La massima
È configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa altrui, adoperi violenza o minaccia per procurare a se o ad altri l’impunità.
Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Penali
sentenza del 12 settembre 2012, n. 34952
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 19 settembre 2011, rigettava la richiesta di riesame proposta nell’interesse di R.B. avverso l’ordinanza in data 5 settembre 2011 del Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale che aveva applicato al medesimo la misura cautelare della custodia in carcere.
A carico del R. il Pubblico ministero aveva richiesto l’applicazione di detta misura cautelare in ordine al reato di cui agli artt. 99, 110, 61 n. 5, 56, 628, commi 2 e 3, nr. 1 e 3-bis cod. pen., perché, in concorso con altri, al fine di profitto, introducendosi all’interno dell’abitazione dei coniugi V. in (omissis) , compiva atti idonei e diretti in modo non equivoco ad impossessarsi dei beni ivi presenti e, quindi, usava violenza nei confronti di V.G. , nel frattempo entrata nell’abitazione, per guadagnare la fuga e l’impunità. In particolare il R. le metteva una mano sulla bocca per non farla gridare mentre altro correo la teneva ferma da dietro; intimandole i concorrenti di rimanere in silenzio, e spingendola quindi all’interno dell’appartamento, dandosi poi tutti alla fuga.
Il Tribunale, oltre ad affermare la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, il quale era stato riconosciuto dalla vittima ed aveva ammesso i fatti, e a reputare sussistente il pencolo di reiterazione del reato, stante la particolare proclività al delitto del R. , riteneva corretta la qualificazione giuridica dei fatti quale rapina impropria nella forma tentata, dichiarando di aderire all’orientamento giurisprudenziale costante e prevalente espresso, ex plurimis, da Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011, espressamente citata, secondo il quale è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Nel caso di specie, la parte offesa aveva dichiarato che, rientrata a casa dopo una passeggiata con i cani, trovava la propria abitazione a soqquadro e, all’interno, tre individui che la bloccavano e le mettevano una mano davanti alla bocca intimandole di non gridare e, dopo averla spinta, si davano alla fuga.
Sulla base di tale ricostruzione dei fatti, il Tribunale riteneva indubbio che l’indagato avesse compiuto atti idonei e univocamente diretti ad impossessarsi dei beni presenti nell’appartamento ed avesse poi usato violenza sulla vittima allo scopo di procurarsi l’impunità.
2. Ricorre per cassazione B..R. personalmente lamentando, con unico motivo, la “violazione di legge ed il vizio di motivazione ex artt. 606, lett. b) ed e) in relazione agli artt. 628 cod. pen. e 274, 275, 292 cod. proc. pen.”.
Il ricorrente contesta la qualificazione giuridica dei fatti e la sussunzione degli stessi nell’ambito della fattispecie della rapina impropria sia pure nella forma tentata.
Secondo il ricorrente, il quale cita a sostegno della tesi difensiva la dottrina prevalente e la giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione, il tentativo di rapina impropria sarebbe ipotizzabile solo quando la sottrazione della cosa si sia realizzata, dovendosi invece ritenere integrato il tentativo di furto, in concorso con altro reato contro la persona, quale minaccia o percosse, in mancanza di detto presupposto. Riconoscere la rapina impropria anche nell’ipotesi di sottrazione non realizzatasi costituirebbe una forzatura della chiara lettera della legge e si risolverebbe in un’applicazione analogica in malam partem, con il conseguente aggravamento del carico sanzionatorio, così che una riqualificazione giuridica del fatti potrebbe avere refluenza sul giudizio di proporzione ed adeguatezza della misura cautelare disposta.
3. La Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 25 gennaio 2012, depositata il successivo 9 febbraio, ha rilevato l’esistenza di due distinti orientamenti sulla questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in cui la condotta di sottrazione della cosa non venga completata.
L’ordinanza mette a confronto le argomentazioni che sostengono i due indirizzi.
