Il testo integrale[1]
Per la Suprema corte, infatti, l’articolo 1102 del c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne lo stesso uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, ragion per cui i suoi limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale o dalle apposite delibere assembleari adottate con i ‘quorum’ prescritti dalla legge.
L’unico limite della legittima ‘autodisciplina condominiale’ è rappresentato dalla previsione del divieto sostanziale di utilizzazione generalizzata delle parti comuni; nel caso in cui, invece, l’assemblea condominiale (con le prescritte maggioranze) adotti una delibera che vieti soltanto un uso specifico (come quello, dedotto nella fattispecie oggetto della controversia, attinente alla sola apertura di nuovi accessi nel muro comune), la stessa deliberazione deve ritenersi legittima (v., per un esempio analogo, Cass. n. 2904 del 1976).
Per la suprema corte, inoltre, deve riaffermarsi il seguente principio di diritto: “In mancanza di diversa convenzione adottata all’unanimità, espressione dell’autonomia contrattuale, la ripartizione delle spese condominiali generali deve necessariamente avvenire secondo i criteri di proporzionalità, fissati neIl’art. 1123, comma primo, c.c., e, pertanto, non è consentito all’assemblea condominiale, deliberando a maggioranza, di ripartire con criterio ‘capitano’ le spese necessarie per la prestazione di servizi nell’interesse comune”.
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