Consiglio di Stato
sezione IV
sentenza 25 agosto 2015, n. 3985
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE QUARTA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2661 del 2013, proposto da:
St., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Ro.A. Ja. ed altri, con domicilio eletto presso An.Te. in Roma, via (…); St., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Da.Ag. ed altri, con domicilio eletto presso An.Te. in Roma, via (…):
contro
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, tutti rappresentati e difesi dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via (…), sono ope legis domiciliati;
nei confronti di
In. Spa, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Cl.Gh., Le.Al., con domicilio eletto presso Le.Al. in Roma, via (…); Sn. Spa, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Fe.Ba., St.Vi., con domicilio eletto presso St.Vi. in Roma, via (…); Ga. Srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dall’avv. Pa.Ma., con domicilio eletto presso il Consiglio di Stato Segreteria in Roma, (…);
e con l’intervento di
ad opponendum:
Eu. Srl unipersonale, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Ci.Be. ed altri, con domicilio eletto presso Gi.Fr. in Roma, via (…); Lo. Srl, Co. Srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentate e difese dagli avv. Sa.Fi. ed altri, con domicilio eletto presso Gi.Fr. in Roma, via (…); Si. Spa, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Lu.Me. ed altri, con domicilio eletto presso Luigi Medugno in Roma, via (…); Sp., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avv. Au.Do., Fi.Do., con domicilio eletto presso Al.Ce. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. del LAZIO – Sede di ROMA – SEZIONE II n. 01884/2013, resa tra le parti, concernente gara per l’ affidamento in concessione di 2000 diritti per l’esercizio congiunto dei giochi pubblici attraverso l’attivazione di rete fisica di negozi di gioco e relativa conduzione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Economia e delle Finanze – Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato e di Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato e di In. Spa e di Sn. Spa e di Ga. Srl;
Visti gli atti di intervento come sopra identificati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 luglio 2015 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Ag. ed altri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso di primo grado era stato chiesto dalle società odierne appellanti St. e St. l’annullamento del bando di gara 2012/S 145-242654 pubblicato sulla GURI 5^ Serie Speciale – Contratti pubblici – n. 88 del 30 luglio 2012, per l’affidamento in concessione di 2.000 diritti per l’esercizio congiunto dei giochi pubblici ai sensi dell’art. 10, comma 9-octies, del decreto legge 2 marzo 2012 n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012 n. 44, attraverso l’attivazione della rete fisica di negozi di gioco e la relativa conduzione e di tutti agli atti a questo connessi, propedeutici e consequenziali.
Le dette parti appellanti avevano fatto presente di essere state illegittimamente escluse dalle precedenti gare per l’affidamento di concessioni per l’esercizio di giochi pubblici e di essere interessate all’aggiudicazione delle nuove concessioni messe a gara.
Avevano rammentato che, con le sentenze delle Corte di Giustizia 6 marzo 2007, n. 338, cause riunite C-338/04 e C-360/07, Placanica, e 16 febbraio 2012, cause riunite C- 72/10 e C-77/10, Costa –Cifone, erano stati rilevati profili di incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea delle procedure di affidamento di concessioni per l’esercizio dei giochi tenutesi nel 1999 e nel 2006, (queste ultime sulla base della disciplina dettata dal decreto legge n. 223 del 2006 (c.d. decreto Bersani).
In via generale, con riferimento al decreto legge n. 16 del 2012, (in applicazione del cui art. 10 commi 9 octies e 9 novies, era stata indetta la selezione impugnata) si lamentava il contrasto con le indicazioni contenute nelle citate sentenze: ad avviso della odierna parte appellante, infatti, erano state introdotte discriminazioni nei confronti dei nuovi entranti, avuto particolare riguardo alla durata delle nuove concessioni, (di soli 40 mesi, laddove le precedenti concessioni avevano avuto durata di 12 e 9 anni), in tale modo precludendo ai nuovi concessionari di ammortizzare i costi e gli investimenti sostenuti per l’ingresso sul mercato e permettendo ai vecchi concessionari di consolidare le proprie posizioni.
Si sosteneva in proposito che, al fine di puntualmente conformarsi alle citate sentenze, l’AAMS avrebbe dovuto disapplicare le norme dettate dall’art. 10, commi 9-octies e 9-novies, del decreto legge n. 16 del 2012, revocare le precedenti concessioni ed indire una nuova gara basata sui principi di parità di trattamento, trasparenza e non discriminazione (come peraltro a più riprese parte appellante aveva invano richiesto all’Amministrazione).
La disciplina di gara era illegittima anche a cagione della previsione del carattere esclusivo dell’attività di commercializzazione dei prodotti di gioco pubblici – non previsto nei precedenti bandi Bersani – e del divieto di cessione della titolarità della concessione e dei diritti sui negozi.
I numerosi profili di illegittimità del bando avrebbero fatto revocare seriamente in dubbio l’utilità della partecipazione alla gara, in quanto la lex specialis integrava un insieme di regole e requisiti immediatamente vincolanti per l’aspirante concessionario sin dal momento della sottoscrizione della domanda di partecipazione, con conseguente assunzione di obblighi produttivi di effetti con riferimento alle cause di revoca, sospensione e decadenza dalla concessione.
Proprio queste ultime erano connesse a requisiti ulteriori rispetto a quelli necessari per la partecipazione (come desumibile a contrario dalle previsioni contenute nell’art. 23 dello Schema di Convenzione) e, con riguardo alla prevista declaratoria di decadenza, dalla stessa discendeva l’incameramento della garanzia e la cessione a titolo non oneroso dell’uso dei beni materiali e immateriali di proprietà che costituivano la rete di gestione raccolta del gioco.
L’esposizione al rischio della decadenza e della revoca delle concessioni eventualmente acquisite – in ragione del contenzioso anche penale che aveva visto coinvolti i propri Centri Trasmissione Dati – determinata dalle previsioni, aventi carattere discriminatorio, inserite nel sistema normativo italiano, di fatto vanificava l’effetto utile della propria partecipazione alla selezione, stigmatizzandosi la mancanza di trasparenza delle ipotesi di decadenza e di revoca delle concessioni.
L’odierna parte appellante aveva rappresentato di avere interesse all’immediata impugnazione degli atti di gara ( pur senza aver presentato domanda di partecipazione alla gara medesima) in quanto dalle censurate previsioni della lex specialis discendeva un immediato effetto lesivo.
Esse, infatti, avevano carattere direttamente escludente: nell’imporre straordinari aggravi di natura patrimoniale, finanziaria e contabile, era stata privata di ogni effetto utile la partecipazione alla gara, ponendosi parte appellante nell’alternativa di dover rinunciare ad esercitare in Italia l’attività di impresa attraverso la rete di CTD, riconosciuta legittima dalla sentenza Costa-Cifone, o correre l’elevato rischio di incorrere in decadenza dalle concessioni eventualmente acquisite, con incameramento della garanzie prestate.
La medesima parte qui appellante aveva articolato undici macrocensure di violazione di legge ed eccesso di potere, avverso gli atti gravati, chiedendone l’annullamento ed via subordinata sollecitando la rimessione alla Corte di Giustizia di numerosi quesiti pregiudiziali.
Il primo giudice ha partitamente esaminato le censure proposte ed ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, in quanto l’odierna parte appellante non aveva presentato domanda di partecipazione alla gara.
Ha in primo luogo riassunto e vagliato gli asseriti profili di contrasto delle norme dettate dall’art. 10 comma 9 octies del decreto legge 2 marzo 2012 n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012 n. 44 ( sulla cui base era stata indetta la contestata selezione) con il diritto dell’Unione Europea e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze 6 marzo 2007, n. 338, cause riunite C-338/04 e C-360/07, Placanica, e 16 febbraio 2012, cause riunite C- 72/10 e C-77/10, Costa –Cifone, che avevano direttamente interessato il gruppo St., previa illustrazione dei tratti caratteristici delle società originarie ricorrenti e delle modalità di loro operatività in Italia.
A tale ultimo riguardo, ha rammentato che la St., di nazionalità britannica, unitamente alla St., di nazionalità maltese, svolgevano la propria attività nel mercato dei servizi di gioco e scommesse, anche con la modalità transfrontaliera, in vari Paesi europei, sulla base delle autorizzazioni rilasciate dai competenti organi del Paese di appartenenza.
La St. operava in Italia (nell’affermato esercizio dei diritti di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, di cui agli artt. 49 e 56 TFUE – prima artt. 43 e 49 del Trattato CE -) mediante operatori a sé contrattualmente legati, denominati Centri Trasmissione Dati (CTD o Centri), ubicati presso locali aperti al pubblico, i cui titolari mettono a disposizione dei giocatori il collegamento telematico e trasmettono i dati delle singole giocate a St. per incarico della stessa.
Quest’ultima gestiva direttamente le giocate, sopportava il rischio di impresa e trasmetteva ai Centri le indicazioni per il calcolo delle vincite e i pagamenti.
La detta attività veniva esercitata in Italia attraverso i titolari dei Centri sulla base di un rapporto riconducibile allo schema contrattuale del mandato, non potendosi ravvisare attività di intermediazione; ciò senza, tuttavia, essere in possesso di alcun titolo concessorio e senza l’autorizzazione di polizia [il cui rilascio – ai sensi dell’art. 88 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di cui al Regio Decreto 18 giugno 1931 n. 773 (TULPS) – presupponeva la titolarità di una concessione].
Il Tar ha poi rammentato che, sulla base della normativa vigente (art. 2 commi 2 bis e 2 ter, del decreto legge n. 40 del 2010 convertito nella legge n. 73 del 2010), il gioco con vincita in denaro poteva essere raccolto dai soggetti titolari di valida concessione rilasciata dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato esclusivamente nelle sedi e con le modalità previste dalla relativa convenzione di concessione, con esclusione di qualsiasi altra sede, modalità o apparecchiatura che ne permettesse la partecipazione telematica.
Con disposizione interpretativa e quindi retroattiva, tale previsione aveva altresì stabilito che il citato art. 88 del TULPS si interpretava nel senso che la licenza ivi prevista, ove rilasciata per esercizi commerciali nei quali si svolgeva l’esercizio e la raccolta di giochi pubblici con vincita in denaro, era da intendersi efficace solo a seguito del rilascio ai titolari dei medesimi esercizi di apposita concessione per l’esercizio e la raccolta di tali giochi.
Da ciò conseguiva la necessità della compresenza sia della concessione che dell’autorizzazione di polizia, a prescindere dalla distinzione tra soggetti delegati e titolari, nonché tra l’utilizzo di sistemi telematici o altri, anche con riferimento a soggetti che esercitavano l’attività di gioco e di scommesse agendo per conto di una società comunitaria.
Quanto invece al quadro normativo di riferimento in materia di organizzazione del settore della raccolta delle scommesse, il Tar ha posto in luce che l’attribuzione delle concessioni per l’organizzazione di scommesse su eventi sportivi era stata gestita, fino al 2002, dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) e dall’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine (l’UNIRE); nel 2002 le competenze del CONI e dell’UNIRE in materia di scommesse su eventi sportivi erano state trasferite, in seguito ad una serie di interventi legislativi, all’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato che agisce sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Con il decreto legge n. 223 del 2006 (c.d. decreto Bersani), convertito in legge dalla legge n. 248 del 2006, era stata demandata all’adozione di decreti ministeriali la disciplina della raccolta del gioco su eventi diversi dalle corse dei cavalli, prevedendosi l’ammissione a tale attività degli operatori che esercitavano la raccolta di gioco presso uno Stato membro dell’Unione europea, degli operatori di Stati membri dell’Associazione europea per il libero scambio e anche degli operatori di altri Stati.
In ultimo, l’art. 10 comma 8 octies, del decreto legge n. 16 del 2012 aveva introdotto, nelle more di un riordino delle norme in materia di gioco pubblico, una disciplina volta a favorire tale riorganizzazione attraverso, innanzitutto, un primo allineamento temporale delle scadenze delle concessioni aventi ad oggetto la raccolta delle scommesse, e con contestuale adeguamento ai principi stabiliti dalla sentenza Costa-Cifone delle regole nazionali di selezione dei soggetti che, per conto dello Stato, raccoglievano scommesse.
Ivi era stata prevista, in considerazione della scadenza di un gruppo di concessioni per la raccolta delle scommesse, l’indizione di una gara per la selezione dei soggetti che dovevano raccogliere le scommesse aperta a tutti i soggetti che già esercitavano attività di raccolta di gioco in uno degli Stati dello spazio economico europeo, stabilendosi il numero di diritti da concedere, il relativo prezzo e la durata delle concessioni, nonché i criteri per il loro affidamento.
Così delineato il quadro di rifermento normativo, il Tar ha quindi rimarcato che sulla delicata materia (ed in particolare sulla questione della attività di raccolta di gioco e scommesse attraverso i CTD senza concessione e senza autorizzazione in territorio italiano) si erano susseguite numerose pronunce della Corte di Giustizia.
In particolare, la sentenza n. 243 del 6 novembre 2003 (c.d. Gambelli), resa con riferimento alle concessioni rilasciate nel 1999 (c.d. concessioni CONI), nel rilevare come l’assenza di operatori stranieri tra i concessionari del settore delle scommesse relative ad eventi sportivi in Italia fosse dovuta alla circostanza che la normativa italiana in materia di bandi di gara escludesse, in pratica, che le società di capitali quotate sui mercati regolamentati degli altri Stati membri potessero ottenere concessioni, aveva ritenuto che tale normativa costituisse una restrizione alla libertà di stabilimento.
Il predetto sistema di operatività del gruppo St. in Italia attraverso CTD privi di concessioni e di autorizzazioni aveva poi formato oggetto di successive pronunce della Corte di Giustizia: con la sentenza 6 marzo 2007, n. 338, cause riunite C-338/04 e C-360/07 (c.d. sentenza Placanica), era stata esaminata la compatibilità della normativa italiana con i principi del Trattato, ivi affermandosi che una normativa nazionale che vieti l’esercizio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione e di trasmissione di proposte di scommesse, in particolare sugli eventi sportivi, in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro interessato, costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento, nonché alla libera prestazione dei servizi, previste, rispettivamente, dagli artt. 43 e 49 CE.
Nella predetta decisione, tuttavia, si era predicata la possibilità che la normativa nazionale introducesse restrizioni alla libera prestazione di servizi, in considerazione di specifici obiettivi da perseguire (lotta contro la criminalità e canalizzazione delle attività dei giochi di azzardo nei circuiti controllati), affermandosi che sarebbe spettato – in tale eventualità – ai giudici nazionali verificare se la normativa nazionale rispondesse realmente all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti.
Il primo giudice ha, altresì, posto in risalto che, con la citata decisione, la Corte aveva ribadito la non conformità ai principi del Trattato di una normativa nazionale escludente dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali, le cui azioni erano quotate nei mercati regolamentati, ed aveva, pure, affermato, con riferimento alle previste sanzioni penali, la contrarietà con gli artt. 43 e 49 CE di una normativa nazionale che imponeva una sanzione penale a soggetti che avevano esercitato un’attività organizzata di raccolta di scommesse in assenza della concessione o dell’autorizzazione di polizia richieste dalla normativa nazionale, allorché questi soggetti non avessero potuto ottenere le dette concessioni o autorizzazioni a causa del rifiuto di tale Stato membro, in violazione del diritto comunitario, di concederle loro.