In particolare, l’indirizzo maggioritario “presta scarsa attenzione al tenore letterale della disposizione ed individua la medesima ratio, sul piano delle valutazioni politico-criminali delle fattispecie: nel delitto di rapina il legislatore, in ragione del nesso teleologico che unisce le due offese – alla libertà morale e fisica, da un lato, al patrimonio dall’altro, – ha attribuito maggior gravità al furto proprio perché per commetterlo si aggredisce un interesse ben più rilevante afferente alla persona. La stessa ratio presiederebbe la disciplina del tentativo di rapina impropria nel caso che il nesso teleologico ed il rapporto di immediatezza si configuri tra la violenza e la ricerca della impunità perché maggior gravità deve ricollegarsi alla condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene integrità fisica o morale alla persona rispetto alle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici, non collegate, le lesioni, nemmeno da un nesso di immediatezza e di strumentalità”.
Quanto all’indirizzo minoritario, secondo l’ordinanza, esso “richiamandosi al principio di stretta legalità e di tassatività della norma penale, valorizza il dato letterale che pone la sottrazione quale prius ontologico della condotta tipica della rapina impropria e configura il delitto quale fattispecie a tempo circoscritto ovvero vincolato: la sottrazione non costituirebbe una parte della condotta tipica della rapina impropria, ma solo un presupposto fattuale che deve sussistere nella sua compiutezza tanto nella consumazione quanto nel tentativo. Se così non si ragionasse, si dovrebbe configurare la sottrazione quale inizio della esecuzione della fattispecie, con risultati ingiusti e paradossali perché in violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali e del favor rei. Si aggiunge, peraltro, che, in difetto di una sottrazione completamente attuata, la violenza o la minaccia non potrebbero essere considerati diretti e in modo inequivoco a commettere una rapina impropria. Ed, ancora, che il dolo volto solo alla sottrazione non potrebbe, in corso di opera, in seguito ad una condotta volta a garantirsi l’impunità, convertirsi nel dolo di rapina, anche impropria, che presupporrebbe una volontà rappresentativa fin dall’inizio di usare comunque violenza e minaccia anche dopo solo una sottrazione tentata. Ed infine, quanto alla ratio ed alle ragioni di politica criminale, si sottolinea il minor disvalore giuridico – sociale della condotta di chi usi minaccia e violenza per garantirsi solo l’impunità, senza aver sottratto nulla, dalla condotta di chi agisce con l’intento di sottrarre ad altri ed impossessarsi così della cosa altrui e di conseguenza, in aggiunta, di garantirsi l’impunità”.
4. Il Primo Presidente, con decreto del 21 febbraio 2012, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
5. Ha depositato memoria il difensore di R. , il quale afferma che la tesi giuridica secondo la quale condotte e situazioni di fatto analoghe a quelle di cui al presente procedimento vadano sussunte nell’ambito del tentativo di furto anziché inquadrate come tentata rapina impropria appare più fondata, perché compatibile con il tenore letterale della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 628 cod. pen., essendo la norma chiara nel riferirsi ad un’aggressione alla persona commessa immediatamente dopo la sottrazione. Il difensore, richiama, inoltre, la dottrina che configura la sottrazione, nella rapina impropria, quale presupposto del fatto e non condotta tipica di reato, intendendosi per presupposti del fatto gli elementi materiali che precedono l’azione e sono necessari per la sua esistenza, con la conseguenza che il tentativo non può riguardare i presupposti di fatto della condotta ma esclusivamente la condotta tipica del reato. Secondo la tesi difensiva, la sottrazione non è rilevante sul piano dell’offesa tipica dei delitti di che trattasi, poiché è l’illecito impossessamento il fulcro della lesione tipica del furto e della rapina. La mancata sottrazione della cosa impedisce, inoltre, di considerare in un unico contesto teleologia) il tentativo di furto e la successiva violenza o minaccia per conseguire l’impunità. Il soggetto che pur potendo non si appropria della cosa con violenza o minaccia dimostra, anche dal punto di vista soggettivo, un atteggiamento psicologico incompatibile con l’espropriazione violenta tipica della rapina impropria. Infine, secondo il difensore, sarebbe operazione contra legem applicare la medesima risposta punitiva all’ipotesi di mancata sottrazione seguita da reati contro la persona, proprio per la minore offensività di quest’ultima ipotesi, e sostenere il contrario significherebbe porsi in contrasto con il principio di legalità.
