovo piano regolatore del comune di Fondi che richiamava espressamente l’applicazione della disciplina sulle distanze stabilite dal Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, l’edificio ricadeva in una zona di fatto inedificabile ad eccezione di strutture precarie.
Sulla base delle misurazioni effettuate dal consulente tecnico d’ufficio il lato piu’ alto della veranda edificata dalla (OMISSIS) aveva una distanza dall’edificio della ricorrente di soli 9,50 m e il lato piu’ basso di soli 5,60, pertanto dovrebbe farsi applicazione dell’articolo 9, comma 1, n. 2, del citato decreto ministeriale che prevede una distanza di 10 mt. tra le nuove costruzioni.
2.1 I primi due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono infondati.
In primo luogo, deve evidenziarsi che il giudizio espresso dalla Corte d’Appello circa la sussistenza dei requisiti essenziali per attribuire la qualifica di costruzione alla tettoia preesistente le modifiche apportate dalla controricorrente non puo’ essere sindacato in questa sede, essendo un giudizio di fatto. Il ricorrente censura la violazione dell’articolo 873 c.c., ma in realta’ richiede un’inammissibile rivalutazione delle caratteristiche strutturali del manufatto gia’ esaminate dal giudice di merito con ampia e congrua motivazione.
In particolare, la Corte d’Appello ha evidenziato che dalla consulenza tecnica era emerso che, sin dal 1968, la (OMISSIS) aveva realizzato una tettoia in struttura lignea, sorretta da pali di legno infissi al suolo, tale da avere sin dall’origine le caratteristiche di stabilita’ e di immobilizzazione al suolo che ne imponevano la qualificazione a tutti gli effetti di costruzione. Tale tettoia, nel corso del tempo, era stata oggetto di vari interventi di natura edilizia che l’avevano trasformata in una veranda che, nel 1992, era crollata a seguito di eventi atmosferici.
Sul punto, la sentenza e’ conforme al consolidato indirizzo di questa Corte sulla nozione di costruzione. Si e’ ripetutamente affermato, infatti, che deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidita’, stabilita’ e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, e cio’ indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno, dall’uniformita’ o continuita’ della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua funzione o destinazione (Cass. n. 20574/2007).
In altri termini, ai fini delle norme codicistiche sulla proprieta’, la nozione di costruzione non e’ limitata a realizzazioni di tipo strettamente edile, ma si estende ad un qualsiasi manufatto, avente caratteristiche di consistenza e stabilita’, per le quali non rileva la qualita’ del materiale adoperato (Cass. n. 4679/2009 in motivazione pag. 6, nonche’ Cass. n. 22127/2009 che ha ritenuto che integrasse la nozione di “costruzione” una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura).
La questione giuridica posta dal secondo motivo riguarda, invece, la possibilita’ di ritenere l’opera posta in essere dalla (OMISSIS) come nuova costruzione piuttosto che intervento di restauro conservativo o di ricostruzione della veranda preesistente.
La peculiarita’ del caso riguarda il fatto che non vi e’ perfetta coincidenza tra la vecchia e la nuova costruzione, in quanto la Corte d’Appello ha accertato che la veranda, nella parte piu’ vicina al confine (OMISSIS), era stata ridotta nella volumetria, tramite un abbassamento di circa 1,30 mt. ed una riduzione delle dimensioni in pianta, con conseguente aumento del distacco dal confine dell’odierno appellante di circa 40 centimetri. Tutti gli interventi di sopraelevazione e modifiche della tettoia erano intervenuti tra il 1968 e il 1992 epoca del crollo. Successivamente lo stato del fabbricato della (OMISSIS) era rimasto identico a quello sopra descritto.
Il quesito cui occorre dare risposta, pertanto, riguarda la possibilita’ di ritenere opera di ricostruzione quella che presenti una riduzione della volumetria rispetto alla costruzione precedente.
Il collegio ritiene che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 3, comma 1, lettera d), (Definizioni degli interventi edilizi) che ha riprodotto la L. n. 457 del 1978, articolo 31, debba essere interpretato nel senso che possa ricondursi alla nozione di ricostruzione, il manufatto che, pur presentando una non perfetta coincidenza con la costruzione preesistente, presenti delle modifiche tali da comportare una riduzione dell’ingombro della sagoma e una diminuzione della volumetria.
L’orientamento consolidato in materia della giurisprudenza di legittimita’, infatti, e’ nel senso che nell’ambito delle opere edilizie – anche alla luce dei criteri di cui alla L. 5 agosto 1978, n. 457, articolo 31, comma 1, lettera d) – la semplice “ristrutturazione” si verifica ove l’intervento edilizio interessi un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali (muri perimetrali, strutture copertura), nel mentre e’ ravvisabile la “ricostruzione” allorche’ dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza variazioni rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti di volumetria. In presenza di tali aumenti si verte, invece, nell’ipotesi di “nuova costruzione”, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima (ex plurimis Sez. 2, Sent. n. 15041 del 2018; Sez. U. Ord. n. 21578 del 2011).