Con la successiva sentenza 16 febbraio 2012,adottata sulle cause riunite C-72/10 e C-77/10, c.d. Costa-Cifone, la Corte di Giustizia aveva rilevato la contrarietà al diritto dell’Unione della normativa nazionale, che, nel tentare di rimediare all’esclusione di una categoria di operatori dall’attribuzione di concessioni per l’esercizio di un’attività economica in violazione del diritto dell’Unione, aveva messo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, proteggendo le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti attraverso la previsione della necessità di distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti.
Ivi era stato ancora affermato (quanto alle norme contemplanti la decadenza di concessioni rilasciate al termine della gara) che le cause di decadenza dovessero essere formulate in modo chiaro, preciso e univoco, in modo da non creare incertezza quanto all’obiettivo ed agli effetti delle relative previsioni.
Parimenti era stato ribadito il principio (fondato sugli articoli 43 e 49 CE) della preclusione alla applicabilità di sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione: ciò doveva valere anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara – e la conseguente attribuzione di nuove concessioni – non avesse effettivamente rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara.
Immediatamente dopo la ricostruzione di tale ordito normativo e giurisprudenziale, il primo giudice ha scrutinato la questione della ammissibilità del ricorso, avuto riguardo alla mancata presentazione, da parte delle società originarie ricorrenti, della domanda di partecipazione alla contestata procedura selettiva per l’affidamento delle concessioni.
Quanto a tale profilo, il Tar ha rammentato che parte appellante sosteneva il carattere immediatamente lesivo di talune disposizioni di gara, che avrebbero reso inutile – o comunque antieconomica – la partecipazione alla gara, precludendo qualsiasi prospettiva imprenditoriale di conservare il rapporto concessorio in caso di aggiudicazione. Ciò muovendo da due assunti: la propria posizione di soggetto illegittimamente escluso dalle precedenti procedure di affidamento delle concessioni, in ragione della contrarietà delle discipline regolanti le stesse al diritto dell’Unione Europea, per come riconosciuto dalla Corte di Giustizia; l’affermato carattere immediatamente lesivo ed escludente di talune delle disposizioni della disciplina di gara.
Ad avviso di parte appellante, la lex specialis di gara le imponeva l’alternativa di dover rinunciare ad esercitare la propria attività di impresa transfrontaliera attraverso la propria rete di Centri Trasmissione Dati – asseritamente riconosciuta legittima dalle sentenze Placanica e Costa–Cifone – al fine di evitare di incorrere in ipotesi di decadenza dalla concessione, o di partecipare alla selezione esponendosi all’applicazione delle previste cause di decadenza dalla concessione, con incameramento delle garanzie prestate, il che avrebbe reso antieconomica la partecipazione stessa.
Muovendosi dall’affermato carattere di legittimità ad operare in Italia attraverso la propria rete di Centri (prestesamente impresso alla propria attività dalle richiamate sentenze della Corte di Giustizia e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione penale), si denunciava il perdurante contrasto della regolamentazione della gara ai principi comunitari declinati dalla Corte di Giustizia: ciò legittimava parte odierna appellante alla proposizione del gravame pur in carenza di presentazione della domanda di partecipazione alla gara.
Il primo giudice ha quindi proceduto alla disamina dei motivi di ricorso affermando in via di premessa il principio secondo il quale le pronunce della Corte di Giustizia invocate non potevano rivestire idoneità alcuna ad incidere, modificandole, sulle regole del regime impugnatorio vigente e sulle condizioni dell’azione, proprie della disciplina nazionale.
Ha poi rammentato il consolidato principio (in punto di immediata aggredibilità dei bandi di gara in carenza di avvenuta emissione dell’atto applicativo ), secondo il quale, laddove gli atti di gara rechino delle condizioni di partecipazione immediatamente lesive della posizione soggettiva degli aspiranti, in quanto aventi carattere escludente, dalla mancata presentazione della domanda di partecipazione ad una gara non discendeva l’inammissibilità dell’impugnazione proposta avverso i relativi atti.
Dall’adesione a tale insegnamento, discendeva la necessità di accertare la sussistenza delle condizioni di legittimazione attraverso il riscontro del carattere immediatamente lesivo delle contestate previsioni e la ricostruzione della fisionomia dell’interesse azionato con le singole censure proposte.
In ossequio a tale necessità, il primo giudice ha immediatamente preso in esame le censure concernenti la prevista durata delle concessioni da affidare attraverso la contestata gara.
Tale durata (la scadenza era fissata al 30 giugno 2016), ad avviso delle odierne appellanti, era eccessivamente modesta (rectius: incomparabilmente ristretta rispetto alla durata delle pregresse concessioni) e rendeva non remunerativa la partecipazione alla procedura evidenziale (oltre a consolidare la posizione dei precedenti affidatari, in spregio al dictm contenuto nella sentenza Costa-Cifone della Corte di Giustizia).
In contrario senso, il Tar ha rilevato che, all’evidenza, si trattava di previsione non incidente in alcun modo sui requisiti di partecipazione alla gara, inerendo invece ad una caratteristica del rapporto concessorio da instaurarsi a seguito dell’eventuale aggiudicazione.
Le previsioni incidenti sulla decisione di convenienza – o meno – a partecipare alla gara non potevano in alcun modo essere ricondotte, in senso tecnico e giuridico, ai requisiti di partecipazione alla gara, giustificanti la pronta impugnazione della lex specialis pur in assenza di una domanda di partecipazione.
Per altro verso, l’immediata impugnazione delle clausole del bando – a prescindere dalla presentazione di una domanda di partecipazione alla gara – doveva ritenersi consentita solo quando le stesse clausole fossero state assolutamente irragionevoli e tali da non consentire (nei confronti di tutti i partecipanti e non già di uno soltanto di essi) una valida formulazione dell’offerta: nel caso di specie non ricorreva certamente detta situazione, di guisa che detto profilo di autorizzazione all’ammissibilità del gravame era carente.
Il Tar ha poi vagliato, anche in concreto, le obiezioni mosse da parte appellante alla previsione di contenuta durata delle concessioni, escludendone la fondatezza, in quanto a tale ridotta durata, stabilita per consentire ‘un primo allineamento temporale delle scadenze delle concessioni’ – per come previsto dal citato art. 10, comma 9-octies del decreto legge n. 16 del 2012 – faceva da contrappeso una serie di misure che avevano reso gli obblighi e gli oneri connessi alle nuove concessioni meno gravosi a fronte di quanto previsto per le concessioni precedentemente affidate aventi durata più lunga.
La lex specialis, infatti, e, prima di essa, il suindicato precetto normativo avevano eliminato i limiti riferiti alle distanze tra gli esercizi (cfr Corte di Giustizia, sentenza Costa-Cifone) ed al numero di concessioni attribuibili.
Inoltre: a) era stata fissata una base d’asta a livello normativo sensibilmente inferiore rispetto alle precedenti procedure; b) era stato dimezzato il numero di terminali da utilizzare; c) erano stati ridimensionati gli importi della cauzione provvisoria e di quella definitiva rispetto a quelli delle precedenti gare, parametrandoli alla diversa e minore durata dell’affidamento.
Dunque la durata delle nuove concessioni risultava congrua rispetto al ridotto importo di ciascun diritto ed in alcun modo essa poteva essere considerata una previsione escludente, tale da consentire il riconoscimento, in capo alla parte appellante, di una posizione giuridica legittimante l’azione.
Peraltro l’orientamento giurisprudenziale postulante la possibilità di impugnazione della lex specialis di gara, anche in caso di mancata presentazione della domanda di partecipazione, circoscriveva tale possibilità con riferimento alle ipotesi di clausole precludenti l’utile partecipazione alla gara, nei confronti di tutti gli aspiranti (e non con riferimento ad uno solo di essi).
Per concludere sul punto, il primo giudice ha rimarcato che la prevista durata delle concessioni era funzionale all’obiettivo di allineare cronologicamente le loro scadenze (30 giugno 2016) a quelle delle convenzioni precedentemente stipulate (a quel 30 giugno 2016 cessavano le concessioni c.d. Bersani): i relativi negativi effetti erano contemperati, appunto,dal previsto affievolimento degli oneri gravanti sul partecipante, per cui nessun carattere discriminatorio poteva ravvisarsi in tale contenuta durata (del resto la giurisprudenza comunitaria richiedeva che la durata delle concessioni fosse fissata in modo tale da consentire di ammortizzare gli investimenti e remunerare i capitali impiegati: ciò risultava pienamente realizzato).
Neppure, ad avviso del Tar, era riscontrabile una discriminazione a favore dei precedenti concessionari, non essendovi alcuna garanzia che gli stessi sarebbero risultati aggiudicatari delle nuove concessioni e non contenendo la lex specialis alcuna previsione di privilegio per gli stessi.
La circostanza che l’appellante fosse stata in passato destinataria delle richiamate pronunce della Corte di Giustizia non configurava in capo alla stessa una speciale legittimazione a dolersi (in assenza di domanda di partecipazione alla procedura) della relativa regolamentazione.
E per altro verso, l’essere stata – per come riconosciuto dalle sentenze della Corte di Giustizia – illegittimamente esclusa dalle precedenti procedure di affidamento delle concessioni di gioco, non faceva sì che la stessa avesse acquisito la titolarità di una speciale posizione di interesse qualificato e differenziato, rispetto alla generalità dei soggetti, che consentisse di prescindere dalla proposizione della domanda di partecipazione alla gara al fine di radicare il proprio interesse.
Al successivo capo (n. 5) della gravata decisione, il Tar ha preso in esame le censure avversanti le previsioni contenute nella lex specialis di gara relative alle cause di revoca e di decadenza della concessione (previste dallo schema di convenzione relativo al rapporto di concessione per l’esercizio dei giochi pubblici, di cui all’art. 10, comma 9-octies, del decreto legge n. 16 del 2012)
Dette previsioni, contenute nell’art. 23, comma 2, lettere a), e) e k), del medesimo schema, si riferivano, in particolare:
-. alle ipotesi di rinvio a giudizio per reati giudicati dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato tali da far escludere l’affidabilità, la professionalità e l’idoneità morale del concessionario, in ragione della natura, della gravità, delle modalità di esecuzione e della connessione con l’oggetto dell’attività affidata in concessione;
-. alle ipotesi di organizzazione, esercizio e raccolta di giochi pubblici con modalità e tecniche diverse da quelle previste dalle disposizioni legislative, regolamentari e convenzionali vigenti;
-. alle ipotesi di violazione accertata dagli organi competenti della normativa in materia di repressione delle scommesse e del gioco anomalo, illecito e clandestino.
Ad avviso di parte appellante, dette prescrizioni erano idonee a privare di qualsiasi utilità economica la partecipazione alla gara, con riveniente affermata loro immediata lesività e impugnabilità, a prescindere dall’avvenuta presentazione di una domanda di partecipazione.
Il ragionamento svolto per supportare questa tesi era stato il seguente: in ragione della propria posizione di soggetto esercitante in territorio italiano l’attività transfrontaliera in materia di scommesse senza essere in possesso di concessione, né di autorizzazione di polizia, della pendenza di procedimenti penali a carico di taluni esponenti aziendali per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 401 del 1989, dell’esercizio, attraverso i propri CTD, di attività di gioco con modalità diverse da quelle previste dalla disciplina italiana ed in violazione della normativa in materia di repressione del gioco irregolare, essa paventava di incorrere nelle previste cause di decadenza.
Una volta conseguita l’aggiudicazione, le sarebbe stato comunque precluso l’esercizio delle attività di cui alla concessione (destinata ad essere travolta da una declaratoria di decadenza) con conseguente incameramento delle garanzie prestate e grave danno economico.
Di fatto, dette previsioni sarebbero state preclusive dell’utile partecipazione alla gara (con conseguente loro impugnabilità a prescindere dalla presentazione della domanda di partecipazione alla procedura).
Il Tar ha disatteso, però, anche tale prospettazione del mezzo di primo grado.
Il primo giudice, infatti – pur contestando la trasposizione alla fase di qualificazione (e, quindi, di partecipazione alla procedura) di condizioni previste dalla regolamentazione di gara solo quali requisiti di mantenimento della concessione (pena la decadenza), inerenti, cioè, ad una fase successiva all’aggiudicazione – ha comunque esaminato nel merito dette censure, disattendendole.
Nella tesi della originaria parte ricorrente simili clausole le avrebbero precluso l’utile partecipazione alla procedura: ciò sia in relazione alla denunciata sussistenza dei presupposti per la declaratoria della decadenza dalla concessione in ragione del proprio modus operandi, sia con riferimento alla necessità (al fine di non incorrere in tale decadenza) di rinunciare ad esercitare la propria attività di impresa transfrontaliera attraverso la propria rete di Centri Trasmissione Dati (quest’ultima, nell’assunto, riconosciuta legittima dalle sentenze Placanica e Costa–Cifone).
Senonché, ad avviso del Tar, tali presupposti erano insussistenti.
Ciò in quanto la giurisprudenza comunitaria, nell’affermare che il divieto – penalmente sanzionato – di esercitare attività nel settore dei giochi d’azzardo in assenza di concessione o di autorizzazione rilasciata dallo Stato, comportava restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi (sentenze Gambelli e Placanica), aveva riconosciuto, tuttavia, l’ammissibilità di restrizioni a tali diritti o a titolo di misure derogatorie espressamente previste agli artt. 45 e 49 CE, o in quanto giustificate da motivi imperativi di interesse generale.
Analogo giudizio di compatibilità del sistema concessorio con il diritto dell’Unione era stato espresso dalla Corte di Giustizia con riferimento all’instaurazione di monopoli pubblici, potendo un sistema nazionale, che prevedesse un’autorizzazione limitata dei giochi d’azzardo nell’ambito di diritti speciali o esclusivi riconosciuti o concessi a determinati soggetti, essere volto al perseguimento di obiettivi di interesse generale di tutela del consumatore e dell’ordine sociale.
Con specifico riferimento alla posizione della St. – operante in Italia attraverso i CTD, quali operanti tramite l’offerta dei loro servizi in locali aperti al pubblico, con la messa a disposizione degli scommettitori di un percorso telematico per accedere al server della St. situato nel Regno Unito, Centri i cui gestori, esercitando attività di raccolta di scommesse senza concessione e senza, conseguentemente, l’autorizzazione di polizia, erano passibili di sanzione penale -, la sentenza Placanica, nel rilevare la contrarietà ai principi del Trattato delle disposizioni precludenti alle società di capitali di ottenere la concessione per l’attività di gioco ed atte, così, a rendere impossibile, in modo illegittimo, l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario, aveva affermato, quanto alle autorizzazioni di polizia, che la loro mancanza non potesse essere addebitata ai soggetti; ciò dato che costoro non avrebbero potuto ottenere quelle autorizzazioni per il solo fatto che il rilascio di tale autorizzazione presupponeva l’attribuzione di una concessione di cui detti soggetti non avevano potuto beneficiare in violazione del diritto comunitario.
Con la sentenza Costa-Cifone la Corte aveva ravvisato un ingiustificato ostacolo alla partecipazione alla “gara Bersani” della St., i cui rappresentanti erano all’epoca sottoposti a procedimenti penali avviati prima della sentenza Placanica (ai sensi della quale non potevano applicarsi sanzioni penali – per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o autorizzazione di polizia – a persone legate a un operatore già escluso dalle gare in violazione del diritto dell’Unione).
Sulla base di tale presupposto, aveva ritenuto dunque la Corte che la nuova gara c.d. Bersani non avesse rimediato all’esclusione dell’operatore dalla precedente gara (cui si riferiva la sentenza Placanica).
La detta sentenza, quindi, si limitava ad affermare la preclusione all’applicazione di sanzioni penali per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate a un operatore, come la St., che, appunto, era stato escluso dalle gare precedenti in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara prevista dal decreto Bersani.