Considerato in diritto
1. Il motivo di ricorso pone la seguente questione di diritto, in relazione alla quale il ricorso stesso è stato rimesso a queste Sezioni Unite: “Se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità”.
2. Come già rilevato dall’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, sulla suddetta questione si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario della Cassazione ed anzi consolidato fino al 1999, è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Per tale soluzione, volendo limitare la citazione alle pronunce massimate degli ultimi anni, si esprimono Sez. 2, n. 6479 del 13/01/2011, Lanza, Rv. 249390; Sez. 2, n. 44365 del 26/11/2010, Panebianco, Rv. 249185,; Sez. 2, n. 42961 del 18/11/2010, CI., Rv. 249123; Sez. 2, n. 36723 del 23/09/2010, Solovchuk Rv. 248616; Sez. 2, n. 22661 del 19/05/2010, Tushe, Rv. 247431; Sez. 2, n. 23610 del 12/03/2010, Russomanno, Rv. 247292; Sez. 6, n. 25100 del 29/04/2009, Rosseghini, Rv. 244366; Sez. 2, n. 3769 del 16/12/2008, dep. 2009, Solimeo, Rv. 242558; Sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, Bastea, Rv. 241666; Sez. 2, n. 19645 del 08/04/2008, Petocchi, Rv. 240408; Sez. 2, n. 20258 del 26/03/2008, Boudegzdame, Rv. 240104; Sez. 2, n. 29477 del 29/02/2008, Chirullo, Rv. 240640; Sez. 2, n. 38586 del 25/09/2007, Mancuso, Rv. 238017; Sez. 2, n. 40156 del 10/11/2006, Taroni, Rv. 235448.
Tale orientamento si basa su una serie di argomentazioni.
La prima è espressa da una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, comma secondo, cod. pen., che descrive la condotta tipica della rapina impropria e che permette di individuare quella che configura la forma tentata del reato in questione ogni qual volta l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi, fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile come tale di arrestarsi allo stadio del tentativo, qualora la sottrazione non si verifichi.
Pertanto allorché un tentativo di furto sfoci, come nel caso di specie, in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, una valutazione sistematica impone di concludere che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria (Sez. 2, n. 42961 del 2010 cit. e Sez. 2, n. 7264 del 2004 cit.).
Altra argomentazione fa riferimento al concetto di fattispecie criminosa complessa, alla quale deve ricondursi anche la rapina impropria, ed afferma che le fattispecie componenti la figura in esame (sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, sicché l’unitarietà della rapina resta tale anche quando dette condotte si arrestino ad ipotesi tentate. Non sarebbe, in altri termini, consentito procedere, proprio per l’unità della figura delittuosa, ad una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfocia in violenza o minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due tronconi, l’uno configurante un delitto consumato contro la persona (lesioni, minaccia o altro) e l’altro un delitto tentato contro il patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti ad un reato complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione organica, la quale non può non portare a concludere che è stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria, anche se non si era conseguita la sottrazione del bene altrui (Sez. 2, n. 19645 del 2008 cit. e altre). Su tali basi si precisa che la violenza successiva alla sottrazione non sta a rappresentare, in questa prospettiva, un concetto di esaurimento “consumativo” del primo momento in cui si articola la condotta criminosa, ma intende normativamente sottolineare esclusivamente il profilo cronologico e funzionale che colloca quella condotta come un prius rispetto all’altra, lasciando inalterata l’applicabilità, a quella stessa condotta, degli ordinari principi in tema di tentativo (Sez. 2, n 19645 del 2008, cit.).
Sotto il profilo della ratio legis, si osserva che con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia, sicché non è logico ritenere che il medesimo legislatore abbia voluto sottrarre ad uguale trattamento colui che pur sempre usando violenza o minaccia attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà.
3. L’orientamento minoritario prende le mosse da Sez. 5, n. 3796 del 12/07/1999, Jovanovic, Rv. 215102, che, per la prima volta, contrasta la consolidata giurisprudenza, aprendosi piuttosto alle argomentazioni della dottrina maggioritaria, seguendola nell’opposta direzione della non ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in mancanza del presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare, nel caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia.