In altri termini, ai fini dell’applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione si deve intendere non solo la realizzazione ex novo di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l’aumento della sagoma d’ingombro, direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti.
Sulla scorta della medesima ratio si e’ anche detto che “In tema di distanze tra costruzioni, ove lo strumento urbanistico locale non contenga una norma espressa che estenda alle “ricostruzioni” le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le “nuove costruzioni”, la disciplina dettata per queste ultime trova applicazione solo relativamente a quella parte del fabbricato ricostruito che eccede i limiti di quello preesistente” (Sez. 2, Sent. n. 472 del 2016) e che la ristrutturazione edilizia, qualora non comporti aumenti di superficie o di volume non configura una nuova costruzione, sicche’ e’ inapplicabile la disciplina in tema di distanze ex articolo 873 c.c. (Sez. 2, Sent. n. 10873 del 2016).
La nozione di ricostruzione nel senso sopra indicato, pertanto, risulta coerente con i precedenti di questa Corte che qualificano come nuova costruzione, ai fini delle distanze tra costruzioni in caso di demolizione e ricostruzione, solo il nuovo manufatto che presenti un aumento della volumetria o un aumento della sagoma di ingombro.
Nella specie, la tettoia-veranda ricostruita dalla (OMISSIS) presenta una volumetria ridotta rispetto a quella preesistente e una riduzione dell’ingombro della sagoma, tanto da determinare un aumento del distacco dal confine della (OMISSIS) di 40 cm.
Deve, dunque, confermarsi la decisione della Corte d’Appello di Roma in quanto il manufatto in oggetto deve ricondursi alla nozione di ricostruzione, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, citato articolo 3, riconoscendo il diritto della (OMISSIS) a mantenere la medesima distanza dal confine dell’opera preesistente, ricostruita nel rispetto delle distanze con riferimento all’area di sedime, al volume
e all’altezza preesistenti.
Deve anche sottolinearsi che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 2 bis, e’ stato modificato dal Decreto Legge 18 aprile 2019, n. 32, articolo 5, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 giugno 2019, n. 55, con l’aggiunta del comma 1 ter, comma successivamente, sostituito dal Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, articolo 10, comma 1, lettera a), convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.
L’attuale del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 2 bis, comma 1-ter, prevede che: “In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione e’ comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti”.
In estrema sintesi la modifica introdotta, in deroga ai limiti di distanza tra fabbricati, prevede la possibilita’ che possano rientrare nella nozione di “ricostruzione” opere che aumentano il volume o modificano la sagoma dell’opera da ricostruire, purche’ mantengano le distanze preesistenti.
La decisione della Corte d’Appello che ha riconosciuto la continuita’ tra la precedente costruzione e quella nuova posta in essere dalla (OMISSIS), escludendo che potesse qualificarsi come nuova costruzione ai fini della disciplina delle distanze, e’ conforme anche alla citata modifica normativa.
3. Il terzo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in giudicando e in procedendo per violazione dell’articolo 132 c.p.c., n. 4, e articolo 118 disp. di att. c.p.c. – nullita’ o inesistenza della sentenza per motivazione inesistente, apparente, contraddittoria o comunque fornita per mera relazione alla sentenza di primo grado e alla consulenza dell’architetto (OMISSIS).
La ricorrente lamenta che la motivazione della Corte d’Appello sia stata svolta mediante un mero ed asettico richiamo a quanto affermato dal Tribunale di primo grado e dal tecnico (OMISSIS). La Corte d’Appello avrebbe, invece, dovuto chiarire le ragioni sulla base delle quali, a fronte dei motivi di censura sollevati in sede di gravame, aveva ritenuto di confermare il contenuto della sentenza di primo grado. Tra l’altro aveva ritenuto di annoverare tra gli interventi di manutenzione straordinaria anche la sopraelevazione dell’edificio sebbene tali interventi erano stati qualificati dal consulente tecnico d’ufficio di primo grado come opere nuove, seppure non databili. La Corte d’Appello, dunque, non avrebbe dovuto respingere la censura sollevata in appello con motivazione apparente e svincolata dalla realta’ processuale.
4. Il quarto motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in giudicando per omesso esame circa fatto decisivo il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
La Corte d’Appello non avrebbe valutato la natura della sopraelevazione dell’edificio A e dell’annessa tettoia posta in essere dalla resistente in epoca successiva alla realizzazione del fabbricato della ricorrente. A parere della ricorrente vi era la prova che tali opere erano state effettuate in epoca successiva al 1968 e che avrebbe dovuto trovare applicazione il Decreto Ministeriale n. 1444 del 1968, articolo 9.