In coerente applicazione di tali principi interpretativi, la Corte di cassazione penale aveva disapplicato la norma sanzionatoria recata dall’art. 4 della legge n. 401 del 1989 in ragione della peculiare posizione della società St..
Da tali arresti giurisprudenziali discendeva la conseguenza che la portata delle sentenze della Corte di Giustizia riverberava effetti (quanto alla posizione di una società ricorrente rispetto all’ordinamento italiano) solo con riferimento alla non suscettibilità di applicazione delle sanzioni penali per l’esercizio del gioco da parte di propri esponenti aziendali o titolari dei CTD, in quanto illegittimamente esclusa dalle precedenti gare in virtù di una disciplina contraria ai principi del Trattato.
Ciò non implicava che fosse stato in tal modo scalfito il sistema concessorio, ritenuto ammissibile in quanto giustificato da scopi di interesse generale e, di per sé, proporzionato al perseguimento degli stessi.
Se le pronunce comunitarie esplicavano certamente, quindi, effetti sul piano delle conseguenze penali previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio dell’attività di gioco e scommesse senza concessione e senza autorizzazione di polizia (ciò a fronte dell’illegittima esclusione della St. dalle precedenti procedure di affidamento delle concessioni, come derivante da riscontrati profili di contrasto con il diritto comunitario di talune previsioni dettate dalle discipline delle gare precedentemente indette), giammai era stata affermata, nelle citate pronunce, la conformità del modus operandi St. attraverso i propri CTD al diritto interno italiano.
Non era stata quindi mai affermata una “esenzione” di parte appellante dall’assoggettamento alla disciplina interna di carattere concessorio, né mai era stata sancita la contrarietà del sistema concessorio ed autorizzatorio al diritto comunitario.
Tali pronunce si erano limitate ad affermare, si ripete, come in ragione della illegittima esclusione – derivante da talune previsioni della complessiva disciplina interna, ivi compresa quella riferita alle gare espletate – non potessero derivare conseguenze sul piano penale.
L’assenza di un’armonizzazione comunitaria nel settore dei giochi e le notevoli diversità degli obiettivi perseguiti e dei livelli di protezione ricercati dalle normative dei vari Stati comunitari consentivano che uno Stato membro potesse non considerare sufficienti i controlli cui l’operatore estero soggiaceva nel Paese dell’Unione dove era stabilito (e che lo facoltizzavano allo svolgimento di operazioni transfrontaliere). Non era pertanto contraria ai principi dell’Unione l’imposizione di specifici ed ulteriori meccanismi di controllo e di abilitazione, potendo quindi la normativa nazionale introdurre restrizioni alla libera prestazione di servizi garantita dall’art. 49 del Trattato, giustificate da motivi imperativi di interesse generale a condizione che siano rispettati i criteri di reale finalizzazione, proporzionalità ed effettività, equivalenza e non discriminazione.
In conclusione, ad avviso del Tar, poteva affermarsi la legittimità comunitaria del sistema concessorio fondato sul titolo concessorio e su quello autorizzatorio.
Pregnante conseguenza di tale ricostruzione riposava nella affermazione per cui, dalle richiamate decisioni della Corte di Giustizia, discendeva il solo effetto della esclusione, per il passato, della punibilità per i soggetti impossibilitati ad ottenere la concessione in ragione della contrarietà al diritto comunitario di taluni profili della normativa disciplinante le relative gare di affidamento.
Al di fuori delle condizioni di diritto e di fatto su cui poggiavano le sentenze Placanica e Costa-Cifone, si riespandeva quindi l’assoggettamento della originaria ricorrente alla normativa nazionale, anche penale, stante il contrasto delle modalità con cui essa operava in Italia (CTD) con il diritto interno.
Anche la Corte di cassazione penale (Sez. III, 16 maggio 2012 n. 18767) aveva affermato che (al di fuori dei casi di sanzioni applicate a soggetto già illegittimamente escluso dalle gare in violazione del diritto dell’Unione), “qualora non si tratti di una società che si trovi in questa particolare situazione, la normativa nazionale che sottopone a concessione ed autorizzazione di polizia la raccolta di scommesse non è in contrasto con le norme del Trattato, essendo finalizzata alla tutela di interessi di ordine pubblico (limitazione e controllo del giuoco d’azzardo; impedimento alle infiltrazioni della criminalità organizzata e ad operazioni di riciclaggio), con l’ulteriore conseguenza che i centri di trasmissione dati che operano per società che non si trovano nella detta situazione senza essere muniti delle necessarie concessioni ed autorizzazioni di polizia non sono esenti dalle sanzioni penali.”
In sintesi, ad avviso del primo giudice, nessuna consolidata posizione – avente copertura nelle pronunce della Corte di Giustizia – poteva vantare l’appellante in ordine alla possibilità di proseguire la propria attività in Italia attraverso la propria rete, non risultando essa in alcun modo affrancata dal rispetto della normativa interna, ritenuta non illegittima dalla Corte di Giustizia.
La prospettata alternativa tra la scelta di partecipare alla gara rinunciando al contempo, alla propria attività transfrontaliera, altrimenti incorrendo in una causa di decadenza dalla concessione, non costituiva una conseguenza della disciplina di gara tale da connotarla in termini di immediata lesività, ma discendeva, piuttosto, da una libera scelta della odierna parte appellante.
In punto di legittimazione attiva, la contestata previsione della decadenza dalla concessione per i casi di organizzazione, esercizio e raccolta di giochi pubblici con modalità e tecniche diverse da quelle previste dalle disposizioni legislative regolamentari e convenzionali vigenti e per le ipotesi di violazione accertata dagli organi competenti della normativa in materia di repressione delle scommesse e del gioco anomalo, illecito e clandestino – di cui allo schema di convenzione – non era suscettibile di arrecare un danno immediato alla posizione di parte appellante tale da consentirne l’immediata impugnazione pur in assenza di domanda di partecipazione alla gara, avendo quest’ultima la possibilità, una volta conseguita l’aggiudicazione, di rimuovere la situazione riconducibile alle previste cause di decadenza.
Né, sulla base di una inammissibile trasposizione delle conseguenze penali delle sentenze della Corte di Giustizia sul piano amministrativo, poteva riconoscersi all’attività della St. il carattere di legittimo esercizio delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi: ciò proprio perché le dette pronunce si erano limitate ad affermare la non punibilità penale dei soggetti incorsi in ipotesi di reato in ragione dell’esercizio di attività di gioco in assenza di una concessione che era stata illegittimamente loro negata.
Da ciò non poteva desumersi il riconoscimento della legittimità di tali attività successivamente all’indizione di una nuova gara o la sussistenza di una posizione protetta dalla giurisprudenza comunitaria, che dovessero essere salvaguardate dalla nuova disciplina di gara.
Diversamente argomentando, si sarebbe finito con l’attribuire alla St. una posizione di ingiustificato privilegio.
Ciò in ragione della possibilità in capo a questa di operare senza i vincoli derivanti dal sistema concessorio (prestazione di cauzione, rischio di decadenza, limite al numero dei punti commerciali, posizionamento dei locali) che invece gravavano su coloro che avevano partecipato alla gara e si erano aggiudicati la concessione, ed in ragione della possibilità di stipulare contratti per la gestione dei punti di commercializzazione con persone che nei fatti non erano sottoposte ai controlli preventivi previsti dal T.U.L.P.S. (e che, per questo, a differenza dei gestori dei punti di commercializzazione riferibili a soggetti concessionari, non erano soggette a revoca dell’autorizzazione neppure in caso di sopravvenute situazioni di incompatibilità col regime della autorizzazione e della concessione).
La stessa Corte di Giustizia, nella sentenza Placanica, nell’affermare che “in assenza di una procedura di attribuzione di concessioni aperta agli operatori che erano stati illegittimamente esclusi dalla possibilità di beneficiare di una concessione nell’ultimo bando di gara, la mancanza di concessione non può costituire oggetto di sanzioni nei confronti di tali operatori”, presupponeva che l’assoggettamento all’ordinamento interno, anche sotto il profilo sanzionatorio, doveva trovare piena riespansione al momento in cui agli operatori illegittimamente esclusi fosse stata data la possibilità di ottenere la prevista concessione attraverso una procedura di affidamento, valendo le condizioni di non punibilità unicamente per il periodo anteriore all’indizione di una nuova gara e di attribuzione di nuove concessioni e non avendo la Corte di Giustizia in alcun modo pienamente legittimato le attività svolte dalle società ricorrenti in Italia attraverso i CTD.
Il Tar ha poi rammentato che l’odierna parte appellante aveva anche sostenuto l’affermata illegittimità dell’indizione di una nuova gara di affidamento di concessioni per l’esercizio delle attività di gioco, sull’assunto che lo Stato avrebbe dovuto procedere, al fine di conformarsi a quanto statuito dalla Corte di Giustizia, alla revoca di tutte le concessioni precedentemente rilasciate per poi affidarle sulla base di una nuova procedura.
Ma tale tesi collideva con quanto affermato dalla Corte di Giustizia, secondo la quale l’indizione di una nuova gara per l’affidamento di nuove concessioni era riconosciuta quale rimedio adeguato per la tutela dei diritti degli operatori illegittimamente esclusi dalle precedenti gare.
Tale ultima opzione, peraltro, si appalesava corretta anche sul piano dell’opportunità amministrativa, laddove l’auspicata revoca di tutte le concessioni precedentemente rilasciate e la loro successiva distribuzione avrebbe illegittimamente inciso sulle posizioni acquisite dai concessionari – irrimediabilmente pregiudicati da una eventuale revoca, adottata al fine di rimediare all’illegittima esclusione di taluni operatori -, la quale non sarebbe risultata rispondente al criterio di proporzionalità, tenuto conto del sacrificio che sarebbe imposto ai precedenti concessionari rispetto allo scopo (che era quello di consentire agli operatori precedentemente illegittimamente esclusi di poter operare in Italia sulla base di un titolo concessorio conseguito in condizioni di parità con altri soggetti).
Tale ultima esigenza era stata pienamente salvaguardata dalla indizione della nuova gara avversata.
Anche a non sottacere che i precedenti concessionari potevano godere di un vantaggio concorrenziale (per avere iniziato la propria attività prima degli operatori illegittimamente esclusi ed essersi insediati sul mercato con una certa notorietà e con una clientela propria), le conseguenze applicative delle sentenze della Corte di Giustizia non si estendevano alla necessità di eliminazione di tale vantaggio competitivo attraverso la revoca delle concessioni, sancendo esse il solo limite, in caso di adesione alla diversa opzione (pure suggerita) di indizione di una nuova gara, di non concedere agli operatori esistenti ulteriori vantaggi concorrenziali rispetto ai nuovi concessionari, vantaggi che potessero perpetuare e rafforzare gli effetti dell’esclusione illegittima di questi ultimi dalle precedenti gare ( il che avrebbe integrato una ulteriore violazione degli articoli 43 e 49 del Tratto e del principio di parità di trattamento), rendendo eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione agli operatori illegittimamente esclusi dalle precedenti gare.
La nuova disciplina sottesa all’affidamento di concessioni di gioco aveva eliso – in coerente applicazione con le indicazioni comunitarie – i profili di ritenuta incompatibilità comunitaria della precedente regolamentazione, sancendo l’assenza di limiti territoriali e di concentrazione numerica dei diritti assegnabili, così evitando che i soggetti già concessionari potessero godere di una situazione di vantaggio rispetto ai nuovi concessionari.
In conclusione, anche sotto tale profilo, ad avviso del Tar, le condizioni di parità, invocate al fine di poter conseguire il titolo concessorio, non transitavano necessariamente attraverso la previa revoca delle precedenti concessioni e la loro messa a gara, ma erano adeguatamente soddisfatte dalla nuova gara, “depurata” dai profili di incompatibilità comunitaria affermati nelle citate sentenze della Corte di Giustizia.
Non poteva, quindi, riconoscersi, in capo alle appellanti, una posizione giuridica qualificata e tutelata ad operare, successivamente all’indizione della nuova gara, sulla base delle modalità operative e gestionali sinora attuate, con la conseguenza che le cause di decadenza riferite alle ipotesi di organizzazione, esercizio e raccolta dei giochi pubblici con modalità diverse da quelle previste dalla normativa anche regolamentare e convenzionale, ed alle ipotesi di violazione della normativa in materia di repressione delle scommesse e del gioco anomalo, illecito e clandestino (di cui all’art. 23 dello schema di convenzione) non si traducevano in clausole immediatamente lesive, tali da legittimarne l’immediata impugnazione pur in assenza di una domanda di partecipazione alla selezione.
Le previste cause di decadenza si riferivano a vicende successive all’affidamento della concessione: la permanenza nelle situazioni riconducibili a tali cause andava ascritta ad una libera scelta delle originarie ricorrenti, cosicché le stesse non potevano lamentare il carattere immediatamente lesivo delle corrispondenti previsioni sul presupposto dell’esistenza di un interesse ad un’utile partecipazione alla gara.
Semmai, il non voler rinunciare ad operare in Italia attraverso la propria rete di CDT (così non optando per l’esercizio di attività in materia di gioco sulla base di un titolo concessorio) sottoponeva le stesse alle previste cause di decadenza in virtù di una loro libera scelta di non adeguarsi alla disciplina interna.
La affermata non utilità della partecipazione alla gara – come riferita all’immediata applicabilità della previste cause di decadenza –, che avrebbe asseritamente legittimato l’immediata impugnazione dei relativi atti, pur in assenza di domanda di partecipazione, doveva invece ascriversi unicamente alla decisione delle appellanti di non dismettere, dopo l’eventuale aggiudicazione, la propria rete.
Alle medesime conclusioni, peraltro, doveva giungersi, sempre secondo il Tar, anche sulla base della distinzione tra la fase di aggiudicazione e la successiva fase del rapporto: le contestate previsioni erano infatti destinate a governare la fase esecutiva del rapporto concessorio (ontologicamente successiva alla fase di partecipazione alla gara e di aggiudicazione), con la conseguenza che solo i soggetti che avevano partecipato alla procedura potevano vantare un interesse concreto e attuale, in caso di loro applicazione, a dolersene (poiché le contestate cause di decadenza, previste dallo schema di convenzione, potevano, infatti, operare solo nei confronti dell’eventuale affidatario della concessione, senza in alcun modo incidere sulla fase di partecipazione alla selezione e senza poter determinare l’esclusione del concorrente dalla stessa).
Ad avviso del Tribunale amministrativo analoghe considerazioni dovevano essere svolte anche con riferimento all’ulteriore causa di decadenza dal rapporto concessorio (indicata quale motivo ostativo all’utile partecipazione alla selezione), relativa alle ipotesi di rinvio a giudizio per reati giudicati dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato tali da far escludere l’affidabilità, la professionalità e l’idoneità morale del concessionario, in ragione della natura, della gravità, delle modalità di esecuzione e della connessione con l’oggetto dell’attività affidata in concessione.
Anche tale causa di decadenza atteneva alla fase di esecuzione e di gestione del rapporto contrattuale, non avendo alcun riflesso di tipo preclusivo sul momento di partecipazione alla selezione e di requisiti di ammissione.
Neppure poteva farsi discendere il carattere immediatamente lesivo della contestata previsione dalla dedotta circostanza che si sarebbe trattato di una mera riproduzione dell’analoga clausola di cui allo schema di convenzione accessivo alla gara c.d. Bersani, dichiarata dalla Corte di Giustizia in contrasto con il diritto dell’Unione, con conseguente perpetuazione della discriminazione già operata e dell’illegittima esclusione dall’accesso alle concessioni di gioco.