Rimasta inizialmente del tutto isolata, detta tesi è stata, successivamente, seguita anche da Sez. 5, n. 16952 del 14/12/2009, dep. 2010, Mezzasalma, Rv. 246860; Sez. 6, n. 4264 del 10/12/2008, dep. 2009, Coteanu, Rv. 243057; Sez. 6, n. 10984 del 27/11/2008, dep. 2009, Strzezek, Rv. 243683; Sez. 6, n. 43773 del 30/10/2008, Muco, Rv. 241919; Sez. 5, n. 32551 del 13/04/2007, Mekhatria, Rv. 236969.
Tale orientamento si basa in primo luogo e principalmente sull’elemento letterale, affermando che “il capoverso dell’art. 628 cod. pen. impone claris verbis che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di violenza o minaccia (..adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione..) sicché l’agente, qualora – sorpreso prima di aver compiuto la sottrazione – usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata rapina ma di tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia […] Nella formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile nesso temporale tra sottrazione e violenza/minaccia finalizzata rappresenta l’essenza caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il secondo comportamento, qualora rimanga avulso dal primo (venuto a mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato di lesioni e/o minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti all’impossessamento (che non raggiungano, tuttavia, la soglia della sottrazione) consente ancora la configurabilità del tentativo di furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina impropria. In definitiva, la mancanza di sottrazione della cosa impedisce che la violenza successiva possa assurgere anche solo al rango di atto idoneo diretto in modo non equivoco alla commissione di una rapina impropria” (Sez. 5, n. 3796 del 1999).
4. Ad avviso delle Sezioni Unite non si ravvisano argomentazioni idonee a superare il risalente e più volte ribadito, anche in tempi recenti, orientamento maggioritario.
5. Occorre, in primo luogo, sgombrare il campo dalla suggestiva argomentazione, sostenuta dal ricorrente sulla scia della prevalente dottrina, secondo la quale il tenore letterale del capoverso dell’art. 628 cod. pen. sarebbe tale che la tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il principio di legalità e con il divieto di analogia.
Queste Sezioni Unite hanno avuto modo di chiarire (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano) che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Corte EDU al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice astratta previsione della legge, ma alla norma “vivente” quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto, la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU, è, dunque, la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta interpretazione (Corte EDU, 02/11/2006, Milazzo e. Italia; Grande Camera, 17/02/2004, Maestri e. Italia; 17/02/2005, K.A. e A.D. c. Belgio; 21/01/2003, Veeber c. Estonia; 08/07/1999, Baskaya e Okcuoglu c. Turchia; 15/11/1996, Cantoni c. Francia; 22/09/1994, Hentrich c. Francia; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; 08/07/1986, Lithgow e altri c. Regno Unito).
Non vi è dubbio che nel caso in esame la prevedibilità del risultato interpretativo con riferimento al “diritto vivente” è piuttosto rappresentata da una giurisprudenza, non proprio maggioritaria, ma addirittura granitica, per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi. Si discute, pertanto, della modifica di un risultato interpretativo “normalmente” prevedibile, in quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, e ciò può avvenire solo nel caso in cui tale risultato contrasti, in modo chiaro ed evidente, con i principi di precisione e di stretta interpretazione. In verità, si tratta di una questione sulla quale si è manifestata in modo evidente la differenza tra gli orientamenti assunti dalla quasi totalità della giurisprudenza di legittimità e gli approdi ermeneutici cui è pervenuta la maggior parte della dottrina. Gli argomenti a favore della tesi giurisprudenziale minoritaria si traggono, quindi, soprattutto dalla dottrina, alla quale si richiama il ricorrente, e con tali argomenti occorre confrontarsi.
6. Su alcune considerazioni di base può ritenersi che vi sia sufficiente concordia di opinioni.
Nelle diverse fattispecie descritte nell’art. 628 cod. pen. si manifesta chiaramente la scelta normativa di tutelare i beni giuridici patrimonio e persona, o, per meglio dire, i beni della inviolabilità del possesso e contestualmente della sicurezza e libertà della persona.
