Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 9 settembre 2015, n. 36378

Ritenuto in fatto

1 Il Tribunale di Palermo, con ordinanza 25.2.2015, ha rigettato la richiesta di riesame – proposta da C.R. , terzo non indagato – contro il decreto di sequestro preventivo per equivalente di un magazzino e della quota (1/3) di un negozio, oggetto di donazione ricevuta dal genitore C.A. , indagato per vari reati tributari e – per quanto qui interessa – per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 D. Lvo n. 74/2000).
Per giungere a tale conclusione, il Tribunale ha osservato:
– che i documenti dell’accusa già risultavano trasmessi in occasione del riesame del precedente decreto di sequestro preventivo riguardante i beni dell’indagato;
– che sussisteva il fumus del reato di sottrazione fraudolenta in considerazione della tempistica dell’atto di disposizione perché prima della donazione in favore della figlia Ca.An. era stato destinatario di una verifica fiscale;
– che a nulla rilevava la deduzione difensiva sull’esistenza del rimedio dell’azione revocatoria, trattandosi di un evento futuro e incerto;
– che era irrilevante l’esistenza di altri beni nel patrimonio dell’indagato;
– che le dichiarazioni rese dal D.C. circa le ragioni dell’atto di liberalità potevano essere il frutto di una non veritiera ricostruzione della vicenda da parte dell’indagato C. , intenzionato a nascondere la reale causa della donazione alla figlia.
2. La C. , tramite i difensori, propone ricorso per cassazione denunziando un unico motivo: violazione dell’art. 125 cpp; mancanza totale di motivazione; motivazione meramente apparente.
Sostiene innanzitutto la ricorrente che il Tribunale del Riesame si è limitato a postulare la sussistenza del fumus del reato copiando il provvedimento di sequestro senza dare alcuna risposta alle doglianze difensive. Rileva inoltre l’inidoneità dell’atto a sottrarre la garanzia al creditore (lo Stato), trattandosi di un atto di liberalità, come tale ad onere probatorio meno rigoroso in caso di proposizione di azione revocatoria, facilmente esperibile (non richiedendosi la prova della consapevolezza da parte del terzo). Rileva inoltre che gli immobili donati non esaurivano il patrimonio dell’indagato e che, comunque, la donazione fatta in favore della figlia faceva venir meno l’intento fraudolento. Richiama il contenuto delle dichiarazioni del D.C. in sede di investigazioni difensive, secondo cui la donazione era stata determinata da ragioni di salute che non consentivano più al C. di occuparsi della gestione dei beni, rimproverando al Tribunale di avere acriticamente equiparato la donazione al fumus del reato. Rileva ancora il vizio di contraddittorietà della motivazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cpp. e quello di mancanza assoluta ex art. 125 cpp avendo il Tribunale pretermesso l’esame degli elementi decisivi.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile.
A norma del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad 51.645,69, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.
Affinché siano integrati gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice basta unicamente che la condotta risulti idonea a rendere in tutto o in parte inefficace una procedura di riscossione coattiva da parte dello Stato, idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex ante – e non anche per l’effettiva verificazione di tale evento. Pertanto (v. Sez. 3, Sentenza n. 39079 del 09/04/2013 Cc. dep. 23/09/2013 Rv. 256376; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14720 del 06/03/2008, Rv. 239970), ai fini della configurabilità del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 11) è necessario, sotto il profilo psicologico, il dolo specifico (ovvero il fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario) e, sotto il profilo materiale, una condotta fraudolenta atta a vanificare l’esito dell’esecuzione tributaria coattiva la quale non configura un presupposto della condotta, in quanto è prevista dalla legge solo come evenienza futura che la condotta, idonea, tende a neutralizzare.
L’oggettività giuridica della fattispecie va individuata, dunque, nell’interesse a rendere possibile la riscossione attraverso l’intangibilità della garanzia patrimoniale rappresentata dai beni dell’obbligato (in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 39079/2013 cit.; Sez.3, n. 32282 del 13/6/2007, dep. 8/8/2007, P.M e. Raffaele, Sez. 3, n. 14720 del 6/3/2008, dep. 9/4/2008, P.M. in proc. Ghiglia, Rv. 239970,Sez.3, n. 36290 del 18/5/2011, dep. 6/10/2011, Cualbu, Rv. 251077). Pertanto, la condotta penalmente rilevante può essere costituita da qualsiasi atto o fatto fraudolento intenzionalmente volto a ridurre la capacità patrimoniale del contribuente stesso, riduzione da ritenersi, con un giudizio ex ante, idonea sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, a vanificare in tutto od in parte, o comunque rendere più difficile una eventuale procedura esecutiva.