Ciò in quanto il gravato schema di convenzione recava una nuova formulazione delle cause di decadenza riconducibili al rinvio a giudizio, che aveva ottenuto il parere favorevole del Consiglio di Stato, pronunciatosi sull’affare n. 6033/2012 con parere n. 3337 del 19 luglio 2012, superando in tal modo i rilievi critici contenuti nella sentenza Costa-Cifone rivolti avverso lo schema di convenzione attinente alle procedure di gara regolate dal decreto legge c.d. Bersani.
Il vincolo discendente dalla citata sentenza non si estendeva, in effetti, ad avviso del Tar, alla preclusione per l’ordinamento interno all’introduzione di cause di decadenza non ancorate a sentenze passate in giudicato, espressamente ammettendo la Corte di Giustizia l’adozione di misure preventive nei confronti di un operatore sospettato, sulla base di indizi concludenti, di essere implicato in attività criminali, purché le circostanze nelle quali doveva applicarsi la decadenza fossero enunciate in modo chiaro, preciso e univoco.
Il Tar ha in proposito rimarcato che la valutazione di non conformità al diritto comunitario era rivolta dalla Corte alla previsione di decadenza ricollegata ad “ogni altra ipotesi di reato suscettibile di far venir meno il rapporto fiduciario con AAMS”, di cui al previgente schema di convenzione.
Al contrario, l’ultima formulazione di tale causa di decadenza, contenuta nel gravato nuovo schema di convenzione all’art. 23, comma 2, lettera a), presentava un grado di chiarezza e precisione tale da far ritenere superate le criticità riscontrate, in quanto le cause di decadenza, attraverso la formulazione della previsione in esame, erano quelle in cui la qualità di imputato si riferiva alle ipotesi previste dall’art. 24, comma 25 del decreto legge n. 98 del 2011, o alle residuali ipotesi in cui il concessionario rivestiva la qualità di indagato per i medesimi reati, ovvero di indagato o imputato per reati diversi da quelli indicati dall’art. 24, comma 25, giudicati dal legislatore di minore gravità, le quali risultavano conformi alla pronuncia Costa-Cifone ( dovendosi fondare il giudizio di inaffidabilità, di mancanza di professionalità e di inidoneità morale del concessionario su indizi concludenti, sulla natura, sulla gravità e sulle modalità di esecuzione del reato, nonché sulla sua connessione con l’oggetto dell’attività affidata in concessione).
La prevista causa di decadenza, come fondata sui criteri di non affidabilità, professionalità ed idoneità morale del concessionario, risultava, inoltre, rispondente al principio di proporzionalità rispetto all’interesse protetto, in relazione alla delicatezza del settore ed alla presenza di motivi imperativi di interesse pubblico sottesi alla sua regolamentazione.
Con l’ultimo capo della gravata sentenza (n. 7), il Tar ha preso in esame la censura volta a dolersi dell’introduzione di obblighi più onerosi rispetto a quelli cui erano soggetti i precedenti concessionari, con conseguente discriminazione a danno dei nuovi aspiranti ad ottenere il titolo concessorio.
Parte appellante, in particolare, aveva fatto riferimento all’attuazione che della legge di stabilità 2011 (13 dicembre 2010 n. 220) era stata operata, per effetto dell’adozione dei decreti n. 1845 del 2011 e n. 1861 del 2011 ( con i quali erano state introdotte prescrizioni regolatrici delle concessioni – riferite al possesso di requisiti di solidità patrimoniale, a limitazioni delle scelte imprenditoriali, di destinazione degli utili e di certificazione contabile – valevoli solo per le nuove concessioni, rendendole in tal modo molto onerose e poco appetibili).
Il Tar ha in proposito evidenziato che anche tali previsioni inerivano alla fase attuativa del rapporto concessorio (presupponendo che il soggetto che intendeva dolersene avesse presentato domanda di partecipazione alla selezione e fosse divenuto aggiudicatario, altrimenti difettando il requisito dell’interesse a ricorrere).
Ha ribadito, inoltre, che – affinché potesse ammettersi l’immediata impugnazione degli atti di gara – il carattere di antieconomicità e non utilità della partecipazione ad una gara doveva assumere carattere generalizzato ed oggettivo e non essere riferito alla situazione di un singolo aspirante partecipante: le valutazioni espresse sul punto attenevano alla sfera propria ed esclusiva di parte appellante, e non intaccavano in sé la procedura.
Trattavasi di previsioni destinate a trovare uniforme applicazione nei confronti di tutti i concessionari, cosicché le lamentate difficoltà di carattere gestionale, tecnico e organizzativo, nonché la maggiorazione dei costi e oneri di gestione, si risolvevano in circostanze di mero fatto, singolarmente riferibili alle società appellanti ed inidonee ad inficiare le contestate previsioni (oltre a non risolversi in requisiti di ammissione alla procedura selettiva, per il fatto di individuare criteri di valutazione di carattere contabile e tecnico connessi alla successiva e solo eventuale gestione del rapporto concessorio).
Parte appellante ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe sotto tutti i versanti motivazionali suindicati chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
L’atto di appello si struttura nella maniera di seguito indicata.
Nelle prime ventotto pagine del ricorso l’appellante riepiloga le principali tappe del risalente contenzioso intrattenuto con le Autorità amministrative italiane ed indica quali siano – secondo il proprio avviso – i principi giuridici che dovrebbero essere applicati in subiecta materia.
La seconda parte dell’appello (pagg. 29-75) contiene le quattro macrocensure con le quali l’appellante critica la motivazione della impugnata decisione.
In sintesi, ivi si sostiene che il Tar non avrebbe potuto dichiarare la inammissibilità del ricorso di primo grado proposto, in quanto la parte appellante medesima vantava una posizione differenziata, che ben le avrebbe consentito di censurare il bando e la convenzione accessiva pur non avendo proposto domanda di partecipazione alla gara.
I plurimi motivi di illegittimità del bando, quindi, consentivano la proposizione del ricorso, in quanto la struttura del medesimo era collidente con il diritto comunitario sotto più profili.
Nella terza porzione dell’atto di appello, (pagg. 76 -93) parte appellante ha riproposto le undici censure già prospettate in primo grado, chiedendo che questo Collegio – rimossa la statuizione di improcedibilità asseritamente erronea resa dal primo giudice – provveda ad esaminarle partitamente.
In ultimo (pag 93- 102), ha elencato quali sarebbero le questioni di interpretazione comunitaria prospettabili innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ex art. 267 TFUE.
Le parti appellate hanno depositato memorie chiedendo la declaratoria di inammissibilità od infondatezza del gravame e l’appellante ha puntualizzato le proprie doglianze depositando una memoria di replica
All’adunanza camerale del 13 maggio 2013, fissata per la delibazione della domanda cautelare di sospensione della esecutività della gravata decisione, su concorde richiesta di tutte le parti processuali, la trattazione della causa è stata rinviata al merito.
Parte appellante ha poi depositato, in vista della pubblica udienza, una memoria, chiedendo un rinvio della trattazione dell’appello, in quanto talune cause che avrebbero potuto presentare elementi di interferenza con l’odierno giudizio pendevano innanzi alla Terza Sezione del Consiglio di Stato e ne risultava già fissata l’udienza di discussione per il 14 novembre 2013.
Tale richiesta è stata respinta dalla presidenza del Collegio alla pubblica udienza del 2 luglio 2013; e in tale udienza, dopo amplissima discussione, la causa è stata posta in decisione.
Con la sentenza non definitiva n. 04199/2013 da intendersi integralmente richiamata e trascritta nel presente elaborato, la Sezione ha accolto in parte l’appello, rimuovendo la statuizione di inammissibilità resa dal Tar.
Pronunciando sul merito del riproposto ricorso di primo grado, lo ha integralmente respinto ad eccezione della riproposta censura di cui al quinto motivo del medesimo ricorso di primo grado. Non definitivamente pronunciando sul quinto motivo del ricorso di primo grado, riproposto in appello, siccome specificato ed integrato nel primo motivo dell’appello in epigrafe ha disposto la rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea delle questioni pregiudiziali indicate in motivazione.
Esse erano state così riassunte:
A) se gli artt. 49 e segg. e 56 e segg. del TFUE ed i principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza 16.02.2012 n. 72, vadano interpretati nel senso che essi ostano a che vengano poste in gara concessioni di durata inferiore a quelle in passato rilasciate, laddove la detta gara sia stata bandita al fine di rimediare alle conseguenze derivanti dall’illegittimità dell’esclusione di un certo numero di operatori dalle gare;
B) se gli artt. 49 e segg. e 56 e segg. del TFUE ed i principi affermati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella medesima sentenza 16.02.2012 n. 72, vadano interpretati nel senso che essi ostano a che l’esigenza di riordino del sistema attraverso un allineamento temporale delle scadenze delle concessioni costituisca giustificazione causale adeguata di una ridotta durata delle concessioni poste in gara rispetto alla durata dei rapporti concessori in passato attribuiti.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza 22 gennaio 2015 resa nella causa C 463/13 ha deciso sui quesiti interpretativi rimessi.
Su istanza dell’Amministrazione appellata è stata pertanto fissata per la definizione della causa l’odierna pubblica udienza del 2 luglio 2015.
La controinteressata appellata Società Sn. si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata.
La controinteressata appellata Società EU. SRL UNIPERSONALE si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata. Ha poi depositato memoria di replica confutando le argomentazioni prospettate da parte appellante principale.
La Società controinteressata appellata LO. SRL si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata. Ha poi depositato memoria di replica confutando le argomentazioni prospettate da parte appellante principale
La controinteressata appellata Società CO. SRL si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata. Ha poi depositato memoria di replica confutando le argomentazioni prospettate da parte appellante principale
La controinteressata appellata Società SI. SPA si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata.
La difesa erariale si è costituita depositando una memoria e chiedendo che – a seguito dell’arresto reso dalla Corte sovranazionale – anche l’ultima parte dell’appello venga dichiarata inammissibile e comunque venga respinta nel merito perché infondata.
Nel richiamare le proprie difese, e nel sottolineare che la Corte di giustizia, di fatto, aveva “recepito” il punto di vista reiettivo del Collegio espresso nella Ordinanza di rimessione, ha fatto presente che:
a) l’appellante si giovava di circa 7000 punti di raccolta di scommesse, a fronte delle 12.700 concessioni rilasciate;
b) che ogni discriminazione che aveva reso possibile ciò, a tutto concedere, era cessata nel 2012;
c) che la Società Eu. che si trovava nella stessa condizione dell’appellante principale aveva partecipato alla gara per cui è causa (a testimonianza della assenza assoluta di discriminatorietà di quest’ultima) aggiudicandosi ben 600 concessioni.
Il vero era che l’appellante:
a) si era “giovata” della dichiarata discriminatorietà di due gare bandite in passato, ed aveva installato i propri centri di raccolta in territorio italiano, sottraendosi all’obbligo di ottenere, per questi, l’autorizzazione di polizia, omettendo di versare all’erario il controvalore delle concessioni, (essa era quindi in regime “autorizzativo”) e tentando di non pagare i tributi (la difesa erariale ha riepilogato i termini del contenzioso tributario pendenti).
Per operare con questa conveniente strategia, essa ometteva di partecipare alle gare denunciandone la discriminatorietà e sperando che detta discriminatorietà venisse giudizialmente dichiarata, così perpetuando detto regime.
L’appellante principale St. ha depositato una articolata memoria, nell’ambito della quale ha fatto presente in via preliminare (pagg. 1-9, punti 1-22) che :
a)a seguito della decisione della Corte di Giustizia, il 25.2.2015 il fascicolo era stato restituito; ciò era stato in pari data comunicato via pec alle parti costituite; la istanza di fissazione dell’udienza da parte della difesa erariale era stata proposta il 29.4.2015 e, quindi, oltre il termine (dimidiato) di 45 gg scolpito sub art. 80 del cpa.
Ne conseguiva che doveva dichiararsi la perenzione del giudizio.
b) sulla gara de qua, e sulla (affermata dall’appellante) “discriminatorietà” ed “anticoncorrenzialità” della stessa aerano pendenti altri rinvii pregiudiziali, tra i quali spiccavano quelli disposti dal Tribunale di Frosinone e dalla Corte di Cassazione: essi avevano sollevato la questione della rispondenza a criteri di non discriminatorietà della clausola di cui all’art. 25 dell’Atto di convenzione che prevedeva la devoluzione gratuita ad AMMS degli impianti e delle reti di distribuzione in ogni ipotesi di cessazione del rapporto (decadenza, spirare del termine, etc).
Detta previsione era correlata a quella sulla breve durata delle concessioni il cui sospetto di discriminatorietà era stato “negato” dalla Corte di Giustizia.
Si imponeva una sospensione del giudizio in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia su tale questione (e su altre che erano state rimesse dai Giudici Penali nazionali). Ciò tanto più che l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con la Ordinanza n. 2/2015 aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 106 del Codice del processo amministrativo (L. n. 104/2010) e 395 e 396 del Codice processuale civile, in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 della Costituzione, nella parte in cui tali disposizioni non prevedevano un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nel merito, ha sostenuto che:
a) la sentenza della Corte di Giustizia nella odierna causa aveva un profilo oggettivamente interlocutorio, essendosi pronunciata soltanto su un aspetto (peraltro limitato) tra le varie questioni sottopostegli dai Giudici nazionali;
b) essa aveva risposto soltanto al secondo dei due quesiti rimessigli. Segnatamente, non si era pronunciata sul primo, e cioè sulla compatibilità della breve durata delle concessioni in un ottica rimediale (tenendo conto cioè, che la gara de qua era stata bandita per rimediare a precedenti discriminazioni);
Ed anche sul secondo sottoquesito (specificamente affrontato dalla Corte di Giustizia) le risposte fornite erano generiche, e scevre da concreti riferimenti alla realtà normativa italiana.
Anche la più recente legislazione italiana, invero, si appalesava diretta ad un incremento del giuoco, e non verso un decremento, il che rendeva astratto il ragionamento seguito dalla Corte di Giustizia.
Il quinto motivo di appello, pertanto, doveva essere accolto.
Con memoria di replica ha puntualizzato e ribadito dette conclusioni e parimenti sono state depositate memorie di replica dalle parti private appellate, chiedendosi la reiezione del gravame.
Alla pubblica udienza del 2 luglio 2015 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1.Viene in decisione l’ultimo segmento decisorio del ricorso proposto dalla odierna appellante avverso la sentenza del Tar indicata in epigrafe.
1.1. Va in primo luogo dato atto della avvenuta rinuncia all’intervento in giudizio formalizzata alla udienza pubblica del 2 luglio 2015 dalla difesa di Sp..
1.2. Appare poi opportuno riepilogare quale sia lo stato della controversia che il Collegio è chiamato a decidere.
2. Come rilevato nella parte in fatto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza 22 gennaio 2015 resa nella causa C 463/13 ha deciso sui quesiti interpretativi rimessi dalla Sezione con la sentenza non definitiva n. 04199/2013.
Nella detta sentenza non definitiva, peraltro (da intendersi integralmente trascritta in questa sede) la Sezione – nel rimettere in accoglimento della espressa richiesta, avanzata in via subordinata dall’appellante il quesito interpretativo alla Corte di Giustizia, previa affermazione del convincimento per cui non ricorresse nel caso di specie “ alcuna delle elencate evenienze ”esoneranti” il giudice nazionale di ultima istanza a sollevare questione pregiudiziale” – aveva esposto il proprio punto di vista sulla censura in esame.