Vi è ampio consenso nel riconoscere il carattere plurioffensivo del reato di rapina e la sua caratteristica di reato complesso: la condotta disegnata nell’art. 628 cod. pen., infatti, è costituita dalla stessa azione di sottrazione-impossessamento tipica del furto, cui si aggiunge l’elemento della violenza alla persona o della minaccia. Da qui la natura complessa del reato, risultante dalla commistione del reato di furto con il corrispondente reato relativo al tipo di violenza di volta in volta esercitata (percosse, minacce).
Sotto la comune denominazione di rapina il codice colloca, però, due ipotesi distinte dalla diversa successione delle condotte che compongono il delitto di rapina e da una differente direzione finalistica del comportamento violento o minaccioso. Nel caso in cui la violenza o la minaccia esercitate rappresentino il mezzo, precedente o concomitante rispetto all’impossessamento, usato per perseguire l’offesa al patrimonio, si realizza l’ipotesi della rapina c.d. propria.
Quando invece la violenza o la minaccia servono come mezzo per assicurare il possesso della cosa sottratta o, in alternativa, per procurare a sé o ad altri l’impunità, si avrà la diversa fattispecie definita rapina impropria.
Nelle due figure certamente il ruolo centrale è assunto dalla violenza o dalla minaccia, che nella rapina propria precedono lo spossessamento e sono funzionali ad esso, mentre nella rapina impropria seguono al medesimo, ma entrambe le figure presuppongono che l’agente non abbia il possesso della cosa che vuole sottrarre.
Entrambe le fattispecie legali sono considerate dal legislatore equivalenti sotto il profilo sanzionatorio.
7. Alla tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria anche nel caso in cui non venga portata a compimento la sottrazione della cosa mobile altrui si muove, principalmente, la critica di trascurare il dato testuale del capoverso dell’art. 628 cod. pen., che sarebbe esplicito nel richiedere che violenza e minaccia siano utilizzate “dopo la sottrazione”.
Tale critica appare infondata.
Deve osservarsi che la formulazione della norma in esame ha una spiegazione logica ben precisa: il legislatore, con l’espressione “immediatamente dopo” intendeva stabilire il nesso temporale che deve intercorrere tra i segmenti dell’azione criminosa complessa, ma non anche definire le caratteristiche, consumate o tentate, di tali segmenti. In altri termini, nella formulazione della norma svolge un ruolo centrale la necessità di un collegamento logico-temporale tra le condotte di aggressione al patrimonio e di aggressione alla persona, attraverso una successione di immediatezza. È necessario e sufficiente che tra le due diverse attività concernenti il patrimonio e la persona intercorra un arco temporale tale da non Interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva posta in essere. Questo è il punto centrale e il solo indefettibile della norma incriminatrice del comma secondo dell’art. 628 cod. pen. che giustifica l’equiparazione del trattamento sanzionatorio tra la rapina propria e quella impropria, indipendentemente dall’essere quelle stesse condotte consumate o solo tentate.
Del resto, lo stesso dato testuale suggerisce, ponendo in alternativa la finalità di assicurarsi il possesso e quella di procurarsi l’impunità, che quest’ultima finalità può sussistere anche senza previa sottrazione. In altri termini, la norma in esame punisce la violenza o la minaccia anche se queste vengano poste in essere per assicurarsi l’impunità, cioè esse non vengono considerate per sé sole o in un contesto distinto e separato e, pertanto, il legislatore ha voluto che fossero punite non come tali, cioè come entità giuridiche a sé stanti, ma con riferimento all’attività criminosa per la quale il reo intendeva assicurarsi l’impunità, attività la quale, pur se sintetizzata nel termine “sottrazione”, non può non comprendere tutte le fasi in cui essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del tentativo di impossessamento a quello finale dell’impossessamento della cosa che ne è oggetto.
8. La tesi propugnata dal ricorrente richiama quella dottrina che configura la sottrazione come un mero presupposto del reato di rapina impropria e non come parte della condotta di tale reato. Ma proprio tale ricostruzione teorica della fattispecie dimostra che il semplice dato testuale non è così chiaro e univoco come si afferma, se per interpretarlo è necessario fare ricorso a categorie dogmatiche quanto meno di dubbia applicabilità nel caso di specie.
