La massima
a) Il creditore, in forza di uno stesso titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti del medesimo bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo:
b) che in tal caso non si ha una situazione di litispendenza nel senso previsto dall’art. 39 cod. proc. civ., la cui applicazione postula la pendenza di più cause, aventi in comune le parti, la causa petendi e il petitum, incardinate dinanzi a distinte autorità giudiziarie e non davanti allo stesso giudice;
c) che alla pluralità di procedure così instaurate può ovviarsi con la loro riunione ex art. 493 cod. proc. civ., senza che ciò comporti un pregiudizio per il debitore, poiché, in presenza di un pignoramento reiterato senza necessità, il giudice dell’esecuzione, applicando l’art. 92 cod. proc. civ., può escludere come superflue le spese a tal fine sostenute dal creditore procedente e il debitore può proporre opposizione contro una liquidazione delle spese che si estenda al secondo pignoramento (confr. Cass. civ., 18 settembre 2008, n. 23847; Cass. civ. 16 maggio 2006, n. 11360).
Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza del 24 ottobre 2012, n. 18161
Svolgimento del processo
T. s.p.a. propose opposizione, ex art. 615, primo comma, cod. proc. civ., avverso il precetto notificatole in data 3 giugno 2006 a istanza di C.F.
Assunse che l’atto opposto ripeteva alla lettera altro precedente precetto notificatole dalla creditrice il 24 gennaio 2006, precetto a seguito del quale era stata intrapresa in suo danno una procedura espropriativa presso terzi. Concluse chiedendo che venisse accertato l’esaurimento della procedura esecutiva, con conseguente condanna della precettante per lite temeraria, ex art. 96 cod. proc. civ.
Costituitasi in giudizio, la controparte contestò le avverse deduzioni.
Con sentenza del 18 gennaio 2007 il Giudice di Pace di Roma dichiarò sospeso, nullo e inefficace l’atto di precetto notificato all’opponente da C.F. , condannando la stessa al pagamento delle spese di causa nonché della somma di Euro 1.000,00 per lite temeraria.
Avverso detta pronuncia ricorre per cassazione C.F. , formulando tre motivi.
Resiste con controricorso T. s.p.a.
Motivi della decisione
1.1 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli artt. 479, 480, 483, 491 e 615 cod. proc. civ., 2943 cod. civ. Sostiene che il Giudice di Pace, ritenendo nullo il precetto notificato dopo altro, precedente atto di identico contenuto, avrebbe violato i principi fondamentali in materia esecutiva, secondo cui ben può il creditore notificare al debitore il precetto per l’esecuzione di un titolo sulla cui base abbia già promosso azione esecutiva ancora pendente al momento della notifica del successivo precetto. E ciò tanto più che nella fattispecie ella non aveva richiesto spese ulteriori, rispetto a quelle già indicate nell’atto precedente e sostanzialmente non contestate dall’opponente.
Aggiunge che il precetto è atto meramente prodomico all’esecuzione nonché atto interruttivo della prescrizione, non già atto introduttivo di giudizio, di talché esso può essere notificato dal creditore tutte le volte che lo stesso ne ravvisi l’opportunità. Il Giudice di Pace, dichiarando nullo il precetto, avrebbe altresì violato il disposto dell’art. 483 cod. proc. civ., che riserva al solo giudice dell’esecuzione la comparazione valutativa tra diritto vantato e strumento processuale utilizzato.
1.2 Con il secondo mezzo, lamentando violazione dei principi informatori della materia in tema di responsabilità civile, ex artt. 2043 cod. civ. e 96 cod. proc. civ., la ricorrente si duole che il giudice di merito l’abbia condannata a risarcire a T. pretesi danni derivati dalla notifica dell’atto di precetto omettendo qualsivoglia motivazione al riguardo. In ogni caso la condanna al pagamento di una somma pari a più del doppio del valore del procedimento aveva leso il principio per cui non può essere pronunciata condanna al risarcimento di un danno che non sia ontologicamente provato.
1.3 Con il terzo motivo, infine, l’impugnante chiede che la controparte venga condannata al risarcimento dei danni ex art. 96 cod. proc. civ. – per averla costretta a ricorrere per ben due volte al ministero di un difensore – in misura non inferiore a quella richiesta e ottenuta da T. nel corso del giudizio davanti al Giudice di Pace.
2. Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla resistente. Sostiene T. , sotto un primo profilo, che la proposta impugnazione sarebbe inammissibile in quanto il disposto dell’art. 616 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, sancirebbe l’inappellabilità delle sole sentenze di opposizione all’esecuzione, con esclusione, dunque, di quelle di opposizioni a precetto, e cioè delle opposizioni promosse ai sensi del primo comma dell’art. 615 cod. proc. civ.
Aggiunge che, anche a voler ritenere che la sentenza impugnata sia stata pronunciata dal Giudice di Pace secondo equità, ex art. 113 cod. proc. civ., il proposto ricorso sarebbe ugualmente inammissibile, posto che, con la riformulazione dell’art. 339 cod. proc. civ., scaturita dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la violazione di norme processuali, ovvero di norme costituzionali o comunitarie, ovvero, ancora, dei principi regolatori della materia è ora denunciabile con il rimedio dell’appello.
Sotto altro, concorrente profilo, rileva poi l’esponente che i plurimi quesiti formulati a illustrazione del primo motivo di ricorso difetterebbero di chiarezza e sembrerebbero finalizzati a chiedere alla Corte la mera formulazione di un parere.
3. Le proposte eccezioni sono destituite di fondamento.
La disciplina in tema di inappellabilità, a suo tempo sancita dall’art. 616 cod. proc. civ., è applicabile tanto nei giudizi di opposizione a precetto, quanto in quelli di opposizione a un’esecuzione già iniziata (confr. Cass. civ. 30 aprile 2011, n. 9591; Cass. civ. 29 maggio 2008, n. 14179). Le peculiarità che, in ragione della esistenza di una procedura esecutiva in atto, caratterizzano la fase iniziale della procedura delle opposizioni proposte a norma del secondo comma dell’art. 615 cod. proc. civ., rispetto a quelle proposte a norma del primo comma (comb. disp. artt. 616 cod. proc. civ. e 186 disp. att. cod. proc. civ.), come non incidono sulla natura giuridica del mezzo azionato, che è, e resta, per le une e per le altre, la contestazione dell’an dell’azione esecutiva, e cioè del diritto dell’istante di promuovere l’esecuzione, sia in via assoluta, che relativa (confr. Cass. civ. 13 novembre 2009, n. 24041), sono perciò stesso insensibili alla collocazione logistica della regola dell’inappellabilità olim stabilita dall’art. 616 cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall’art. 14, comma 1, della legge 14 febbraio 2006, n. 52).
4. Peraltro, essendo quest’ultima norma speciale, rispetto all’art. 339, comma terzo, cod. proc. civ. – che sancisce, invece, in via generale l’appellabilità limitata delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità – la sentenza in tema di opposizione all’esecuzione emessa dal giudice di pace deve ritenersi sempre sottratta, nel limitato arco temporale di vigenza della disposizione in discorso, alla disciplina dettata dall’art. 339 cod. proc. civ. (confr. Cass. civ. 29 maggio 2008, n. 14179). Non par dubbio, infatti, che, rispetto al microsistema costituito dalle disposizioni che governano le opposizioni all’esecuzione, il regime giuridico dettato per le sentenze del giudice di pace rappresenta una lex posterior generalis la quale, è ben noto, non deroga i priori speciali.
5 Insussistente è anche l’altro profilo di inammissibilità del ricorso.
È giurisprudenza consolidata di questa Corte che la formulazione di distinti e plurimi quesiti di diritto, in esito all’illustrazione di un unico motivo di ricorso per cassazione, non può ritenersi contrastante, di per sé, con il disposto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., nella versione applicabile ratione temporis, per il solo fatto che questa esige che il motivo si concluda, a pena di inammissibilità, con un quesito (confr. Cass. civ., 9 giugno 2010, n. 13868; Cass. civ. sez. un. 9 marzo 2009, n. 5624; Cass. civ. 29 gennaio 2008, n. 1906). A ciò aggiungasi che, nella fattispecie, i formulati quesiti contengono idonea illustrazione della questione che la Corte è chiamata a risolvere, e, in particolare, della regula iuris applicata dal giudice di merito e di quella, diversa e di segno opposto, del quale la ricorrente sollecita invece l’affermazione.