Per comodità espositiva esso si riporta integralmente di seguito: la Sezione aveva preso le mosse dal convincimento per cui (punto 6.10) “conviene invece approfondire quello che già si è avuto modo di indicare costituire il vero nodo centrale della macrocensura di cui al quinto motivo del mezzo di primo grado riproposta nel ricorso in appello.
Essa si appunta sulla prescrizione di cui all’art. 3 della convenzione, laddove il termine di durata delle concessioni è determinato fino al 30 giugno 2016, con lo scopo, indicato dalla norma primaria, di allineare la scadenza delle nuove concessioni a quelle già rilasciate sulla base della previgente normativa.
Si sostiene la illegittimità della detta prescrizione e, a monte della disposizione di legge che la legittima ed impone (art.10 comma 9 octies lett. b del D.L. 2 marzo 2012 n. 16 convertito in legge dall’art. 1, comma 1, L. 26 aprile 2012, n. 44).
Di quest’ultima, in parte qua, si invoca la disapplicazione per supposto contrasto con il diritto comunitario.”.
La Sezione ha quindi sintetizzato (punto 6.13) il sostrato logico della doglianza: “l’appellante sostiene che le menzionate disposizioni siano illegittime, e che, a monte, la norma di legge nazionale suindicata confligga con il diritto comunitario, nei termini specificati dalla sentenza Costa-Cifone, laddove si considera non conforme al diritto comunitario una gara bandita nel detto settore dei giuochi e delle scommesse da un’autorità nazionale, che “attribuisca ulteriori vantaggi ai concessionari”.
E tale sarebbe una gara finalizzata ad attribuire concessioni di durata breve, o comunque assai più contenuta rispetto alle pregresse concessioni attribuite, in quanto perpetuerebbe il vantaggio concorrenziale derivante dall’essere i concessionari già da tempo presenti nel mercato italiano.”
Ed ha sul punto espresso il convincimento per cui “si ritiene di non aderire alla richiesta di diretta disapplicazione della norma nazionale in punto di durata della concessioni messe in gara, sulla scorta delle seguenti argomentazioni:
A) in primo luogo – e tale motivazione avrebbe ex se portata troncante – la questione della compatibilità di dette disposizioni con il diritto europeo non riguarda profili di interpretazione che la Corte di Giustizia Ce ha già esaminato nelle proprie pronunce (come per il vero riconosciuto dalla stessa parte appellante, laddove sottolinea la “novità” della questione);
B) secondariamente, e come già esposto nei pregressi paragrafi, la pretesa di ravvisare elementi di illegittimità nell’avversato bando di gara a cagione della difformità dello stesso rispetto alle precedenti modalità attributive dei diritti concessori (anche con riguardo ad un elemento assai rilevante e qualificante dell’instaurando rapporto concessorio, quale quello della durata) non appare in sé persuasiva;
C) tale non persuasività discende, tra l’altro, dalla circostanza che l’appellante ha misconosciuto un elemento assolutamente rilevante (id est: il contenuto prezzo a base d’asta, rispetto al passato), che di tale ridotta durata costituisce il logico contrappeso, unitamente alle disposizioni che avevano dimezzato il numero di terminali da utilizzare, ridimensionato gli importi della cauzione provvisoria e di quella definitiva rispetto a quelli delle precedenti gare, parametrandoli, appunto, alla diversa e minore durata dell’affidamento; se è vero, pertanto, che le concessioni messe in gara hanno minor durata di quelle precedentemente attribuite, esse sono, però, anche meno onerose e meno impegnative economicamente per l’aspirante concessionario;
D) si è già rilevato, peraltro, che le affermazioni in punto di diseconomicità della gara (in quanto contenente la detta prescrizione sulla ridotta durata delle concessioni, unitamente alle altre prescrizioni sulle quali ci si è già soffermati) risultano oggettivamente smentite dalla numerosa partecipazione alla gara da parte di numerosi gruppi, anche stranieri, secondo quanto asserito dalle parti resistenti all’appello, senza smentita di parte agente;
E) in ultimo, ma non da ultimo, l’esigenza di razionalizzare e riordinare il sistema, prevedendo, sì, una durata ridotta, ma con lo scopo di raccordarla alla scadenza delle concessioni in essere, così da conseguire un primo allineamento temporale, pare al Collegio esigenza organizzativa degna di ragguardevole considerazione; per solo apparente paradosso, essa appare proprio finalizzata a ridurre od azzerare gli inconvenienti lamentati dall’appellante poggianti su un differente regime di concessioni contemporaneamente operative, connesso ad uno stratificato ed in parte risalente meccanismo attributivo.
Dette considerazioni – che come è agevole riscontrare sono in larga parte comuni a quelle sottese alla reiezione delle doglianze (definite dal Collegio ”di dettaglio”) pure denuncianti l’antieconomicità della partecipazione alla gara per gli aspiranti “nuovi” concessionari – impediscono, lo si rimarca nuovamente, la positiva delibazione della censura principale, tendente alla disapplicazione della norma di legge primaria ed all’annullamento del bando.
Esse condurrebbero il Collegio a disattendere nel merito anche detta ultima censura prospettata.”.
Ritenendo che non sussistessero indici interpretativi comunitari che potessero indurre a ritenere già esaminata la questione, e neppure potendosi affermarsi che la stessa – al di là del convincimento espresso dal Collegio – fosse pretestuosa o manifestamente infondata od inammissibile, è stata comunque sollevata questione interpretativa pregiudiziale comunitaria.
La adita Corte di Giustizia, con la sentenza 22 gennaio 2015 resa nella causa C 463/13, da intendersi parimenti richiamata e trascritta in questa sede, ha concluso (punto 55) “dichiarando che gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché i principi di parità di trattamento e di effettività devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che preveda l’indizione di una nuova gara per il rilascio di concessioni aventi durata inferiore rispetto a quelle rilasciate in passato, in ragione di un riordino del sistema attraverso un allineamento temporale delle scadenze delle concessioni.”.
2.1.A seguito della riassunzione del giudizio da parte della difesa erariale il Collegio è chiamato a decidere, quindi, unicamente su detto ultimo segmento impugnatorio.
3.Prima di esporre quale sia il convincimento del Collegio alla luce della superiore pronuncia della Corte di Giustizia, però, deve darsi conto di alcune questioni preliminari, prospettate dall’appellante, che –ove accolte- impedirebbero (talune definitivamente, talaltre provvisoriamente) che il Collegio completasse l’esame della causa.
3.1, Deve innanzitutto darsi atto che nel corso della odierna pubblica udienza del 2 luglio 2015 parte appellante ha, in primo luogo, dettato una dichiarazione a verbale invitando i Giudici del Collegio ad astenersi dalla causa; detta sollecitazione è stata disattesa con ordinanza collegiale resa all’udienza e della quale è stata data ivi lettura dal Presidente, e recante n.3309/2015 da intendersi integralmente trascritta nel presente provvedimento, con la quale il Collegio ha disposto la prosecuzione del processo per l’ulteriore corso.
Ripresa l’udienza pubblica per la discussione, parte appellante ha proposto istanza di ricusazione: anche tale istanza è stata respinta dal Collegio, con ordinanza collegiale resa all’udienza e della quale è stata data ivi lettura dal Presidente, e recante n. 3320/2015 da intendersi integralmente trascritta nel presente provvedimento, con la quale il Collegio ha disposto la prosecuzione del processo per l’ulteriore corso.
3.1. Le indicazioni contenute nelle suindicate ordinanze collegiali, seppur sintetiche, chiariscono le ragioni della reiezione esaustivamente.
A quanto ivi chiarito, deve aggiungersi che è preciso convincimento del Collegio che:
a) il Giudice che dispone il rinvio pregiudiziale comunitario (ma anche altri incidenti,quale quello di costituzionalità etc) non solo può, ma “deve” poi decidere il restante segmento della causa a seguito della restituzione degli atti dalla Corte adita, verificandosi altrimenti una (non prevista, eccentrica) forma di automatica “sostituzione per incompatibilità” del giudice naturale (art. 25 Cost.); simile opzione ermeneutica sarebbe poi del tutto illogica, in quanto sottrarrebbe proprio al Giudice che ha manifestato il dubbio “comunitario” e/o costituzionale, il compito di decidere la causa una volta risolta la questione demandata al giudizio della Corte ad quem: non si vede, in tal modo, quale sarebbe la utilità del rinvio; non può pertanto dirsi che il Giudice che ha disposto il rinvio abbia “conosciuto della causa in altro grado”, sia divenuto incompatibile, abbia espresso un convincimento anticipato, etc.
Egli non può per tale ragione astenersi, né può essere fondatamente ricusato;
b) la circostanza che nei confronti di un Giudice che abbia reso una decisione interlocutoria, parziale etc. – e che quindi non si sia definitivamente “spogliato” della causa – sia stata intrapresa da una delle parti del detto processo una azione risarcitoria di responsabilità non può integrare causa di incompatibilità, astensione, etc ai sensi della condivisibile giurisprudenza del Giudice di legittimità (già richiamata, per il vero, nelle ordinanze collegiali di cui s’è detto: Cass. pen., sez. VI, sentenza 23 aprile 2015 n. 16924); a quanto ivi rappresentato può soltanto aggiungersi che, opinando diversamente, l’azione di responsabilità civile, ove intrapresa da una parte in corso di causa, costituirebbe –sempre e comunque- il mezzo per impedire al Giudice naturale di pronunciare definitivamente sulla controversia che ha dato causa all’azione civile medesima creando un vulnus al precetto di cui all’art. 25 Cost. sul quale il Collegio non ritiene occorra spendere ulteriori argomenti dimostrativi;
3.2. Escluso che l’avvenuta presentazione di una azione di responsabilità nei confronti di quattro Giudici che compongono l’odierno Collegio ((Presidente Paolo Numerico, Consigliere Fabio Taormina, Consigliere Diego Sabatino, Consigliere Raffaele Potenza) integri causa di astensione ex art. 51 cpc, ovvero motivo di ricusazione, ed escluso che ragioni legittimanti tali evenienze possano ritrarsi nella avvenuta emissione di una sentenza non definitiva con la quale si è disposto –in accoglimento di una richiesta proposta proprio dalla odierna parte appellante,- rinvio pregiudiziale comunitario, l’istanza di ricusazione si appalesava manifestamente infondata.
Essa era però radicalmente inammissibile per altra, troncante, ragione processuale.
L’art. 18 del cpa così recita: “1. Al giudice amministrativo si applicano le cause di ricusazione previste dal codice di procedura civile.
2. La ricusazione si propone, almeno tre giorni prima dell’udienza designata, con domanda diretta al presidente, quando sono noti i magistrati che devono prendere parte all’udienza; in caso contrario, puo’ proporsi oralmente all’udienza medesima prima della discussione.
3. La domanda deve indicare i motivi ed i mezzi di prova ed essere firmata dalla parte o dall’avvocato munito di procura speciale.
4. Proposta la ricusazione, il collegio investito della controversia puo’ disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata.
5. In ogni caso la decisione definitiva sull’istanza e’ adottata, entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito.
6. I componenti del collegio chiamato a decidere sulla ricusazione non sono ricusabili.
7. Il giudice, con l’ordinanza con cui dichiara inammissibile o respinge l’istanza di ricusazione, provvede sulle spese e puo’ condannare la parte che l’ha proposta ad una sanzione pecuniaria non superiore ad euro cinquecento.
8. La ricusazione non ha effetto sugli atti anteriori. L’accoglimento dell’istanza di ricusazione rende nulli gli atti compiuti ai sensi del comma 4 con la partecipazione del giudice ricusato” .
Il termine perentorio di proposizione è stabilito nel comma 2 della citata disposizione, e parte appellante non lo ha rispettato, proponendo l’istanza soltanto nella udienza pubblica del 2 luglio 2015.
L’istanza, peraltro, era anche errata, in quanto – forse per mero errore materiale – era diretta a ricusare anche un Magistrato del Consiglio di Stato (il Dott. Ni.Ru.) che aveva partecipato all’udienza in cui venne resa la sentenza non definitiva che ha disposto il rinvio pregiudiziale, ma che non fa parte dell’attuale Collegio giudicante (la cui composizione è per quattro quinti identica a quella del Collegio che rese la detta sentenza non definitiva, mentre il quinto componente è il Consigliere Si.Ru., il quale non concorse a rendere la detta sentenza non definitiva n. 4199/2013 e nei cui confronti non paiono potersi “traslare” le considerazioni articolate da parte appellante a sostegno della istanza di ricusazione).
3.2. Giova precisare che parte appellante sostiene di avere conosciuto soltanto in data 1 luglio 2015 la composizione dell’attuale Collegio e che per tale ragione avrebbe proposto l’istanza di ricusazione soltanto alla pubblica udienza del 2 luglio 2015.
Tale circostanza, però, è risultata smentita dalla comunicazione acquisita dal Collegio – e depositata agli atti del processo – dalla quale risulta che il ruolo della udienza 2 luglio 2015 ed in particolare la composizione del Collegio giudicante chiamato a decidere il predetto ricorso in appello n.2661/2013 risultano essere stati pubblicati e visibili sul sito intranet della giustizia Amministrativa in data 22 giugno 2015 alle ore 10.00 AM.
Sin da detta data, pertanto, la composizione del Collegio era stata pubblicata, era conosciuta e conoscibile dall’appellante, che avrebbe dovuto tempestivamente attivarsi e presentare nei termini l’stanza di ricusazione almeno tre giorni prima della data di celebrazione della pubblica udienza.
A quanto sinora esposto – che riveste portata dirimente -, può per mera completezza espositiva aggiungersi che la composizione dei Magistrati presenti alla udienza pubblica del 2 luglio 2015 è nota da tempo assai più risalente, in quanto sul Sito internet del Consiglio di Stato vengono di regola pubblicati con largo anticipo i calendarii delle udienze e la composizione dei Collegi per singola udienza;
che pertanto parte appellante sapeva (o avrebbe dovuto conoscere, con l’ordinaria diligenza) da tempo risalente che all’udienza in cui era stata calendarizzata la causa erano presenti magistrati nei cui confronti (in tesi) sussistevano motivi di astensione/ricusazione e pertanto vieppiù avrebbe dovuto tempestivamente attivarsi (il sito internet è ovviamente consultabile anche dall’estero) per conoscere la effettiva composizione del Collegio giudicante chiamato a decidere l’odierna causa.
3.3. L’istanza di ricusazione, quindi, era platealmente inammissibile, in quanto ampiamente tardiva.
3.4. Il Collegio ha pronunciato sulla stessa – non ritenendo di deferire la decisione ad altro Collegio giudicante, ai sensi dei commi 4-6 del citato art. 18 – alla stregua della condivisibile giurisprudenza che di seguito si riporta ( Consiglio di Stato, Sezione Quarta, Ordinanza Collegiale n. 03406/2011; Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza n. 01957/2012; Consiglio di Stato Sezione Quarta sentenza n. 6186 del 04/12/2012; si veda anche Cassazione civile sez. un. 12/12/2013 n. 27847).
La condivisibile ratio unificante che si trae dalle richiamate decisioni – che il Collegio condivide, fa propria, e dal quale non intende recedere – è quella per cui “il principio per cui il giudice ricusato non può partecipare alla decisione sulla sua ricusazione deve trovare applicazione tutte le volte che la questione abbia un nucleo minimo di consistenza personale, né può valorizzarsi, per giungere a conclusioni contrarie, il tenore letterale dell’art. 18 c.proc.amm., nella parte in cui, persino in ipotesi di istanze manifestamente inammissibili o infondate sembrerebbe imporre un’autonoma decisione da parte di un giudice diverso”.