Secondo tale tesi, la sottrazione del bene è presupposto di fatto e non condotta tipica del reato, con la conseguenza che, se l’art. 56 cod. pen. consente di equiparare sul piano della tipicità la condotta compiuta e gli atti idonei diretti in modo non equivoco al suo compimento, la clausola di apertura del tentativo può riguardare solo la condotta tipica del reato e non i presupposti di fatto della condotta. In questa costruzione teorica, inoltre, non ha senso porsi il problema di una causazione volontaria del presupposto, essendo invece determinante ai fini del dolo che il soggetto se ne rappresenti l’esistenza.
Di contro deve osservarsi che è ben difficile attribuire natura di mero presupposto alla sottrazione, trattandosi pur sempre di una condotta consapevole e già illecita dello stesso agente e non certo di un elemento naturale o giuridico anteriore all’azione delittuosa ed indipendente da essa. L’unico presupposto della rapina, nelle sue varie forme, è la mancanza di possesso della cosa oggetto dell’azione.
Non si comprende, poi, perché nella struttura della rapina propria, in cui la violenza o la minaccia precedono e sono funzionali all’impossessamento, si possano ravvisare due condotte tipiche, entrambe suscettibili di estensione con il meccanismo del tentativo, mentre nel caso della rapina impropria la sola condotta tipica sarebbe quella della violenza o minaccia e la sottrazione si configurerebbe come mero presupposto. Il delitto di rapina ha, nelle sue due configurazioni, natura unitaria, quale reato plurioffensivo, in cui, con l’azione violenta e la sottrazione del bene, si aggrediscono contemporaneamente due beni giuridici, il patrimonio e la persona. Del resto, è opinione ampiamente condivisa quella della natura unitaria del reato complesso; pertanto, se la rapina costituisce un reato composto risultante dalla fusione di due reati, non se ne può scindere l’unità valutando separatamente i componenti costitutivi delle figure criminose originarie; e se l’art. 628 cod. pen., opera un’unificazione tra fattispecie consumate, la stessa unificazione dovrebbe continuare a valere, salvo il diverso titolo di responsabilità, quando una di esse si presentasse nello stadio del tentativo.
D’altro canto, non condivisibile appare la lettura dell’elemento della sottrazione come presupposto di fatto che non deve necessariamente essere oggetto di dolo, purché l’agente se ne rappresenti l’esistenza, poiché ciò equivarrebbe a dire che l’elemento soggettivo di un delitto contro il patrimonio mediante violenza alle persone non dovrebbe necessariamente cadere sulla condotta di aggressione al patrimonio, limitandosi ad investire la condotta di violenza o minaccia, con la conseguenza paradossale che si potrebbe rispondere di rapina impropria per una sottrazione non voluta. In realtà, il dolo richiesto dalla fattispecie è stato definito doppiamente specifico, in quanto integrato dal dolo del furto, implicitamente richiamato, e dall’ulteriore scienza e volontà di usare la violenza o minaccia al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o di procurare a sé o ad altri l’impunità.
9. La tesi che sta a fondamento del ricorso, sempre per giustificare l’affermazione di indefettibilità del dato, che si pretende testuale, della sottrazione compiutamente realizzata, fa ricorso alla impostazione teorica secondo cui lo schema del delitto tentato può ritenersi riferibile al reato complesso globalmente considerato anche allorquando un troncone della condotta sia giunto a perfezione e l’altro sia rimasto allo stadio del tentativo penalmente significativo, ma soltanto se la porzione della condotta compiutamente realizzata è quella che la norma richiede sia realizzata per prima, oppure allorquando l’ordine cronologico di realizzazione appaia indifferente, condizione quest’ultima che non si realizzerebbe nella fattispecie di rapina impropria, nella quale l’ordine dei fatti è sovvertito rispetto alla sequenza tipica.
In verità, è opinione largamente diffusa, e certamente preferibile, che si ha tentativo di delitto complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell’una né dell’altra componente, sia quando sia stata raggiunta la consumazione dell’una e non quella dell’altra.