5. Il quinto motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in procedendo e in giudicando per violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 195 c.p.c. e articolo 2712 c.c..
La censura attiene alla motivazione circa le ragioni per le quali in base alla valutazione delle prove emerse dall’istruttoria poteva ritenersi che la tettoia costruita a seguito della demolizione coincidesse con quella preesistente, cosi’ accogliendo supinamente le conclusioni errate contenute nell’elaborato peritale del consulente tecnico d’ufficio, architetto (OMISSIS). La Corte d’Appello si sarebbe, dunque, allineata a tali conclusioni senza motivare in maniera concreta e adeguata in relazione alle copiose risultanze istruttorie di segno contrario. Si censura, pertanto, la palese inesistenza di una coerenza logica interna alla motivazione della sentenza alla luce del lacunoso processo valutativo operato dal giudicante. Il ricorrente riporta una serie di elementi gia’ presenti agli atti del giudizio di merito dai quali, a suo parere, emergerebbe la non corrispondenza della tettoia ricostruita rispetto a quella preesistente. Inoltre, sarebbe immotivato anche l’assunto secondo il quale la sopraelevazione dell’edificio A, era avvenuta in data anteriore all’edificazione dell’edificio confinante ed in epoca non databile mentre dalle fotografie allegate emergeva la sua riferibilita’ ad epoca successiva. La corte territoriale, pertanto, indotta in errore dalle inesattezze sostenute dal consulente avrebbe errato nel valutare le prove assunte nel giudizio di merito, adottando una sentenza illogica e contraddittoria, contrastante con le risultanze probatorie.
6. Il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Deve premettersi che a seguito della riforma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e’ denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in se’, purche’ il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014).
Ne consegue che non possono essere sollevate doglianze, per censurare, ai sensi dell’articolo 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorieta’ delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio e’ deducibile quale violazione della legge processuale ex articolo 132 c.p.c.).
Quanto alla censura di motivazione per relationem rispetto alla sentenza di primo grado e al richiamo alla consulenza dell’architetto (OMISSIS) deve richiamarsi l’orientamento consolidato secono cui “La sentenza d’appello puo’ essere motivata per relationem, purche’ il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identita’ delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle gia’ esaminate in primo grado, sicche’ dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame” (Sez. 1, Ord. n. 20883 del 2019).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha svolto una motivazione in gran parte autonoma rispetto a quella di primo grado pur richiamata. Tale motivazione e’ esaustiva e idonea ad esplicitare il percorso logico interpretativo operato dal giudicante.
In particolare, la Corte d’Appello ha chiarito in premessa che l’accertamento sulla reale consistenza dei luoghi e sulle modifiche intervenute nel corso di circa quaranta anni si presentava estremamente difficoltoso, anche in ragione del fatto che entrambe le parti, nel corso del tempo, dimostrando un chiaro disinteresse nei confronti delle norme urbanistiche esistenti, avevano posto in essere una serie di abusi edilizi poi oggetto di varie pratiche di condono ai sensi della L. n. 47 del 1985. Pertanto, le incertezze, non emendabili neanche in via deduttiva attraverso gli accertamenti peritali condotti, non potevano che andare a danno delle parti che, avendo entrambe impugnato la decisione di primo grado, erano gravate dai rispettivi oneri probatori. In particolare, per quel che in questa sede rileva, non era stato possibile accertare con precisione i tempi delle modifiche all’originaria tettoia che nella sua originaria struttura risaliva al 1968.
La motivazione della Corte d’Appello, dunque, sulla databilita’ dei lavori richiama le conclusioni della consulenza tecnica, mentre il ricorrente, anche in questo caso, richiede un’inammissibile rivalutazione in fatto delle risultanze istruttorie.
Il richiamo all’elaborato dell’architetto (OMISSIS) da parte della Corte d’Appello rientra nel suo potere di valutazione degli elementi istruttori, non sindacabile da questa Corte. Il giudice, infatti, ai fini della formazione del proprio convincimento, puo’ utilizzare anche prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse o altre parti, quali utili elementi di giudizio.
Quanto alla violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., al fine di evidenziarne l’infondatezza e tenuto conto di quanto detto in ordine alla motivazione della sentenza impugnata, e’ sufficiente richiamare i seguenti principi di diritto: “Perche’ sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’articolo 132, n. 4 e degli articoli 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse”.
Per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 c.p.c., e’ necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioe’ abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioe’ dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioe’ giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilita’ di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si puo’ ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attivita’ consentita dal paradigma dell’articolo 116 c.p.c., che non a caso e’ rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016). (Cass. S.U. n. 16598/2016).