3.5. Nel caso di specie – a tacere della infondatezza nel merito – la manifesta inammissibilità per tardività della istanza di ricusazione proposta soltanto alla pubblica udienza era – ed è- evidente, e ciò ha indotto il Collegio a decidere sulla detta istanza, respingendola e disponendo la ulteriore prosecuzione della causa.
4. Possono adesso essere esaminate le questioni processuali e sostanziali devolute allo scrutinio della Sezione.
4.1. Come accennato nella parte in fatto, innanzitutto l’appellante sollecita un giudizio del Collegio sulla intervenuta perenzione del giudizio.
Segnala in proposito che, a seguito della decisione della Corte di Giustizia, in data 25.2.2015 il fascicolo era stato restituito alla Segreteria della Sezione; ciò era stato in pari data comunicato via pec dalla Segreteria della Sezione alle parti costituite; la istanza di fissazione dell’udienza da parte della difesa erariale era del 29.4.2015 e, quindi, oltre il termine (dimidiato) di 45 gg di cui all’art. 80 del cpa; ne conseguiva, ad avviso dell’appellante, che doveva dichiararsi la perenzione del giudizio.
4.1.1. La difesa erariale si è difesa sul punto (oralmente, nel corso della discussione), sostenendo che tardività non v’era, in quanto essa non aveva ricevuto alcuna comunicazione dalla Corte di Giustizia, e facendo presente che parte appellante non aveva alcun interesse a sollevare la questione, che, pertanto, era da dichiarare inammissibile: ciò in quanto, l’accoglimento della eccezione implicherebbe l’estinzione dell’appello e, dunque, il consolidarsi degli atti impugnati e della sentenza di primo grado, che proprio l’appellante principale, già ricorrente di primo grado, sosteneva essere lesivi della propria posizione.
4.1.2. Osserva in proposito il Collegio che, da un canto, la Corte di Giustizia non avrebbe dovuto rendere alcuna comunicazione alla difesa erariale e, per altro verso, la questione della intervenuta estinzione del processo è rilevabile ex officio (sin da tempo risalente; si veda: Consiglio di Stato sez. V 28/03/2008 n.1334): il supposto difetto di interesse in capo a parte appellante a sollevare la relativa questione, quindi, non rileva punto ed il distinguo della difesa erariale circa il momento in cui essa avrebbe avuto conoscenza della sentenza della Corte di Giustizia non è rilevante.
4.1.3. Il Collegio, cionondimeno, non concorda con la eccezione di parte appellante e ritiene che essa vada disattesa.
Va premesso che è rimasto incontestato dalla difesa erariale che essa abbia ricevuto comunicazione tramite pec dalla Segreteria nella data indicata dall’appellante nella propria memoria difensiva: tale fatto è quindi incontrovertibile ex art. 64 del cpa; e va rilevato non essere dubbio che in materia si applichi la dimidiazione dei termini (art. 120 comma 2 cpa, che fa riferimento a “tutti i termini processuali”).
Ciò posto, il CPA (decreto legislativo 2 luglio 2010 , n. 104) così prevede all’art. 80 (recante rubrica: “Prosecuzione o riassunzione del processo sospeso o interrotto”): “1. In caso di sospensione del giudizio, per la sua prosecuzione deve essere presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione.
2. Il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si e’ verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza.
3. Se non avviene la prosecuzione ai sensi del comma 2, il processo deve essere riassunto, a cura della parte piu’ diligente, con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione.”
4.1.4. Il comma 1 – che incontestabilmente regola la fattispecie per cui è causa – non prevede alcuna sanzione per l’omesso rispetto del termine ivi previsto (termine che, infatti, la predetta norma non definisce perentorio).
Detta mancata indicazione del termine qual perentorio, tanto più a fronte di una contraria indicazione (di perentorietà, quindi) nel successivo terzo comma, milita per la ordinatorietà del termine contenuto nel comma 1.
L’interpretazione sistematica della norma, appare univoca: se al primo comma si è omessa alcuna indicazione di perentorietà, ed ai successivi commi della medesima disposizione il Legislatore ha espressamente qualificato il termine ivi previsto come perentorio, non v’è altro approdo plausibile (ed è appena il caso di puntualizzare che la regola è quella per cui i termini sono ordinatorii, salva espressa indicazione della loro perentorietà, il che neppure sotto tale angolo prospettico depone per una “forzatura” del comma 1 nel senso di qualificare per via interpretativa perentorio il termine ivi indicato).
Tale approdo è stato raggiunto anche da ulteriore recente giurisprudenza (T.A.R. Sicilia – Catania sez. IV 16/04/2013 n. 1109: “L’istanza di fissazione dell’udienza di seguito alla sospensione del processo amministrativo, ai sensi dell’art. 80 c.p.a., deve essere presentata entro novanta giorni, ma detto termine, diversamente che nelle analoghe ipotesi dell’interruzione o della sospensione del processo civile, non è previsto come perentorio.”).
Ivi è stato chiarito che (si riporta un breve stralcio motivazionale della sopracitata pronuncia) “è solo appena il caso di rammentare che il termine, per essere perentorio, deve essere espressamente previsto dal testo legislativo o dall’ordine del giudice.
Ciò premesso, gli artt. 79 e 80 c.p.a. così stabiliscono:
“79. Sospensione e interruzione del processo
1. La sospensione del processo è disciplinata dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell’Unione europea.
2. L’interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di procedura civile.
3. Le ordinanze di sospensione emesse ai sensi dell’articolo 295 del codice di procedura civile sono appellabili. L’appello è deciso in camera di consiglio”.
“80. Prosecuzione o riassunzione del processo sospeso o interrotto
1. In caso di sospensione del giudizio, per la sua prosecuzione deve essere presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell’atto che fa venir meno la causa della sospensione.
2. Il processo interrotto prosegue se la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo presenta nuova istanza di fissazione di udienza.
3. Se non avviene la prosecuzione ai sensi del comma 2, il processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”.
La sospensione del processo amministrativo, quindi, per un verso, rinvia alle norme contenute, tra l’altro, nel codice di procedura civile, per altro verso, in tema di prosecuzione del giudizio, prevede una disciplina diversa da quella contenuta sia all’art. 297 c.p.c., sia in tema di interruzione regolata dalle richiamate disposizioni normative.
Infatti, in tal senso, l’istanza di fissazione dell’udienza pure in questo caso deve essere presentata entro novanta giorni, ma detto termine, diversamente che nelle richiamate analoghe ipotesi, non è previsto come perentorio.
Né è possibile ricavare la medesima perentorietà del deposito di siffatta istanza dalla violazione dell’Ordinanza di sospensione resa da questo stesso Tribunale, che, come chiarito, non indica un termine autonomamente fissato ritenendolo perentorio, ma rinvia espressamente al comma 1 dell’art. 80 c.p.a. e quindi all’ordinatorio termine di novanta giorni per assolvere al detto onere processuale. Consegue la procedibilità del ricorso.”.
Sin qui il precedente giurisprudenziale richiamato, che il Collegio ha chiarito di condividere.
4.1.5. In sintesi: l’argomento testuale si coniuga con quello sistematico, avuto riguardo alla pluralità di commi di cui si compone l’art. 80. La conclusione di non perentorietà del termine sub comma 1 è armonica al precetto di cui all’art. 152 cpc (disposizione, questa, ritenuta in passato applicabile al rito processuale amministrativo: vedasi Consiglio di Stato sez. VI 16/01/2005 n.73: “al di fuori del sistema processuale nel quale è inserito l’art. 152 comma 2 c.p.c., che esprime un criterio interpretativo comune ogni qual volta siano stabilite cadenze temporali per il compimento degli atti del processo, la perentorietà di un termine -nella specie procedimentale- non deve essere espressamente stabilita potendo la stessa desumersi anche implicitamente dalla “ratio legis” e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un determinato adempimento entro un prefissato arco temporale è inteso a soddisfare.”).
4.1.6. L’eccezione va pertanto disattesa: né dicasi che argomentando in questi termini si rischierebbe la permanente pendenza “sine die” di processi già sospesi e non tempestivamente riassunti, perché l’ordinamento processuale amministrativo prevede istituti (massime, la perenzione “ordinaria”) soggetti a stringenti termini, atti a determinare comunque la estinzione dei processi per i quali non venga posto in essere alcun atto di procedura.
4.2. Parte appellante sollecita, poi, una ulteriore sospensione del giudizio in vista della decisione della Corte di Giustizia su altri rinvii pregiudiziali formulati dai giudici nazionali, relativi alla supposta discriminatorietà/anticoncorrenzialità della procedura selettiva per cui è causa.
In particolare segnala in proposito che varie autorità giurisdizionali (fra cui il Tribunale di Frosinone e la Suprema Corte di Cassazione) hanno sollevato la questione della rispondenza a criteri di non discriminatorietà della clausola di cui all’art. 25 dell’Atto di convenzione che prevedeva la devoluzione gratuita ad AMMS degli impianti e delle reti di distribuzione in ogni ipotesi di cessazione del rapporto (decadenza, spirare del termine, etc).
Ad avviso dell’appellante, detta previsione “sospettata” di non rispondenza ai principii comunitarii era correlata a quella sulla breve durata delle concessioni il cui sospetto di discriminatorietà era stato “negato” dalla Corte di Giustizia con la sentenza 22 gennaio 2015 resa nella causa C 463/13 resa su rinvio pregiudiziale emesso dal Collegio nella odierna causa e ciò avrebbe reso opportuna una sospensione dell’odierno giudizio.
4.2.1. Il Collegio, pur consapevole che la richiesta proposta dalla odierna parte appellante presenti elementi di rilievo, non ritiene che essa possa trovare favorevole delibazione. E ciò non soltanto perché nella richiamata sentenza non definitiva si era esclusa qualsiasi correlazione tra le censure ivi definite di dettaglio afferenti singole prescrizioni della convenzione accessiva e quella in punto di durata del rapporto concessorio che ha formato oggetti di rimessione alla Corte di Giustizia. Il Collegio ritiene che – proprio nel caso di specie, e per quanto di seguito meglio si chiarirà – detta opzione risulti radicalmente preclusa.
4.2.2 Viene in sostanza richiesto al Collegio di esaminare le conseguenze di un avvenuto rinvio pregiudiziale, da parte di altri giudici, in relazione ad una censura asseritamente riconducibile al riproposto quinto motivo del mezzo di primo grado.
4.2.3. In effetti, come segnalato da parte appellante, giudici rimettenti hanno promosso il rinvio pregiudiziale in relazione ad una disposizione dell’Atto di convenzione che è ripetitiva del disposto di cui al n. 26 del disposto di cui ai commi 78 e 79 dell’art. 1 della legge n. 220/2011 (legge di stabilità 2011) che così prevede: “26) previsione della cessione non onerosa ovvero della devoluzione della rete infrastrutturale di gestione e raccolta del gioco all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato all’atto della scadenza del termine di durata della concessione, esclusivamente previa sua richiesta in tal senso, comunicata almeno sei mesi prima di tale scadenza ovvero comunicata in occasione del provvedimento di revoca o di decadenza della concessione.”
La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, nella ordinanza citata da parte appellante 3 aprile 2014, n. 15181 infatti, così si è espressa: “Appaiono invece tali, secondo i parametri di giudizio dell’articolo 267 T.f.u.e. gia’ ricordati, da imporre la rimessione alla Corte di Giustizia della relativa questione interpretativa, i profili della compatibilita’, con gli articoli 49 e 56 dello stesso T.f.u.e., della previsione di cui all’articolo 3 dello schema di convenzione già richiamato secondo cui il termine di durata della concessione viene stabilito in tre anni, e della previsione dell’obbligo di cessione a titolo non oneroso, all’atto della cessazione dell’attivita’ per scadenza del termine finale della concessione o per effetto di provvedimenti di decadenza o revoca, ad AAMS o ad altro concessionario da essa individuato con criteri di concorsualita’, l’uso dei beni materiali ed immateriali di proprieta’ che costituiscono la rete di gestione e di raccolta del gioco (secondo la previsione dell’articolo 25 dello Schema di Convenzione).”
Il primo profilo di dubbio comunitario sollevato dal Giudice di legittimità, quindi, coincide con quello sollevato dal Collegio e deciso dalla Corte di Giustizia in senso negativo.
Il secondo profilo, (“e della previsione dell’obbligo di cessione a titolo non oneroso, all’atto della cessazione dell’attivita’ per scadenza del termine finale della concessione o per effetto di provvedimenti di decadenza o revoca, ad AAMS o ad altro concessionario da essa individuato con criteri di concorsualita’, l’uso dei beni materiali ed immateriali di proprieta’ che costituiscono la rete di gestione e di raccolta del gioco -secondo la previsione dell’articolo 25 dello Schema di Convenzione”) è invece diverso, ed “ulteriore”.
4.3. Ciò premesso, il Collegio chiarirà di seguito le ragioni che lo inducono a non aderire alla richiesta di sospensione dell’odierno processo in attesa che la Corte di Giustizia si pronunci sulla/sulle questioni devolutegli dai Giudici nazionali (e, massime, dalla Suprema Corte di Cassazione).
4.4. Senza potere immorare oltremisura sul tema, si rammenta che il sistema giuridico italiano si incentra – tra l’altro – sul principio di diffusività del sindacato giurisdizionale; la (forse) massima espressione della vis di tale principio si riscontra in punto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e di “dubbio di costituzionalità”.
Ad ogni Giudice è consentito sollevare tali questioni (anche più volte nel corso dello stesso giudizio) e ciò anche se, per avventura, vi siano pronunce passate in giudicato, rese da altri Giudici, che abbiano escluso la fondatezza o la rilevanza di tali dubbi “comunitarii” o “costituzionali”.
Id est: il giudicato esterno non è preclusivo della possibilità che altri Giudici ravvisino la necessità/opportunità del rinvio “comunitario” o “costituzionale”.
Di converso, però, nel processo amministrativo vige uno speculare principio, che manifesta rilevanza per la risoluzione della questione oggetto di delibazione.
Il Giudice non può giudicare oltre il perimetro ex art. 112 cpc, né può rimettere in discussione, motu proprio, il giudicato formatosi su una questione già decisa.
Ciò implica che (per traslare i principi a fattispecie concrete, tracciando le coordinate per la risoluzione della questione nella controversia in esame):
a) qualora una certa disposizione concreta sospettata di “anticomunitarietà” non fosse stata censurata nel corso di un certo processo, quando pure la Corte di Giustizia (adita da altra Autorità giudiziaria, ovviamente) ne avesse ritenuto la discriminatorietà/anticomunitarietà, il Giudice della causa “in corso” non potrebbe esaminare la problematica, in quanto non devolutagli: violerebbe altrimenti il precetto-cardine processuale di non pronunciarsi “ultra et extra petita”;
b) allo stesso modo, se innanzi al Giudice a quo fosse stata devoluta la detta questione, e questi l’avesse già risolta in senso negativo ( respingendo la censura ed avendo omesso di disporre, ex officio, o su istanza di parte, rinvio pregiudiziale), nella ipotesi in cui la Corte di Giustizia, adita da altra Autorità giudiziaria, si pronunciasse in senso affermativo quanto al contrasto con il diritto comunitario, il Giudice a quo non potrebbe motu proprio “spezzare” la irrefragabilità del giudicato formatosi, “riaprendo” la questione e conformandosi alla decisione della Corte di Giustizia.
