SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 27 dicembre 2011, n. 28892
Svolgimento del processo
1. Il sig. A. N. con ricorso depositato il 26 novembre 2004, chiedeva al tribunale di Rimini che fosse pronunciato lo scioglimento del matrimonio contratto con la sig. ra A. K. nel febbraio 1992, dal quale erano nati i figli A. e F. , dei quali chiedeva l’affidamento.
La convenuta si costituiva chiedendo l’affidamento condiviso dei figli, con collocazione presso il padre e un assegno divorzile di euro 2. 000, 00 mensili . Successivamente, con memoria, il ricorrente formulava anche domanda di risarcimento del danno esistenziale che asseriva a lui causato dal comportamento della moglie.
Il tribunale di Rimini accoglieva la domanda di scioglimento del matrimonio, stabiliva l’affido condiviso dei figli, con collocazione presso il padre e onere di mantenimento a suo carico esclusivo, rigettava la domanda di assegno divorzile e nulla statuiva circa le modalità di frequentazione dei figli da parte della madre. Rigettava la domanda di risarcimento perché tardivamente proposta.
La sig. ra K. proponeva appello in relazione al rigetto della domanda relativa all’assegno divorzile ed alla mancata determinazione delle modalità di frequentazione dei figli.
La Corte d’appello, nel contraddittorio fra le parti, con sentenza depositata il settembre 2009, attribuiva all’appellante un assegno divorzile di euro 200,00 mensili. La sig.ra K ricorre avverso tale sentenza con ricorso notificato il 29 gennaio 2010, formulando due motivi. Il sig. N. ha proposto ricorso incidentale con atto notificato il 27 febbraio 2010, formulando un articolato motivo.
Motivi della decisione
1. i ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c. riguardando la medesima sentenza.
2. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, sotto il profilo che in violazione di tale norma la sentenza impugnata avrebbe dato rilievo ai comportamenti di essa ricorrente durante il matrimonio ai fini della quantificazione dell’ assegno divorzile. Si deduce che la spettanza dell’assegno, quanto all’an debeatur ha per presupposto l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio, mentre il quantum va determinato tenendo conto degli elementi indicati al comma 6. Si lamenta che la Corte d’appello, dopo avere accertato la spettanza dell’assegno, l’abbia liquidato nella misura di soli 200, 00 euro “in ragione del comportamento e della condotta di vita” incontestatamente tenuti dalla richiedente durante il matrimonio, caratterizzati da vita libera e disordinata, abitudine a frequentare locali notturni, abuso di sostanze alcoliche e psicofarmaci”, circostanze queste non accertate in sede di separazione personale. Con il secondo motivo si denunciano violazione dell’ art. 5, comma 6, della legge sul divorzio e vizi motivazionali. Si deduce al riguardo che “la motivazione è contraddittoria o omessa nel punto in cui afferma che il divario di reddito appare addirittura superiore se si considera che il dott. N. risulta proprietario di più di (undici) immobili per poi trarre implicitamente la conclusione che, trattandosi di beni immobili pervenuti per successione, di essi non si deve sostanzialmente tenere conto, omettendo qualsiasi motivazione che permetta di comprendere perché i redditi derivanti da detti immobili non rilevano ai fini della valutazione del divario di reddito fra i coniugi”. Si deduce parimenti l’omessa o insufficiente motivazione in ordine all’affermata contestazione circa la mancanza di comportamenti disdicevoli addebitati alla ricorrente, mentre tale contestazione era stata fatta al verbale dell’udienza del 22 marzo 2005, nel quale era stata dedotta l’inammissibilità per tardività della deduzione di dette circostanze. Si deduce ancora insufficienza motivazionale per non avere la Corte di merito tenuto conto del contributo dato da essa ricorrente alla conduzione familiare, avendo essa tenuto presso di sé i figli sino all’età di dieci e dodici anni, sia alla formazione del patrimonio comune e di ciascun coniuge, e per non avere spiegato perché non ha dato rilievo a tutti i singoli criteri previsti dall’art. 5 della legge sul divorzio. Con il ricorso incidentale si prospetta un unico motivo di gravame, articolato in tre profili, denunciandosi la violazione dell’ art. 5 della legge sul divorzio e vizi motivazionali. Sotto un primo profilo si deduce che l’assegno non poteva essere attribuito alla ricorrente principale perché non aveva dimostrato il peggioramento del suo tenore di vita rispetto a quello goduto durante il matrimonio. Sotto un secondo profilo si denuncia un vizio motivazionale per avere la Corte d’appello, per un verso affermato che ai fini della determinazione dell’ assegno non rilevano i beni pervenuti dopo la separazione, e per altro verso avendone tenuto conto nel prendere in concreto in esame i redditi di esso ricorrente incidentale. Sotto un terzo profilo si lamenta che la Corte d’appello, in relazione al comportamento della controparte durante il matrimonio, non abbia escluso del tutto l’assegno. Avendo carattere pregiudiziale, va esaminato innanzitutto il ricorso incidentale, in quanto attinente all’esistenza del diritto all’assegno di divorzio, partendo dal primo profilo di censura relativo all’asserito difetto di prova dell’inadeguatezza dei mezzi della ex moglie a mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio. Il motivo è infondato, avendone la Corte tratto implicita prova dal raffronto fra la situazione economica complessiva delle parti (pagg. 6 e 7 della sentenza) negli anni anteriori alla pronuncia di divorzio – in relazione alla quale ne andava ragguagliato il tenore di vita e i redditi della ex moglie (ex multis: Cass. 4 ottobre 2010, n. 20582; 12 luglio 2007, n. 156106 ottobre 2005, n. 19446; 16 luglio 2004, n. 13169; 7 maggio 2002, n. 6541), espungendovi a tal fine i beni immobili pervenuti all’ex marito per successione ereditaria dopo la cessazione della convivenza in quanto “non costituenti lo sviluppo naturale dell’attività svolta durante la convivenza”. Vanno invece dichiarati inammissibili il secondo profilo del motivo, in quanto del tutto generico e non rapportato alla “ratio decidendi” della sentenza, nonché il terzo profilo del motivo, in quanto contenente una censura di mero merito.