Ciò, come si è detto, può ritenersi pacifico con riferimento al delitto di rapina propria, né diversamente può opinarsi con riguardo al delitto di rapina impropria, trattandosi di affermazione indimostrata che l’ordine dei fatti di cui alla rapina propria debba considerarsi ^tipica”; anzi, è lo stesso legislatore che, equiparando le due fattispecie del primo e del secondo comma dell’art. 628 cod. pen., mostra di considerare indifferente la sequenza, ferma rimanendo la tipologia delle singole componenti del reato complesso. Del resto, anche i sostenitori dell’interpretazione qui disattesa riconoscono che sia configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui il soggetto agente abbia sottratto la cosa altrui e subito dopo abbia tentato un’azione violenta o anche minacciosa nei confronti della vittima del reato o di terzi per assicurarsi il possesso del bene. Non si vede, pertanto, la ragione di negare la configurabilità del tentativo nel caso in cui rimanga incompiuta l’azione di sottrazione della cosa altrui.
Si afferma anche che una violenza tentata che non segua ad una sottrazione completamente realizzata non potrebbe dirsi diretta in modo non equivoco alla realizzazione della rapina impropria. Ma tale affermazione si scontra già con it dato concreto deila realtà criminale, quale è ben evidenziata proprio nel caso di cui al presente processo, nel quale gli autori del reato si erano introdotti nell’abitazione della vittima e la avevano “messa a soqquadro” senza nulla sottrarre a causa dell’intervento della vittima medesima: è di tutta evidenza il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione della cosa mobile altrui.
Piuttosto deve osservarsi che il comma secondo dell’art. 628 cod. pen. fa riferimento alla sola sottrazione e non anche all’impossessamento, ciò che conduce a ritenere che il delitto di rapina impropria si possa perfezionare anche se il reo usi violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma dello stesso.
Il requisito della violenza o minaccia che caratterizza il delitto di rapina, certamente può comportare una differenziazione in ordine al momento consumativo rispetto al furto. Mentre, infatti, con riferimento al furto, finché la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore questi è ancora in grado di recuperarla, così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo, al contrario, nella rapina, la modalità violenta o minacciosa dell’azione non lascia alla vittima alcuna possibilità di esercitare la sorveglianza sulla res. Per la consumazione del delitto di rapina è quindi sufficiente che la cosa sia passata sotto l’esclusivo potere dell’agente, essendone stata la vittima spossessata materialmente, così perdendo di fatto i relativi poteri di custodia e di disposizione fisica. In considerazione della successione “invertita” delle due condotte di aggressione al patrimonio e alla persona che caratterizza la rapina impropria, il legislatore, al fine di mantenere equiparate le due fattispecie criminose del primo e del secondo comma dell’art. 628 cod. pen., non richiede il vero e proprio impossessamento della cosa da parte dell’agente, ritenendo sufficiente per la consumazione la sola sottrazione, così lasciando spazio per il tentativo ai soli atti idonei diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa altrui, atti che sono di tutta evidenza sussistenti nel caso di cui al presente procedimento.
Ne consegue la fondatezza della tesi della maggioritaria giurisprudenza, secondo la quale, combinando la norma incriminatrice dell’art. 628, comma secondo, cod. pen. con l’art. 56 cod. pen., se ne trae che se si tenta un furto senza realizzare la sottrazione della cosa e si commette immediatamente dopo un’azione violenta contro una persona, che ha per fine di assicurare l’impunità per il tentativo di furto, l’azione violenta resta strumentale a quella già realizzata e, pertanto, assorbita.
Ammessa, dunque, concettualmente la ipotizzabilità del tentativo con riferimento alla fase della sottrazione, ne deriva che la successiva violenza esercitata per procurarsi l’impunità, non resta avulsa dal modello legale prefigurato nell’art. 628 comma secondo, cod. pen., ma ad esso si coniuga a perfezione, dando così vita alla figura tentata di rapina impropria, senza alcuna illogica scansione del reato complesso in autonome figure di tentato furto e violenza o minaccia.
10. Altro argomento a favore della non ipotizzabilità del tentativo di rapina impropria fa leva su ragioni di politica criminale: si è sostenuto che una volta venuto meno il rapporto tra l’offesa alla persona e quella al patrimonio, ossia il legame di consequenzialità che unisce le due offese, non avrebbe senso applicare il regime sanzionatorio della rapina, giustificato proprio in ragione del nesso teleologico tra l’aggressione ai due beni. In altri termini, l’allargamento delle maglie della fattispecie di rapina impropria nel senso indicato dalla prevalente giurisprudenza comporterebbe l’applicazione di una sanzione particolarmente grave anche per un fatto che non si ritiene dotato di significativo disvalore.
Anche tale argomentazione non può essere condivisa, poiché la mancata consumazione della condotta di aggressione al patrimonio o della condotta di aggressione alla persona non fanno venir meno il legame tra le due forme di aggressione, come struttura portante del reato complesso di rapina, che persiste nelle due forme propria e impropria e che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave.
È ben vero che nella rapina impropria non sussiste il nesso funzionale e strumentale che in quella propria unisce l’aggressione alla persona all’aggressione al patrimonio, ma un volta che il legislatore ha stabilito che la mancanza di tale specifico nesso non esclude l’equiparabilità ai fini sanzionatori della rapina impropria, deve ritenersi che la congiunta e contestuale aggressione ai due beni giuridici attribuisce di per sé maggiore gravità alle condotte di aggressione del bene patrimonio e del bene sicurezza e libertà della persona e perciò è previsto che sia punita più severamente delle due distinte lesioni ai predetti beni giuridici.
Se il legislatore ha ritenuto con il delitto di rapina di sanzionare in maniera ben più severa le condotte di per sé autonomamente punibili della violenza o minaccia e del furto, in ragione del nesso di contestualità che unisce le due offese, attribuendo così maggiore gravità anche al furto, appare ragionevole ritenere che tale ratio sussista anche nel caso in cui il soggetto agente tenta di sottrarre il bene altrui ed è poi disposto per assicurarsi l’impunità ad usare violenza o minaccia. Non vale l’obiezione che l’equiparazione del trattamento sanzionatorio può essere fondata su una connessione “analoga”, quale sarebbe quella che lega l’offesa al patrimonio già realizzata e l’offesa alla persona commessa per assicurarsi il possesso della cosa sottratta o per conseguire l’impunità; poiché il rapporto di “analogia” rispetto al trattamento sanzionatorio deve essere tra termini corrispondenti e, quindi, tra tentativo di rapina impropria e tentativo di rapina propria e quest’ultimo, come dimostrano i molteplici casi giurisprudenziali (ad es. Sez. 2, n. 18747 del 20/03/2007, Di Simone, Rv. 236401; Sez. 2, n. 21955 del 10/02/2005, Granillo, Rv. 231966; Sez. 2, n. 3596 del 01/02/1994, Evinni, Rv. 197753), è configurabile anche nelle ipotesi in cui non siano perfezionate né l’offesa al patrimonio né quella alla persona, quando Ja condotta dell’agente sia potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia, e la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso.
Pertanto, il legame posto dal legislatore tra la condotta di aggressione al patrimonio e la condotta di violenza al fine di guadagnare l’impunità per il delitto precedentemente commesso è frutto della valutazione del maggior disvalore sociale che caratterizza l’azione violenta o minacciosa comunque connessa ad un aggressione al patrimonio, a prescindere che l’intento si sia realizzato o meno.
11. Sulla base delle esposte argomentazioni deve essere formulato il seguente principio di diritto: “È configurabile il tentativo di rapina impropria nei caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alfa sottrazione della cosa altrui, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità”.
12. In applicazione del suddetto principio il ricorso deve essere rigettato con la conseguenza della condanna del ricorrente al pagamento della spese processuali.
Copia del presente provvedimento deve essere trasmesso al direttore dell’istituto penitenziario, affinché provveda a quanto previsto dall’art. 94, comma 1 – ter, disp. att. cod. proc. pen..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento della spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 – ter, disp. att. cod. proc. pen..
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