La Corte di Giustizia si è in passato occupata della questione (proprio su rinvio pregiudiziale di questo Consiglio di Stato). E nella decisione 10/07/2014 n. 213 la Seconda Sezione (si vedano i considerando da 59 a 64) ha reso il principio per cui:“il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (v., in tal senso, sentenze Eco Swiss, C-126/97, EU:C:1999:269, punti 46 e 47; Kapferer, EU:C:2006:178, punti 20 e 21; Fallimento Olimpiclub, EU:C:2009:506, punti 22 e 23; Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti da 35 a 37, nonché Commissione/Slovacchia, C-507/08, EU:C:2010:802, punti 59 e 60).
Il diritto dell’Unione non esige, dunque, che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto, offerta dalla Corte posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione; qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, e sempre che dette condizioni siano soddisfatte, per ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione.”.
4.4. Lo stato di fatto cui è giunta la odierna controversia è pacifico ed incontestato (anche da parte appellante):
a )su ogni questione, salvo quella di cui appresso, devoluta in appello è calato il giudicato, mercé la sentenza non definitiva n. 04199/2013;
b) di converso, l’unica questione “aperta” su cui è necessario pronunciarsi è quella sulla quale la Sezione la disposto il rinvio pregiudiziale.
4.5. Se si concorda con tale punto di partenza, è agevole riscontrare che nessuna possibile utilità spiegherebbe per parte appellante una sospensione sine die dell’odierno processo, né il Collegio ha alcuno strumento processuale per disporla.
Il perché di tale affermazione verrà immediatamente chiarito con un esempio.
4.5.1. Si ipotizzi, infatti, una situazione (allo stato del tutto eventuale, si badi) di “massimo favore” per parte appellante rappresentata dalle seguenti due evenienze:
a) questo Collegio sospende la causa in corso;
b) la Corte di Giustizia accoglie il “dubbio pregiudiziale” sollevato dalla Corte di Cassazione.
Cessata la causa di sospensione, e ripresa la causa innanzi a questo Collegio, ci si troverebbe al cospetto di una decisione della Corte di Giustizia resa su un aspetto che non rientra nel “residuo” thema decidendi (e ciò è pacifico).
Questo Collegio non potrebbe in alcun modo “recepirla” (verrebbe violato, alternativamente, il principio di cui all’art. 112 cpc, ovvero quello relativo all’intervenuto giudicato), salvo volere ipotizzare la commissione di una (rilevante ed illegittima) “scorrettezza”, quale sarebbe l’escamotage di accogliere la residua doglianza pendente per “rimediare” alla circostanza che la Sezione non ha sollevato questione interpretativa anche sul punto sollevato dalla Corte di Cassazione e risolto positivamente (in ipotesi) in favore dell’appellante dalla Corte di Giustizia.
4.5.2. Invero si rammenta – ma parte appellante ne ha dato lealmente atto nella propria memoria – che la questione era stata posta, in termini per il vero assai sfumati, anche nell’odierno giudizio.
Il Collegio l’ha presa in esame (capo 6.9. e segg della sentenza non definitiva 04199/2013) e così si è espresso:
a) si può escludere senza dubbio che le disposizioni “di dettaglio” (rispetto a quella incentrata sulla durata ridotta delle concessioni poste in gara e di cui al quinto motivo del mezzo di primo grado) possano rivestire portata “anticoncorrenziale in concreto” nei termini ipotizzati da parte appellante;
b) il Collegio… “esaminerà le medesime disposizioni “leggendole” in connessione al petitum ricorsuale di primo grado (riproposto in appello) secondo cui esse rendevano la gara in partenza più favorevole a chi era già concessionario; si trascurerà ogni questione sulla palese circostanza che tutte dette previsioni si riferiscono non già alla disciplina di gara in senso proprio, ma alla fase di attuazione del rapporto concessorio e che esse non avevano carattere escludente; il che non militerebbe per la loro diretta impugnabilità a prescindere dalla partecipazione alla gara.” ;
c) “esaminando le censure in tale ottica prospettica, non pare assolutamente che esse meritino favorevole delibazione, né isolatamente considerate, né congiuntamente alla disciplina in punto di durata delle concessioni.
d) “anche e soprattutto per la formulazione delle clausole “denunciate”, il Collegio giudica evidente che le stesse non abbiano avuto portata escludente, ma che, al più (come del resto quelle immediatamente prima esaminate tendenti ad ipotizzare la supposta antieconomicità della partecipazione al bando) esse sarebbero state impugnabili soltanto da chi avesse presentato una domanda partecipativa, proprio in quanto destinate a regolamentare una fase successiva e distinta dalla fase evidenziale.”.
In sintesi, il Collegio ha reso (già) una articolata valutazione:
a) le censure avverso le prescrizioni “di dettaglio” tra le quali quella richiamata da parte appellante sarebbero state inammissibili, in quanto non avevano portata escludente, e quindi non sarebbero state impugnabili da chi non aveva partecipato alla gara;
b) in ogni caso, esse, né isolatamente considerate, né valutate congiuntamente alla disciplina in punto di durata delle concessioni, possedevano portata anticoncorrenziale, riguardando tutti gli aspiranti.
c) le questioni relative agli oneri discendenti dalla gara si risolvevano in una supposta antieconomicità e quindi dovevano essere bilanciate tenendo presente il ridottissimo prezzo delle concessioni messe in gara (il giudizio, in sintesi, era tutto economico: mi conviene partecipare a questo prezzo, sapendo che spendo tanto per impiantare l’attività ed alla scadenza devo “lasciare” le dotazioni all’Amministrazione? Quanto posso guadagnare da tale attività, quanto costa dotarmi delle strutture, e quale margine di ricavo residua?).
Con ciò condividendosi nella sostanza il giudizio già in passato reso sullo Schema della Convenzione dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato (Parere n. 03337/2012, sull’ Affare n. 06033/2012 reso all’Adunanza di Sezione del 18 luglio 2012).
4.5.3. Su tali affermazioni si è formato il giudicato, e pertanto questo Collegio non potrebbe in alcun modo “incidere”.sulle medesime.
4.5.4. Alla stregua di tali considerazioni – si ripete – la ulteriore sospensione del giudizio sarebbe ingiustificata e come tale è inaccoglibile.
Né la Adunanza Plenaria n. 2/2015 appare evocata a proposito, trattandosi in quel caso di un dubbio di costituzionalità investente la possibile portata “revocatoria” delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Come lucidamente avvertito da parte appellante ai punti 21 e 22 della propria memoria, nel caso in esame, si tratterebbe di interrogarsi sulla possibile portata revocatoria di sentenze della Corte di Giustizia che abbiano considerato comunitariamente incompatibile una disposizione in ordine alla quale una Corte di ultima istanza si fosse “rifiutata” di disporre il rinvio pregiudiziale sulla decisione resa da quest’ultima (in via di sola ipotesi, peraltro, posto che, nel caso in esame, la richiesta di rinvio non ha investito la problematica sollevata dalla Corte di Cassazione): ma ciò potrebbe avvenire unicamente in seno ad una eventuale impugnazione per revocazione (beninteso soltanto laddove la Corte di giustizia si esprimesse favorevolmente sul quesito posto dalla Corte di Cassazione) e dopo che il Collegio avesse proposto questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del cpa.
Ma una simile questione, se venisse sollevata oggi dal Collegio, sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza (la Corte di giustizia non si è ancora espressa sul punto “nuovo” devolutole dalla Suprema Corte, ed il ragionamento di parte appellante è tutto svolto in vista di un ipotetico futuro accoglimento), mentre sarebbe sempre sollevabile, in futuro, avverso la detta sentenza parziale del Collegio, ed avverso la odierna sentenza in sede di eventuale proposta revocazione.
4.5.5. Per concludere sul punto: anche se si ritenesse (come ipotizza l’appellante) che un eventuale accoglimento da parte della Consulta del “dubbio” sollevato dall’ Adunanza Plenaria n. 2/2015 implicando la revocabilità di sentenze nazionali per contrasto con pronunce CEDU importasse necessariamente la revocabilità di sentenze nazionali per contrasto con sentenze della Corte di Giustizia ( anche solo preconizzandosi una estensione per via ermeneutica dei casi di revocabilità per contrasto con sentenze della Corte di Giustizia); ed anche ad ipotizzare che la Corte di Giustizia accolga la questione interpretativa sollevata dalla Corte di Cassazione (e da altri Giudici nazionali) ugualmente il “veicolo processuale” mercé il quale far emergere tale contrasto sarebbe sempre –e soltanto – quello della revocazione.
In definitiva e riassumendo su questo primo profilo del punto, allo stadio processuale cui si è giunti, una ulteriore sospensione del giudizio sarebbe del tutto inutile: la causa rimarrebbe pendente,; e pure in ipotesi di favorevole delibazione da parte della Corte di Giustizia della questione “diversa” rimessagli dalla Corte di Cassazione, ciò non potrebbe giovare a parte appellante, perché il Collegio non potrebbe legittimamente “applicare” il decisum della Corte di Giustizia ad una questione già definita.
4.5.6. Correttezza vuole che il Collegio esponga altresì una ulteriore, se non la principale, ragione sistematica militante per la reiezione della richiesta dell’appellante: la tesi da essa patrocinata porta – ove spinta all’ estremo – alla conseguenza che un processo che presenti possibili dubbi di “anticomunitarietà” (e/o di contrasto con disposizioni della Carta Fondamentale) possa non concludersi mai.
Invero, per quanto si è prima chiarito, se anche la Corte di Giustizia disattendesse il quesito rivoltole dalla Corte di Cassazione, ciò non impedirebbe che altro Giudice nazionale lo sollevi nuovamente sotto diverso angolo prospettico e/o per diverso profilo (e/o, si aggiunge per completezza, ne sollevi uno ulteriore, per profili sinora non devoluti al giudizio della Corte di Giustizia): coerenza vorrebbe, in simile situazione, che il presente processo venisse nuovamente sospeso.
E così via, a tempo indefinito: il vulnus al principio di cui all’art. 111 della Costituzione in punto di ragionevole durata del processo sarebbe evidente.
Per tali ragioni la richiesta di sospensione (facoltativa) del processo non è favorevolmente delibabile.
Ed è appena il caso che di rammentare, in argomento, che in fattispecie relativa alla pendenza di giudizio di costituzionalità la costante giurisprudenza (TAR Lazio Roma n. 9305/2015; Cass. civ. nn. 5414/1988, 3872/1983; 4448/1983;4679/83; 2832/84) è dell’avviso per cui “l’incidente di legittimità costituzionale determina la sospensione del giudizio nel quale è stato sollevato (art. 23 2° comma della legge 11.3.1953 n. 87) e non può essere invocato quale ragione di sospensione di altro processo”.
5. Può adesso essere preso in esame il merito della controversia.
5.1. Si rammenta che la Sezione, nel motivare il proprio convincimento relativo alla doverosità del rinvio pregiudiziale aveva fatto presente quanto segue (punto 6.16.): “il Collegio non si può esimere dal formulare una considerazione:
a) le clausole esaminate in precedenza (asseritamente “determinanti antieconomicità” – ed in quanto tali definite dall’appellante “escludenti”-) trovavano una giustificazione proprio in quegli obiettivi primari “di controllo su coloro che operano nel settore dei giochi di azzardo allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti”, come espressamente affermato nella sentenza “Placanica”della Corte di Giustizia, che, si è visto, legittimano, a determinate condizioni, il permanere del sistema concessorio italiano;
b) invece, l’avversata disposizione in punto di durata delle concessioni messe in gara non trova eguale fondamento legittimante sotto il profilo causale.
Essa si distacca da quelle precedentemente esaminate, per la ratio impositiva alla stessa sottesa, e come si è visto, fondante su una (mera) esigenza organizzativa e razionalizzatrice (si veda il punto n. 74 dell’appello, espressivo, in parte qua, di una constatazione senz’altro condivisibile).”
Di fatto, quindi, la Sezione pur avendo espresso avviso contrario all’accoglimento del mezzo aveva tracciato un spartiacque “teleologico” tra la avversata disposizione in punto di durata delle concessioni e le altre, parimenti censurate nell’atto di appello, sostenendo che la prima si diversificasse dalle altre sotto il profilo della esigenza che mirava a perseguire.
La Corte di Giustizia, nell’affermare il principio prima enunciato, ha in qualche modo “ridimensionato” la considerazione della Sezione sottesa al rinvio pregiudiziale, riconducendo anche la avversata prescrizione in punto di durata delle concessioni a late esigenze di ordine pubblico, seppure indirette.
Ed invero, la Corte di Giustizia – nel richiamare (in termini pienamente condivisibili, ad avviso del Collegio) i consolidati principii secondo cui sarebbe addirittura consentito agli Stati-membri decidere se, nel contesto dei legittimi scopi da esso perseguiti, sia necessario vietare totalmente o parzialmente attività riconducibili ai giochi e alle scommesse, oppure soltanto limitarle e prevedere a tal fine modalità di controllo più o meno rigorose (v. sentenza Digibet e Albers, EU:C:2014:1756, punto 32 e la giurisprudenza ivi citata), in quanto (considerando nn. 51 e 52) il carattere peculiare della disciplina dei giochi d’azzardo giustifica l’attribuzione alle autorità nazionali di un ampio potere discrezionale per stabilire quali siano le esigenze a tutela del consumatore e dell’ordine sociale,- ha affermato nella sua pronuncia un principio specifico assai importante.
Ivi, infatti, ha sostenuto (considerando nn. 53 e 54 ) che “il riordino del sistema delle concessioni attraverso un allineamento temporale delle scadenze può, in virtù della previsione di una durata delle nuove concessioni più breve rispetto a quella delle concessioni rilasciate in passato, contribuire ad un coerente perseguimento dei legittimi obiettivi della riduzione delle occasioni di gioco o della lotta contro la criminalità collegata a detti giochi e può altresì soddisfare i requisiti di proporzionalità imposti.” Ciò in quanto, “nell’ipotesi in cui, in futuro, le autorità nazionali intendessero ridurre il numero delle concessioni rilasciate oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi d’azzardo, misure di questo tipo sarebbero agevolate laddove tutte le concessioni fossero rilasciate per la stessa durata e la loro scadenza avvenisse nello stesso momento.”.
5.2.Ad avviso del Collegio, il sintetico excursus prima rassegnato rende evidente che l’approdo del Collegio non possa che essere quello reiettivo della doglianza prospettata nell’atto di appello.
5.3.Invero, alle considerazioni già esposte dalla Sezione nella richiamata sentenza parziale – allorché, come si è visto, si espresse un punto vista negativo fondato prevalentemente sul riconoscimento di esigenze organizzative rilevanti e sulla non antieconomicità della prescrizione, in virtù delle molteplici diverse prescrizioni contenute nel bando – si devono “saldare” quelle, di nodale importanza, espresse dalla Corte di Giustizia.
Esse, come prima rilevato, “legano” la esigenza di riordino sottesa alla affermata necessità di allineamento temporale ad ipotizzati obiettivi primari ed irrinunciabili per gli Stati-membri della riduzione delle occasioni di gioco ovvero della lotta contro la criminalità collegata a detti giochi.
E ciò, sia nell’immediato, sia in previsione della eventuale futura adozione di misure normative tese a “ridurre il numero delle concessioni rilasciate oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi d’azzardo”.
5.4. Una pluralità di ragioni, quindi, impongono la reiezione del mezzo: l’avversata prescrizione normativa contenuta nel bando, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellante, contempera – nel rispetto del parametro della proporzionalità evocato dalla Corte Ue – obiettivi primarii comunitari, prima che italiani, nel senso che è comunitario (“prima” ed “oltre” che nazionale) l’obiettivo della riduzione delle occasioni di gioco o della lotta contro la criminalità collegata a detti giochi e può altresì soddisfare i requisiti di proporzionalità imposti.
