Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 20 marzo 2018, n. 1799. L’obbligo per l’Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem ad altri atti

L’obbligo per l’Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l’iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.

Sentenza 20 marzo 2018, n. 1799
Data udienza 22 febbraio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale

Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9632 del 2011, proposto da:

Al. Pr., rappresentato e difeso dall’avvocato Fr. Pa., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Le. in Roma, viale (…);

contro

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Soprintendente per i Beni Ambientali e Architettonici dell’Emilia Romagna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (…);

Comune di (omissis), Dirigente dell’Ufficio Tecnico-Sezione Urbanistica non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA – BOLOGNA: SEZIONE II n. 00445/2011, resa tra le parti, concernente autorizzazione paesaggistica su concessione edilizia in sanatoria

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2018 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Ma. Le., per delega di Fr. Pa., e M. Vi. Lu.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1 – L’appellante dispone in (omissis), unitamente alla moglie Ta. M. An., di un immobile ad uso abitazione e magazzini – censito al N.C.E.U. del Comune medesimo al Foglio n. (omissis), mappale (omissis) – sul quale la proprietà ha realizzato alcuni locali ad uso magazzino e deposito attrezzi, strumentali all’esercizio della impresa agricola condotta dallo stesso appellante.

2 – Tali opere furono poste in essere senza richiedere alcuna licenza, per cui, in un secondo tempo, furono oggetto di due separate domande di condono (prot. n. 18172 del 26.7.1986 e n. 8204 del 2.3.1995).

2.1 – Dal momento che la zona è sottoposta a vincolo ambientale, i provvedimenti comunali di accoglimento delle due domande da parte del Comune (n. 50564 e 50562 del 29.10.1998) furono inviati alla Sovrintendenza per i Beni Architettonici dell’Emilia Romagna.

2.3 – In data 8 febbraio 2000, il Comune di (omissis) notificava due dinieghi di condono, perché la Soprintendenza, con atti 13 gennaio 2000 e 21 gennaio 2000, aveva annullato gli atti comunali, negando l’autorizzazione paesaggistica.

3 – Avverso i dinieghi comunali e gli atti di annullamento della Soprintendenza, Al. Pr. ha proposto impugnazione al TAR Emilia Romagna che, con sentenza n. 445 del 10 maggio 2011, ha rigettato il ricorso.

3.1 – Il medesimo ricorrente ha appellato detta sentenza per i motivi di seguito esaminati.

4 – Con il primo motivo, l’appellante censura l’affermazione del TAR secondo il quale il provvedimento della Sovraintendenza non avrebbe potuto essere diverso. L’appellante contesta l’assunto, assumendo che la Soprintendenza sarebbe invece incorsa in un errore, equivocando sulla natura del manufatto (rudere, e non edificio rurale), che avrebbe potuto essere ulteriormente chiarita rispettando l’art. 7 della legge 241 del 1990.

5 – Può essere esaminato in questa sede anche il motivo riproposto in sede di appello, in quanto non esaminato in primo grado, con il quale il ricorrente deduce eccesso di potere per sviamento, in relazione all’art. 82 del D.P.R. 25 luglio 1977, n. 616, come modificato dall’art. 1 L.n. 431/85. Al riguardo, l’appellante ricorda che i poteri di annullamento che fanno capo al Ministero per i Beni e le Attività Culturali attengono alla sola verifica della legittimità degli atti di gestione del vincolo. Sotto questo profilo, emergerebbe, nel caso di specie, un vizio di eccesso di potere per sviamento. In particolare, la Soprintendenza, nella parte in cui giudica l’intervento edilizio oggetto di domanda di sanatoria incompatibile con le imprescindibili esigenze di tutela e conservazione dei valori paesistici, avrebbe travalicato i limiti assegnati dall’art. 82 D.P.R. n. 616/77 all’Autorità statale preposta alla tutela del vincolo, sovrapponendosi illegittimamente al Comune di (omissis) e deviando dallo scopo della funzione di controllo che le compete per legge.

6 – Il motivi di appello sono infondati. Invero, la ragione dell’annullamento della determina comunale è ravvisabile nella carenza di motivazione di quest’ultima, come si evince chiaramente leggendo il provvedimento impugnato, restando in disparte le ulteriori considerazioni circa la compatibilità ambientale delle opere, che, lungi dal costituire una indebita valutazione di merito, valgono solo a dimostrare l’assoluta carenza di ogni approfondimento da parte del Comune rispetto alla compatibilità del manufatto abusivo con l’ambiente circostante.