L’eliminazione del presupposto dell’attivazione di una procedura coattiva di riscossione dall’economia della nuova fattispecie incriminatrice, determina, come la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato (cfr., da ultimo, Sez.3, n. 36290 del 18/5/2011, già citata dep. 6/10/2011, Cualbu, Rv. 251076), l’inquadramento dei delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte nella categoria dei reati di pericolo, avendo il legislatore in tal modo stabilito una linea di tutela prodromica delle pretese del Fisco, attraverso l’illiceità penale delle condotte che pongano a repentaglio l’obiettivo di realizzazione della pretesa tributaria.
Ciò premesso, e venendo all’esame delle censure, appare innanzitutto fuori luogo il richiamo al vizio di motivazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cpp: secondo la costante giurisprudenza, è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’”iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (tra le varie, Sez. 6, Sentenza n. 6589 del 10/01/2013 Cc. dep. 11/02/2013 Rv. 254893; Sez. U, Sentenza n. 25932 del 29/05/2008 Cc. dep. 26/06/2008 Rv. 239692).
Nel caso di specie, si è però al di fuori di tale ipotesi estrema perché la motivazione esiste e, come si vedrà, è tutt’altro che apparente.
Il Tribunale infatti, premessa una ricostruzione della natura giuridica del reato di cui all’art. 11 D. Lvo n. 74/2000 del tutto in linea con i principi affermati da questa Corte e sopra riepilogati, ha dato conto in maniera esauriente del fumus sottolineando la significativa tempistica tra l’accertamento fiscale eseguito presso il C.A. e l’atto di disposizione patrimoniale (avvisi di accertamento notificati al contribuente tra novembre e dicembre 2013, istanza di adesione presentata il 14.1.2014 senza poi aderirvi e infine atto di donazione stipulato il 10.11.2014); ha altresì osservato – del tutto correttamente – che anche un solo atto di cessione è idoneo ad ostacolare l’apprensione dei beni da parte del fisco, essendo in tal caso detta apprensione subordinata ad un evento futuro e incerto (l’efficace compimento dell’azione revocatoria).
Il Tribunale ha poi valutato criticamente la massima di giurisprudenza richiamata dalla C. (la sentenza di questa sezione n. 19524/2013) rilevando, altrettanto correttamente, che in quella pronuncia il Collegio si era limitato ad affermare la maggior efficacia di una pluralità di atti per chi intende sottrarre i beni al fisco, ma non aveva di certo escluso categoricamente che un unico atto possa ritenersi idoneo a sottrarre i beni alle pretese del fisco, come si evince chiaramente dalle espressioni “nella maggior parte dei casi” e “può” adoperate in motivazione (Sez. 3, Sentenza n. 19524 del 04/04/2013 Cc. dep. 07/05/2013 Rv. 255900). In ogni caso, il C. aveva, con un unico atto, donato non uno, ma più immobili a favore delle tre figlie, come pure ha evidenziato il giudice di merito.
Le considerazioni che la ricorrente svolge sull’esistenza di altri immobili nel patrimonio del donante (con conseguente possibilità di garanzia per i creditori) e sulle ragioni che avevano spinto il padre all’atto di disposizione (oggetto delle dichiarazioni rese in sede di indagini difensive dall’amico D.C. ) investono tipiche questioni di fatto e tendono ad una diversa valutazione del materiale probatorio, attività che il giudizio di legittimità di certo non consente. Infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito o di seguire possibili interpretazioni e ricostruzioni alternative dei fatti, suggerite dal ricorrente, ma quello di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Lo stesso dicasi per l’asserita inidoneità dell’atto a sottrarre la garanzia patrimoniale, tesi peraltro giuridicamente non corretta, perché la donazione è un tipico atto di disposizione patrimoniale suscettibile di recare pregiudizio alle ragioni dei creditori, andando ad incidere, riducendola, sulla garanzia patrimoniale del debitore di cui all’art. 2740 cc. E l’azione revocatoria è un rimedio previsto dalla legge proprio per rimediare a tali iniziative; essa inoltre, contrariamente a quanto semplicisticamente osservato in ricorso, comporta comunque il promovimento di una lite – anche se con il minor rigore probatorio derivante dal fatto che non si richiede l’ulteriore condizione di cui all’art. 2901 n. 2 cc (cioè la consapevolezza del pregiudizio da parte del terzo) – con tutte le conseguenze in termini di tempi, costi e alea, ben note.
Infine, la mancata indicazione da parte della ricorrente dell’ammontare complessivo del debito tributario verso l’Erario, elemento essenziale per valutare la capienza del restante compendio immobiliare, rende il ricorso inammissibile anche per difetto di specificità del motivo (artt. 581 lett. c e 591 lett. c cpp).
Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 616 cpp nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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