Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza del 22 gennaio 2013, n. 3196
Ritenuto in fatto
G.D.S. ricorre avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Trieste aveva confermato la condanna dell’imputato alla pena di mesi 4 di reclusione ed Euro 200,00 di multa, a lui inflitta con sentenza del Tribunale di Udine del 03/10/2008, all’esito di giudizio abbreviato.
I fatti si riferiscono al furto di una bicicletta, che l’imputato è accusato di avere sottratto a tale A.S. : il mezzo, stando alla rubrica, risultava essere stato parcheggiato sulla pubblica via.
Nella motivazione della pronuncia, la Corte territoriale dava atto di disattendere i motivi di appello presentati, con particolare riguardo alla dedotta non configurabilità nel caso di specie sia dell’aggravante ex art. 625 n. 7 cod. pen. (in proposito, l’imputato aveva invocato il difetto della necessaria condizione di procedibilità, mancando la querela per il reato di furto semplice) sia dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 dello stesso codice.
I giudici di secondo grado segnalavano, sul primo aspetto, l’esistenza di una recente pronuncia di legittimità secondo la quale l’aggravante per esposizione consuetudinaria alla pubblica fede del bene trafugato non potrebbe ravvisarsi nel caso di furto di una bicicletta lasciata senza custodia in una pubblica via, essendo al contrario normale condotta – per un ciclista che si allontani dal velocipede onde provvedere ad incombenze più o meno prolungate – quella di assicurare il mezzo con la chiave di chiusura in dotazione o con una catena antifurto (Cass., Sez. V, n. 8450 del 17/01/2006, Smopech); esprimevano tuttavia adesione al più rigoroso orientamento – riportando in proposito una sentenza della Sezione II di questa Corte risalente agli anni Sessanta – che vuole invece configurabile detta aggravante in fattispecie come quella in esame. Oltre a richiamare gli argomenti a suo tempo evidenziati, fondati sulla considerazione empirica che una bicicletta dovrebbe pur sempre rimanere parcheggiata in strada, stante l’impossibilità per il proprietario di portarla con sé all’interno di case o negozi altrui, la Corte di appello osservava che “del tutto presunta è la consuetudine di assicurare le biciclette con la chiave o con una catena, assai più frequente essendo l’evenienza contraria, tutte le volte che la si lasci per brevi periodi, per veloci commissioni, ovvero, come nel caso di specie, in orario diurno, in zona del centro cittadino soggetta al transito di persone e veicoli”. Sottolineava altresì che per consolidata giurisprudenza l’aggravante di cui all’art. 625 n. 7 cod. pen. deve intendersi sussistente, nelle ipotesi di furto di autovetture, proprio quando il veicolo sia parcheggiato senza custodia ed anche qualora abbia le portiere aperte, dovendosi semmai escludere la circostanza de qua in presenza di dispositivi antifurto sull’auto in sosta; conclusioni che, in definitiva, non vi era ragione di diversificare per le biciclette, trattandosi di situazioni del tutto analoghe.
In relazione al presunto danno patrimoniale di lieve entità, per quanto l’attenuante fosse stata ritenuta applicabile anche dal Procuratore generale in sede di discussione, la Corte di appello manifestava contrario avviso, stante il valore di 90/00 Euro del bene rubato, considerato “eccedente il limite entro il quale il danno può valutarsi di speciale tenuità”.
Il ricorso del D.S. è articolato in due motivi.
Con il primo, il ricorrente torna a sollecitare la derubricazione dell’addebito in quello di furto semplice, ritenendo erronea l’applicazione dell’art. 625 n. 7 cod. pen. come interpretato dalla Corte territoriale. Al fine di ribadire gli argomenti già sostenuti nell’atto di appello, riproduce pressoché integralmente la motivazione della sentenza di questa Sezione n. 8450 del 2006, già citata in precedenza.