3. Passando all’esame del primo motivo del ricorso principale, va osservato quanto segue.
Secondo l’orientamento di questa Corte espresso dalla sentenza delle sezioni unite 29 novembre 1990, n. 11492 (e ampiamente consolidato), in tema di scioglimento del matrimonio e nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, una volta stabilita la spettanza in astratto dell’assegno divorzile, per non essere il coniuge richiedente in grado, per ragioni oggettive, di mantenere il tenore di vita matrimoniale, così come previamente accertato, il giudice deve poi procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5 (ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno od a quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), che quindi agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerabile in astratto (ex plurimis, Cass. 22 agosto 2006, n. 18241; 19 marzo 2003, n. 4040). Nel caso di specie la Corte d’appello (pagg. 8 e 9 della sentenza) ha liquidato alla ricorrente un assegno di 200,00 euro mensili, prendendo in considerazione per un verso la durata del matrimonio, contratto nel 1992 (la separazione intervenne, secondo quanto risulta dal controricorso nel 2001), e per altro verso lo scarso contributo dato dalla ricorrente “alla gestione complessiva della vita familiare”, “in ragione del comportamento e della condotta di vita tenuti durante gli anni convivenza”. Ciò sulla base della considerazione della disordinata, “la vita libera che l’ abitudine di frequentare locali notturni della riviera romagnola anche durante i primi anni di matrimonio quando i figli erano piccoli, l’abuso di sostanze alcoliche e di psicofarmaci (che in seguito l’hanno costretta a sottoporsi a terapie psicoanalitiche contro la dipendenza), sono circostanze non contestate in giudizio. Esse non hanno certo contribuito a creare un clima di serenità in seno alla famiglia o facilitare il rapporto con il marito, che risulta essere stato costretto in più occasioni a intervenire, anche in presenza delle forze dell’ordine, per aiutare o recuperare la donna in difficoltà a causa dell’assunzione di sostanze alcoliche”. Con il motivo si deduce l’illegittimità di tale motivazione, in quanto il “criterio per la quantificazione dell’assegno di divorzio riferito alle ragioni della decisione, nel caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio in base a pregressa separazione, deve essere inteso nel senso che il comportamento dei coniugi anteriore alla separazione”, “resta superato ed assorbito dalla valutazione effettuata al riguardo dal giudice della separazione”. In proposito va considerato che, ai fini della quantificazione in concreto dell’assegno, la sentenza impugnata non ha fatto riferimento alle “ragioni della decisione” – da intendersi come cause del fallimento del matrimonio in relazione alla loro addebitabilità per comportamenti anteriori alla separazione, che non possono essere accertate al di fuori del giudizio di separazione (Cass. 22 novembre 2000, n. 15055; 2 giugno 1981, n. 3549; Il giugno 1980, n. 3712) – ma al “contributo personale” dato dall’odierna ricorrente principale alla vita familiare, valutando unicamente a tal fine il suo comportamento nel corso del matrimonio. Il che deve essere considerato legittimo, in forza del disposto dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, che demanda il relativo accertamento, ai fini della quantificazione dell’assegno, al giudice del divorzio, nulla avendo esso a che fare con l’addebitabilità della separazione, che può essere delibata solo in quel processo. Non avendo, quindi, il motivo colto e censurato la sopra indicata “ratio decidendi”, va dichiarato inammissibile.
4. Passando all’esame del secondo motivo del ricorso principale, va considerato che, pur essendo nella rubrica prospettata anche la violazione dell’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, in concreto nello svolgimento del motivo si adducono unicamente, sotto vari profili, vizi motivazionali. Ne risulta l’inammissibilità del primo profilo, in quanto non correlato all’effettiva motivazione della sentenza, la quale ha motivato del perché non tenesse conto dei beni ereditari ai fini della spettanza dell’assegno di divorzio e cioè in relazione alla determinazione del tenore di vita al quale andava ragguagliato con il riferimento alla circostanza che essi non costituivano “lo sviluppo naturale dell’attività svolta durante la convivenza”: affermazione la cui esattezza poteva essere contestata – e non lo è stato – solo in diritto. Quanto al secondo profilo, esso va dichiarato inammissibile per difetto di autosufficienza nella parte in cui si deduce l’omessa o insufficiente motivazione in ordine all’affermata mancanza di contestazione circa i comportamenti disdicevoli addebitati alla ricorrente, mancando nel motivo la trascrizione dell’atto processuale nel quale la contestazione sarebbe stata effettuata (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; 27 settembre 2009, n. 4849; 24 maggio 2006, n. 12362). Quanto al terzo profilo esso è in parte infondato e in parte inammissibile, tenuto conto del principio ampiamente consolidato secondo il quale il giudice, nella quantificazione dell’assegno, non deve necessariamente darne giustificazione in relazione a tutti i parametri stabiliti dall’art. 5 della legge sul divorzio, potendo dare prevalenza anche ad alcuni o ad uno solo di essi, come ha fatto nel caso di specie, mentre è incensurabile in questa sede essendo congruamente motivata la valutazione relativa al complessivo contributo dato dalla ricorrente alla gestione complessiva della vita familiare. In relazione alla reciproca soccombenza si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte di cassazione riunisce i ricorsi e li rigetta.
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