5 Il ricorso, pienamente ammissibile, per quanto testé detto, è altresì fondato.
È giurisprudenza costante di questo giudice di legittimità, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, che la pendenza del procedimento esecutivo non preclude né rende inutile la reiterazione dell’atto processuale che vi da inizio, al fine di porre al riparo la concreta attuazione della pretesa esecutiva dai possibili insuccessi conseguenti ad eventuali vizi di precedenti atti, ma determina solo la necessità della riunione dei distinti procedimenti, in tal modo instaurati innanzi al medesimo ufficio giudiziario, ai sensi dell’art. 273 cod. proc. civ. Ne deriva che il creditore può validamente notificare al debitore il precetto per l’esecuzione di un titolo esecutivo sulla base del quale egli abbia già promosso azione esecutiva ancora pendente nel momento della notifica del successivo precetto (confr. Cass. civ. 2 marzo 2007, n. 4963; Cass. civ. 22 luglio 1991, n. 8164).
Nella medesima prospettiva è stato del resto reiteratamente affermato: a) che il creditore, in forza di uno stesso titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti del medesimo bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo: b) che in tal caso non si ha una situazione di litispendenza nel senso previsto dall’art. 39 cod. proc. civ., la cui applicazione postula la pendenza di più cause, aventi in comune le parti, la causa petendi e il petitum, incardinate dinanzi a distinte autorità giudiziarie e non davanti allo stesso giudice; c) che alla pluralità di procedure così instaurate può ovviarsi con la loro riunione ex art. 493 cod. proc. civ., senza che ciò comporti un pregiudizio per il debitore, poiché, in presenza di un pignoramento reiterato senza necessità, il giudice dell’esecuzione, applicando l’art. 92 cod. proc. civ., può escludere come superflue le spese a tal fine sostenute dal creditore procedente e il debitore può proporre opposizione contro una liquidazione delle spese che si estenda al secondo pignoramento (confr. Cass. civ., 18 settembre 2008, n. 23847; Cass. civ. 16 maggio 2006, n. 11360).
6 Non è superfluo peraltro evidenziare che la ricorrente ha a più riprese ribadito, nella piena osservanza del principio dell’autosufficienza, che nel secondo atto non furono mai chieste, pendente iudicio executionis, spese ulteriori rispetto a quelle già indicate nel precedente precetto. Né la resistente T. ha mai contestato tale affermazione.
Ne deriva che, in accoglimento del primo motivo di ricorso, nel quale resta assorbito l’esame del secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata.
Non ostando alla decisione della causa nel merito la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, in applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., rigetta l’opposizione. Non ricorrono invece i presupposti per la richiesta condanna della resistente al risarcimento dei danni, ex art. 96 cod. proc. civ..
Si ricorda, in proposito, che la domanda di condanna per responsabilità processuale aggravata, quale sanzione dell’inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è sempre tenuta, è sì proponibile per la prima volta in sede di legittimità, in relazione a danni che si riconnettono esclusivamente al giudizio di cassazione, ma non può mai derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate, occorrendo la deduzione e la dimostrazione, da parte del richiedente, della ricorrenza, nel comportamento dell’avversario, del dolo o della colpa grave, e cioè o dell’ignoranza colpevole, in quanto derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, o della consapevolezza dell’infondatezza delle proprie tesi.
A ciò aggiungasi che il suo accoglimento richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell’an sia del quantum debeatur ovvero l’allegazione che tali elementi, pur essendo la liquidazione effettuabile d’ufficio, siano in concreto desumibili dagli atti di causa (confr. Cass. civ. 30 giugno 2010, n. 15629; Cass. civ. 8 giugno 2007, n. 13395).
Nella fattispecie siffatti oneri deduttivi e probatori sono rimasti completamente inadempiuti.
Ne deriva che la condanna della soccombente deve essere limitata alla rifusione delle sole spese di causa, liquidate nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione; condanna la resistente al pagamento delle spese di giudizio di primo grado, liquidate in Euro 540,00 (di cui Euro 20 per esborsi), nonché di quelle del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.200,00 (di cui Euro 1.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, come per legge.
Depositata in Cancelleria il 24.10.2012
Leave a Reply