E ciò è stato ribadito dalla Corte di Giustizia, proprio nel considerando 54 (““nell’ipotesi in cui, in futuro, le autorità nazionali intendessero ridurre il numero delle concessioni rilasciate oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi d’azzardo, misure di questo tipo sarebbero agevolate laddove tutte le concessioni fossero rilasciate per la stessa durata e la loro scadenza avvenisse nello stesso momento.”) utilizzando l’espressione “oppure”
5.5. Le pur suggestive ed intelligenti considerazioni di parte appellante non scalfiscono il convincimento del Collegio.
5.5.1. In sostanza, come esposto nella propria memoria, parte appellante ritiene che:
a) la Corte di Giustizia non si sia pronunciata sul primo quesito (il che imporrebbe, a suo avviso un nuovo ed ulteriore rinvio pregiudiziale);
b) quanto al secondo quesito, sostiene che la decisione della Corte sia apodittica, astratta, e non tenga conto della legislazione italiana, intesa, viceversa, a favorire il giuoco e le scommesse come peraltro dimostrato dalle norme supervenientes in materia e risalenti al 2015.
5.6. Il Collegio non concorda con alcuna di dette tesi.
5.6.1 Quanto al primo profilo, è sufficiente leggere i considerando 30, 31, 33, che di seguito si riportano, per avere chiaro che entrambi i connessi profili del rinvio pregiudiziale sono stati esplorati dalla Corte di Giustizia.
Essa così si è espressa: “
30 Con la prima e la seconda questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché i principi di parità di trattamento e di effettività debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale in materia di giochi d’azzardo che preveda l’indizione di una nuova gara per il rilascio di concessioni aventi durata inferiore rispetto a quelle rilasciate in passato, in ragione di un riordino del sistema attraverso un allineamento temporale delle scadenze delle concessioni.
31 Da un lato, è necessario valutare se la normativa nazionale oggetto del procedimento principale, là dove impone una durata delle nuove concessioni più breve rispetto a quelle precedenti, sia conforme ai principi di parità di trattamento e di effettività.
33 Dall’altro lato, occorre valutare se il motivo dedotto dalle autorità nazionali al fine di giustificare la durata più breve delle nuove concessioni, segnatamente il riordino del sistema delle concessioni attraverso un allineamento temporale delle scadenze, sia idoneo a giustificare un’eventuale restrizione delle libertà garantite dai Trattati.”
5.6.2. E va ricordato (ma ciò è stato diffusamente chiarito nella sentenza non definitiva n.4199/2013 e non si immorerà in proposito) che la Corte aveva detto in passato:
a) che per rimuovere le pregresse discriminazioni sarebbe bastato bandire una nuova gara e non era invece obbligatorio revocare tutte le concessioni in essere;
b) e che, perché tale nuova gara non fosse discriminatoria, non era necessario che contenesse misure asimmetriche di vantaggio per il soggetto in passato discriminato, ma era sufficiente che non prevedesse “ulteriori” vantaggi concorrenziali per soggetti in passato favoriti (la parità delle armi, insomma).
5.6.3. Alla luce di tali presupposti la Corte ha esaminato congiuntamente entrambe le questioni devolutegli, muovendo peraltro dalla articolata considerazione:
che comunque l’appellante era saldamente presente in Italia da molti anni;
che la misura “denunciata” valeva per tutti i concorrenti;
che la nuova gara avrebbe dovuto unicamente non presentare ulteriori profili di indebito vantaggio per i predetti concessionarii
5.6.4. Non risulta per nulla condivisibile la tesi per cui la Corte avrebbe obliato il primo quesito – chè essa ha anzi espressamente annunciato di volerli esaminare entrambi in modo congiunto -, né si rende necessario alcun ulteriore rinvio pregiudiziale.
5.7. Quanto alla seconda “censura”, in disparte la singolarità della posizione dell’appellante, che nella propria memoria (punto 39) stigmatizza la ratio della legislazione italiana “dolendosi” della circostanza che la legge di stabilità 2015 abbia “aperto” ad un numero ingente di operatori (7000) senza alcun preventivo controllo di polizia”, pare al Collegio che parte appellante travisi il senso e la portata della decisione della Corte.
5.7.1 La Corte di Giustizia ha fornito una risposta troncante su entrambi i quesiti: l’obiettivo del riallineamento temporale è legittimo e non sproporzionato; si lega ad esigenze di ordine pubblico ed a finalità ed obiettivi degli Stati membri ritenuti meritevoli di tutela ed autonomamente perseguibili.
Trattasi di obiettivi, si badi: né questo Collegio, né alcun Giudice, per quanto elevata sia la sua posizione nel sistema, è in grado di preconizzare il futuro sviluppo della legislazione di uno Stato membro (in questo caso quello italiano), o gli obiettivi che esso intenderà perseguire; e neppure potrebbe spingersi a negare il futuro intendimento (politico) di perseguire gli obiettivi enunciati dalla Corte di Giustizia.
E sarebbe senz’altro un arbitrario – ed indebito – esercizio di inammissibile sindacato di merito quello di spingersi ad ipotizzare l’esclusione tout court che, in futuro, lo Stato italiano possa introdurre una legislazione di segno diverso rispetto a quella vigente, improntata ad una riduzione delle occasioni di giuoco.
Si deve tenere presente che è soltanto rimessa al Giudice una verifica della compatibilità della misura con tali possibili obiettivi: e tale legame causale è stato senza equivoci affermato dalla Corte di Giustizia, senza che questo Collegio possa allo stato preconizzare lo sviluppo in avvenire della legislazione italiana.
5.7.2. Ciò, salvo quanto di qui a breve si esporrà, sarebbe già sufficiente a respingere la tesi secondo cui il Collegio dovrebbe esaminare il dictum della Corte di Giustizia, scandagliare la attuale legislazione, ricavare che essa non si muove in una direzione di “riduzione” delle occasioni di giuoco e trarne quindi occasione per disporre l’accoglimento dell’appello in quanto la breve durata delle concessioni non sarebbe “giustificabile”.
5.7.3. Pare al Collegio, però, che la disamina dell’appellante oblii significativi profili del protratto contenzioso che già hanno formato oggetto di disamina da parte della giurisprudenza nazionale e, ciò che più conta, di quella comunitaria. Parimenti parte appellante trascura che, al considerando n. 54, la sentenza della Corte di Giustizia resa nella presente controversia ha in realtà prospettato non un solo ed unico “obiettivo di riferimento”, ma due, alternativi e/o congiunti (si ripete: la Corte utilizza la univoca espressione “oppure”: “54. Nell’ipotesi in cui, in futuro, le autorità nazionali intendessero ridurre il numero delle concessioni rilasciate oppure esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi d’azzardo, misure di questo tipo sarebbero agevolate laddove tutte le concessioni fossero rilasciate per la stessa durata e la loro scadenza avvenisse nello stesso momento”).
5.7.4. In particolare, appare opportuno rammentare che già in un non recente passato, questo Consiglio di Stato (sez. VI, sent. 29/01/2007 n. 3349) ebbe a sostenere che:
“La vigente normativa nazionale in materia di scommesse non si pone in contrasto con alcuno dei principi di diritto comunitario di libero stabilimento e di libera prestazione dei servizi né viola alcuno dei diritti costituzionalmente garantiti. La politica espansiva delle scommesse, pur contraddicendo lo scopo sociale di limitare la propensione al gioco, è tuttavia coerente con quello di evitarvi, per quanto possibile, le infiltrazioni criminali, sicché la stessa non è incompatibile con i motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, che, a norma degli artt. 46 e 55 del Trattato Ce, sono altrettanto (se non di più) idonei a giustificare restrizioni ai principi di libero stabilimento e di libera prestazione dei servizi. La legislazione italiana, volta a sottoporre a controllo preventivo e successivo la gestione delle lotterie, delle scommesse e dei giuochi d’azzardo, si propone non già di contenere la domanda e l’offerta di giuoco, ma di canalizzarla in circuiti controllabili al fine di prevenire la possibile degenerazione criminale. Non vi è poi alcun dubbio sull’adeguatezza e proporzionalità di un sistema così articolato, essenzialmente basato sulla riserva pubblica e la possibilità di concessione ad altri soggetti, nonché sulla soggezione dei concessionari ad autorizzazione di polizia.”
Tale tesi, fu condivisa, nel tempo, da successiva giurisprudenza di merito (ex aliis T.A.R. Friuli-Venezia Giulia- sez. I 30/11/2012 n. 449: “una politica di espansione controllata del settore dei giochi d’azzardo può essere del tutto coerente con l’obiettivo mirante ad attirare giocatori che esercitano attività di giochi e di scommesse clandestini vietati in quanto tali verso attività autorizzate e regolamentate e un sistema di concessioni può in tale contesto costituire un meccanismo efficace che consente di controllare coloro che operano nel settore dei giochi d’azzardo allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti, fermo restando che il numero di concessioni deve essere tale da essere proporzionato allo scopo, cioè da non sacrificare eccessivamente la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi riferibili sia agli operatori stranieri che a quelli nazionali e che l’accesso alle concessioni non sia discriminatorio”).
5.7.5.Quel che più conta evidenziare, però, riposa nella circostanza che è proprio il Giudice comunitario che analizza la disciplina italiana muovendo da tale presupposto.
Si guardino, in proposito, i considerando 52 e segg. della sentenza “Placanica”.
La Corte di Giustizia ivi così si espresse:
“52 Per quanto riguarda gli obiettivi che possono giustificare tali ostacoli, nel presente contesto deve essere operata una distinzione tra, da un lato, l’obiettivo mirante a ridurre le occasioni di gioco e, dall’altro, nella misura in cui i giochi d’azzardo sono autorizzati, l’obiettivo mirante a lottare contro la criminalità assoggettando ad un controllo coloro che operano attivamente in tale settore e canalizzando le attività dei giochi di azzardo nei circuiti così controllati.
53 Relativamente al primo tipo di obiettivo, dalla giurisprudenza risulta che, anche se possono, in via di principio, essere giustificate restrizioni del numero degli operatori, tali restrizioni devono in ogni caso rispondere all’intento di ridurre considerevolmente le opportunità di gioco e di limitare le attività in tale settore in modo coerente e sistematico (v., in tal senso, citate sentenze Zenatti, punti 35 e 36, nonché Gambelli e a., punti 62 e 67).
54 Ora, è pacifico, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione, che il legislatore italiano persegue una politica espansiva nel settore dei giochi d’azzardo allo scopo di incrementare le entrate fiscali e che nessuna giustificazione della normativa italiana possa essere fatta derivare dagli obiettivi di limitare la propensione al gioco dei consumatori o di limitare l’offerta di giochi.
55 Infatti, è il secondo tipo di obiettivo, ossia quello mirante a prevenire l’esercizio delle attività di gioco d’azzardo per fini criminali o fraudolenti canalizzandole in circuiti controllabili, che viene identificato come lo scopo reale della normativa italiana di cui trattasi nelle cause principali sia dalla Corte Suprema di Cassazione sia dal governo italiano nelle sue osservazioni presentate dinanzi alla Corte. In tale ottica, una politica di espansione controllata del settore dei giochi d’azzardo può essere del tutto coerente con l’obiettivo mirante ad attirare giocatori che esercitano attività di giochi e di scommesse clandestini vietati in quanto tali verso attività autorizzate e regolamentate. Come hanno rilevato in particolare i governi belga e francese, al fine di raggiungere questo obiettivo, gli operatori autorizzati devono costituire un’alternativa affidabile, ma al tempo stesso attraente, ad un’attività vietata, il che può di per sé comportare l’offerta di una vasta gamma di giochi, una pubblicità di una certa portata e il ricorso a nuove tecniche di distribuzione.”.
5.8. Alla stregua di tali inequivoche affermazioni, pare al Collegio che anche il secondo profilo di possibile accoglimento dell’appello prospettato dall’appellante quale “conseguenza” della sentenza della Corte di Giustizia sia infondato.
5.8.1. Esso postulerebbe una duplice, (e non invece unica, come sostiene l’appellante) valutazione giudiziale.
La prima, avrebbe natura “predittiva”. Si dovrebbe affermare che, posto che nella legge di stabilità (in continuità con la precedente legislazione peraltro) non si introducono limitazioni alle occasioni di giuoco, ma anzi si tende ad incrementare quest’ultimo, vi sarebbe anticomunitarietà ed illegittimità, in concreto, della clausola sulla durata delle prescrizioni: ciò perché questo Giudice dovrebbe essere in grado di preconizzare il futuro sviluppo della legislazione italiana, escludendo che la stessa possa dirigersi nel senso di una riduzione delle concessioni.
Il che, certamente, non rientra tra i compiti di questo Collegio.
Più radicalmente, però la tesi appellatoria è infondata laddove ipotizza un approdo della seconda valutazione giudiziale che sconfesserebbe la giurisprudenza, non solo nazionale ma anche comunitaria, e si porrebbe in contrasto con il considerando 54 della decisione resa dalla Corte nella odierna causa.
La Corte di Giustizia (“oppure” nel considerando n. 54) ha con chiarezza spiegato che la contemporanea scadenza di tutte le concessione costituirebbe una misura agevolatoria, laddove lo Stato Italiano si risolva ad esercitare un controllo più rigoroso sulle attività nel settore dei giochi d’azzardo. L’appellante esclude che ciò sia possibile, in quanto la legislazione italiana è diretta invece ad incrementare le occasioni di giuoco.
Ma così facendo l’appellante – con indubbia abilità- oblia proprio il passaggio “ a monte” del ragionamento dei Giudici comunitari, e contenuto nei considerando della decisione “Placanica” prima riportata: non è affatto vero che la espansione del settore “giuoco” implichi abdicazione dall’obiettivo di un “controllo più rigoroso”.
E’ semmai vero il contrario, perché l’espansione “controllata del settore dei giochi d’azzardo può essere del tutto coerente con l’obiettivo mirante ad attirare giocatori che esercitano attività di giochi e di scommesse clandestini vietati in quanto tali verso attività autorizzate e regolamentate”.
5.8.2. Va escluso quindi che la specificità della legislazione italiana “espansiva” renda inutile, penalizzante, “priva di obiettivi” e “anticoncorrenziale” la disposizione in punto di durata delle concessioni, e pertanto nella immutata attualità delle considerazioni espresse allorché si espose il punto di vista del Collegio sulla questione oggetto di rinvio, anche la ultima censura dell’appello deve essere disattesa.
6. In conclusione, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, e richiamato il contenuto della decisione n. 04199/2013, il mezzo deve essere integralmente disatteso nel merito.
7. Quanto alle spese processuali, il Collegio ritiene che esse vadano integralmente compensate tra tutte le parti, in ragione della circostanza che la sentenza di primo grado era pervenuta ad una statuizione di inammissibilità in rito che – proprio in accoglimento dell’appello – è stata riformata dal Collegio, e che è stato disposto un rinvio interpretativo pregiudiziale, il che testimonia che le critiche appellatorie erano non prive di spessore.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, e richiamato il contenuto della decisione n. 04199/2013, dopo aver dato atto della rinuncia all’intervento in giudizio di Sp. formalizzata alla udienza pubblica del 2 luglio 2015 dalla relativa difesa, respinge nel merito lo stesso appello.
Spese processuali compensate fra tutte le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Numerico – Presidente
Fabio Taormina – Consigliere, Estensore
Diego Sabatino – Consigliere
Raffaele Potenza – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Depositata in Segreteria il 25 agosto 2015.
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