6.1 – Al riguardo, va rammentato che l’atto di autorizzazione paesaggistica dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere un’adeguata motivazione, e deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (cfr. art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).

A questo proposito, la giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che, nello specifico settore delle autorizzazioni paesaggistiche, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde a un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione: I) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati; II) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante l’indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni; III) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4899, e 11 settembre 2013, n. 4481, cui il Collegio aderisce).

Sempre secondo la giurisprudenza amministrativa consolidata (Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9 e, più di recente, “ex multis”, Cons. Stato, sez. VI, n. 300/2012), l’eventuale annullamento del nulla osta paesaggistico comunale, da parte della Soprintendenza, risulta riferibile a qualsiasi vizio di legittimità, riscontrato nella valutazione formulata in concreto dall’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni sua figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta). L’unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare “un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione” (Cons. St., Ad. plen., n. 9/2001; cfr. anche Cons. St., sez. VI, 14 agosto 2012, n. 4562).

Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario sussiste un vizio d’illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare – anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato – le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati (cfr. Cons. St., sez. VI, 5 marzo 2014, n. 1034; 18 gennaio 2012, n. 173; 21 settembre 2011, n. 5292).

6.2 – Alla luce delle coordinate ermeneutiche innanzi ricordate, deve osservarsi che l’atto del Soprintendente si è sostanziato nell’eccepire un difetto di motivazione degli atti del Comune. Testualmente, nel provvedimento si legge: “considerato che l’Autorità decidente non fornisce alcuna specifica motivazione che suffraghi il provvedimento in esame, limitandosi semplicemente a richiamare il parere della Commissione Edilizia Integrata”; evidenziandosi ulteriormente che quest’ultimo parere: “contiene un’affermazione apodittica di compatibilità dell’intervento senza indicare i concreti elementi di fatto che ne sono alla base e non dimostra pertanto che le caratteristiche del manufatto abusivo siano state puntualmente rilevate e rapportate ai valori codificati nell’atto di vincolo”; concludendosi quindi nel senso che: “il provvedimento comunale citato nelle premesse non dà alcun conto degli elementi che hanno condotto l’Autorità decidente alla valutazione favorevole…”.

Tanto precisato, non può dubitarsi della legittimità del provvedimento di annullamento, alla luce del fatto che l’autorizzazione comunale, in modo assolutamente insufficiente, si limita ad enunciare acriticamente che “i lavori previsti nel progetto sottoposto ad esame non pregiudicano il valore ambientale della zona”, senza nulla aggiungere.

In ragione di tali considerazioni sono destituite di fondamento anche le censure relativa ad eventuali violazioni procedimentali, tenuto conto dell’art. 21 octies della l. 241/90; nonché la questione rispetto alle quale l’appellante lamenta l’equivoco su cui sarebbe incorsa la Soprintendenza sulla natura del manufatto (rudere, e non edificio rurale).

7 – Con il secondo motivo di appello, si ripropone la censura relativa al fatto che il provvedimento della Soprintendenza sarebbe tardivo, perché emesso oltre il termine consentito dalla legge.

7.1 – Al riguardo, l’appellante allega che i primi atti del Comune, favorevoli al richiedente, erano stati inviati per raccomandata dal Comune all’Amministrazione dei Beni Culturali il 20.10.1998 con una serie di allegati; mentre il provvedimento è stato emesso a più di un anno di distanza da tale data, in violazione del termine di legge applicabile fissato in 60 giorni.

7.2 – Il motivo è infondato. Invero, nel provvedimento impugnato si dichiara espressamente che gli atti “completi” sarebbero pervenuti solo in data 25.11.1999, dunque il provvedimento risulta tempestivo, dovendosi ricordare che il termine perentorio di 60 giorni previsto dall’art. 151, comma 4, del D.Lgs. n. 490 del 1999 decorre solo da quando il Ministero è effettivamente posto nelle condizioni di pronunciarsi e quindi da quando l’intera documentazione rilasciata sia stata ricevuta dallo stesso, non verificandosi pertanto alcuna sospensione o interruzione nel caso in cui sia necessaria un’integrazione della documentazione, bensì soltanto l’effetto della non decorrenza del termine (cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 24).

Come evidenziato dal TAR, a fronte dell’inequivoca precisazione contenuta nell’atto, era invece onere dell’appellante provare il contrario.

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