Con il secondo motivo, invoca nuovamente l’applicazione dell’attenuante prevista dall’art. 62 n. 4 cod. pen. (sottolineando anche a tal fine l’erronea applicazione della legge penale da parte dei giudici di appello), emergendo nella fattispecie concreta una assai modesta offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, vuoi in relazione alle modalità della condotta che alle condizioni patrimoniali del soggetto passivo.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Invero, quanto al problema della configurabilità o meno dell’aggravante ex art. 625 n. 7 cod. pen. in fattispecie concrete come quella in esame, si registra un ulteriore e più recente intervento di questa Corte (Sez. IV, n. 38532 del 22/09/2010, Catone), in senso conforme alla tesi prospettata dal ricorrente. In quest’ultima pronuncia, premesso che il caso riguardava appunto la sottrazione di una bicicletta lasciata incustodita su una strada pubblica, priva di qualsiasi congegno di sicurezza, si legge che “deve trovare applicazione non già il risalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità evocato nella decisione impugnata, bensì quello più recente, cui il Collegio ritiene di aderire, secondo cui non sussiste l’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7 – sub specie di esposizione per consuetudine alla pubblica fede – nel caso in cui si verifichi il furto di una bicicletta, abbandonata senza alcuna custodia in una pubblica via, in quanto la consuetudine di cui al succitato art. 625, comma 1, n. 7 designa la pratica di fatto rientrante negli usi e nelle abitudini sociali, desunta sulla base di condotte verificate come ripetitive in un ampio arco temporale e tali, pertanto, da essere riconducibili a notorietà” (Sez. V, n. 8450 del 17/01/2006 Cc. – dep. 10/03/2006 – Rv. 233765, P.G. in proc. Smopech); i presupposti indicati nella decisione, appena citata, di questa Corte, ai fini della configurabilità dell’aggravante in argomento, non risultano integrati nella concreta fattispecie, in quanto non può certo qualificarsi come “radicata abitudine del ciclista” quella di lasciare la propria bicicletta sulla pubblica via senza avere cura di assicurarla mediante l’utilizzo della chiave di chiusura in originaria dotazione ovvero della catena antifurto ordinariamente commercializzata come accessorio”.
Pur dovendosi dare atto di tale più recente, e ribadito, orientamento interpretativo, ritiene tuttavia il collegio di aderire alla tesi contraria, conformemente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale nella sentenza oggi impugnata. Il riferimento alla possibile rilevanza di una “radicata abitudine”, sulla sussistenza o meno della quale ipotizzare la configurabilità dell’aggravante in parola, dimostra infatti che l’approccio ermeneutico di cui alla pronuncia appena richiamata si fonda sul rilievo della consuetudine, quale fattore che determini l’esposizione del bene alla pubblica fede (la sentenza Smopech del 2006 è, sul punto, ancor più esplicita): ma non è chi non veda come la lettera dell’art. 625, n. 7, cod. pen. intenda conferire rilevanza, in alternativa alla consuetudine, anche a situazioni di necessità o di obiettiva destinazione della cosa.
Nel caso di una bicicletta, a ben guardare, non è un comportamento più o meno consolidato negli usi delle persone a giustificarne l’esposizione alla pubblica fede, quando il detentore l’abbia impiegata come mezzo di trasporto per raggiungere una destinazione diversa dalla propria abitazione e relative pertinenze (un negozio, un ufficio, l’appartamento di un conoscente, oppure – come nella fattispecie concreta qui in esame – una biblioteca), bensì la pratica necessità che egli la lasci lungo la pubblica via, essendo certamente impossibilitato a portarsela dietro. Può esservi o non esservi consuetudine, semmai, nell’apprestare sistemi di tutela contro il furto, appunto per impedire che altri se ne impossessino: ma ciò non implica conseguenze di sorta sull’indefettibile e presupposta necessità che il veicolo rimanga esposto alla pubblica fede, e non già perché esiste una consolidata abitudine in tal senso, bensì perché non sarebbe possibile fare altrimenti, quanto meno per elementare ragionevolezza (un ciclista potrebbe anche sollevare la sua bici da corsa o mountain bike e salire le scale di un palazzo, ma si tratterebbe di condotta francamente assurda).
Sembra dunque pertinente il richiamo ad altro precedente di questa Sezione, laddove si intese distinguere la nozione di “necessità” di cui all’art. 625 n. 7 – per quanto da leggere in senso relativo, includendo ogni apprezzabile esigenza per l’adozione di condotte imposte da situazioni anche contingenti, in contrapposizione agli opposti concetti di comodità e trascuratezza nella vigilanza – rispetto ad una “consuetudine” da intendersi quale pratica di fatto generale e costante, ancorché non vincolata da esigenze imprescindibili (Cass. Sez. V, n. 14978 del 24/03/2005, Rahmouni).
Una bicicletta, in definitiva, deve intendersi esposta per necessità, e non già per consuetudine, alla pubblica fede quando il detentore la parcheggi per una sosta momentanea lungo la strada, così determinando l’operatività dell’aggravante più volte ricordata in capo a chi se ne impossessi: aggravante che potrebbe semmai non ricorrere solo laddove il detentore abbia inteso proteggere il velocipede mediante sistemi antifurto (la cui effrazione potrebbe determinare la configurabilità di aggravanti diverse), pratica – questa sì – che potrebbe derivare da ragioni consuetudinarie.
Ciò analogamente a quanto ritenuto dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia di autoveicoli, con indicazioni alle quali – secondo la logica ricostruzione operata dai giudici di merito nella presente vicenda processuale – non sarebbe ragionevole disconoscere adeguatezza e pertinenza anche a proposito di biciclette.
È infatti pacifico che l’aggravante di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen. sussista, “in caso di furto di autovettura lasciata incustodita sulla pubblica via, anche se l’autovettura sia stata lasciata con gli sportelli aperti e le chiavi inserite nel cruscotto” (Cass., Sez. III, n. 35872 del 08/05/2007, Alia). È stato altresì affermato che l’aggravante medesima ricorre anche “nel caso di chiusura a chiave delle serrature delle portiere dell’auto parcheggiata sulla pubblica via, in quanto detto accorgimento non costituisce un grave ostacolo all’azione furtiva” (Cass., Sez. V, n. 15583 del 05/02/2004, Di Napoli).
Più di recente, Cass., Sez. IV n. 41561 del 26/10/2010, Taamam, ha segnalato che “solo nel caso in cui l’autovettura sia munita di dispositivi antifurto può ritenersi esclusa l’esposizione del veicolo alla pubblica fede”; Cass., Sez. V, n. 44119 del 19/10/2011, Petralia, precisa peraltro che “sussiste l’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. – sub specie di esposizione della cosa per necessità o per destinazione alla pubblica fede – nel caso in cui il soggetto attivo si impossessi di un’autovettura dotata di antifurto satellitare, il quale, pur attuando la costante percepibilità della localizzazione del veicolo, non ne impedisce la sottrazione ed il conseguente impossessamento, consentendo solo di porre rimedio all’azione delittuosa con il successivo recupero del bene”.
1.2 Circa la ravvisabilità dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen., deve rilevarsi che la Corte di appello di Trieste ha fornito comunque una motivazione adeguata per negarne la ricorrenza in concreto, motivazione non suscettibile di censura in sede di legittimità: il ricorrente lamenta del resto che la lesione del patrimonio arrecata al soggetto passivo sarebbe “di scarsissima intensità” perché “la differenza tra quanto effettivamente pagato dalla persona offesa per la bicicletta e la somma dovuta laddove l’imputato l’avesse comprata è minima se non inesistente”, argomento ictu oculi privo di consistenza perché potrebbe attagliarsi anche a beni di gran pregio, non derivando certamente la speciale tenuità del danno dal mancato decremento di valore della cosa per effetto del decorso del tempo.
Il giudizio di eccedenza del valore di 90,00 Euro rispetto alla soglia del danno patrimoniale di speciale tenuità deve peraltro intendersi espresso dalla Corte territoriale avuto riguardo alle condizioni peculiari del derubato, stante il pur generico richiamo in motivazione alla persona offesa, che nel caso di specie risultava essere uno studente 15enne.
2. Il rigetto del ricorso comporta ex lege la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Depositata in Cancelleria il 22.01.2013
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