La deduzione della violazione dell’articolo 116 c.p.c., e’ ammissibile ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonche’, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura e’ consentita ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ne consegue l’inammissibilita’ della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 (Sez. L, Sentenza n. 13960 del 19/06/2014; n. 26965 del 2007).
6. Il sesto motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in giudicando per violazione falsa applicazione degli articoli 872, 1223, 1226, 2043, 2697 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte d’appello errato nel negare il risarcimento del danno richiesto dalla ricorrente in primo grado.
La censura attiene al rigetto della domanda di risarcimento del danno cagionato dalla violazione delle norme sulle distanze legali, circostanza questa che di per se’ comporta l’obbligo di risarcire il danno in favore della parte lesa come conseguenza diretta ed immediata della violazione. Dunque, una volta cassata la sentenza impugnata, la resistente deve essere condannata a risarcire il danno sulla base dei criteri evidenziati dal consulente tecnico d’ufficio.
Sotto un altro profilo la sentenza gravata sarebbe errata per violazione delle norme richiamate nella rubrica del motivo, avendo la ricorrente provato nel giudizio di primo grado come il suo immobile, alla data della sua edificazione, godesse di una visuale diretta sul (OMISSIS) poi coperta ed oscurata dalle sopraelevazioni eseguite dalla signora (OMISSIS).
Il diritto di panorama e’ un elemento accidentale dell’immobile derivante dalla natura delle cose, dalla posizione, dall’esposizione e dall’altezza del piano, esso non puo’ essere diminuito o escluso da una nuova costruzione edificata in contrasto con la disciplina concernente l’assetto del territorio. La Corte d’Appello, dunque, avrebbe errato nel ritenere non sussistente il diritto di panorama connesso alla violazione delle norme sulle distanze legali.
6.1 Il sesto motivo di ricorso e’ inammissibile.
Sulla base della stessa prospettazione del ricorrente l’accoglimento del motivo presuppone l’accertamento della violazione da parte della (OMISSIS) della disciplina delle distanze legali. Sicche’ al rigetto dei primi cinque motivi segue necessariamente l’inammissibilita’ del sesto.
7. Il settimo motivo di ricorso e’ cosi’ rubricato: errore in procedendo per violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 196 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 4, per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciarsi sulla richiesta di rinnovazione della CTU sollevata come motivo di appello nel corso della fase di merito di secondo grado.
Con il quinto motivo di appello il ricorrente aveva censurato la consulenza tecnica espletata nel giudizio di primo grado oltre che per violazione dell’articolo 61 c.p.c., anche per nullita’ per non aver dato il consulente riscontro ai quesiti posti dal giudice. La Corte d’Appello non si sarebbe pronunciata su questo aspetto in tal modo violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
7.1 Il settimo motivo e’ infondato.
In disparte il difetto di specificita’ del motivo di ricorso per cassazione, non avendo il ricorrente riportato in dettaglio il quinto motivo di appello, deve comunque rilevarsi che la Corte d’Appello ha espressamente esaminato il suddetto quinto motivo di appello a pag. 10 della sentenza impugnata, rigettando l’eccezione di nullita’ della consulenza tecnica espletata nel giudizio di primo grado. Il ricorrente asserisce di aver censurato la consulenza tecnica anche perche’ non aveva risposto ai quesiti, ma il rigetto della suddetta censura, ove ritualmente proposta, sarebbe comunque implicito nella motivazione della sentenza sopra riportata.
In proposito deve ribadirsi che: “La consulenza tecnica non costituisce in linea di massima mezzo di prova bensi’ strumento di valutazione della prova acquisita, ma puo’ assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche. D’altro canto, il consulente d’ufficio, pur in mancanza di espressa autorizzazione del giudice puo’, ai sensi dell’articolo 194 c.p.c., comma 1, assumere informazioni da terzi e procedere all’accertamento dei fatti accessori costituenti presupposti necessari per rispondere ai quesiti postigli, ma non ha il potere di accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incombe sulle parti, e, se sconfina dai limiti intrinseci al mandato conferitogli tali accertamenti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio, e, pertanto, privi di qualsiasi valore probatorio, anche indiziario” (ex plurimis Sez. 3, Sent. n. 1020 del 2006).
Sul punto, dunque, la motivazione della Corte d’Appello risulta ampiamente esaustiva, avendo chiarito che le parti non avevano dato adeguata prova dell’epoca di svolgimento dei lavori come rilevato anche dal consulente tecnico.
8. Il ricorso e’ rigettato, non deve procedersi alla liquidazione delle spese, non essendosi costituita in giudizio la controparte intimata.
9. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *