Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza n. 14469 del 7 giugno 2013
Svolgimento del processo
Con sentenza del 25.3.2010, la Corte di Appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto da B.M. ed in riforma dell’impugnata decisione, dichiarava l’illegittimità, ai sensi dell’art. 18 l. 300/70, del licenziamento intimato al predetto in data 20.7.2006 e, per l’effetto, ne ordinava all’Enav spa la reintegrazione nel posto di lavoro, condannando la stessa società al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dalla data del 15.11.2006 sino alla data della sentenza di appello.
Rilevava la Corte territoriale che, secondo orientamento giurisprudenziale costante, la carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituiva inadempimento di obblighi contrattuali, ma integrava un fatto oggettivo determinante una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa in relazione alla quale la persistenza nel datore dell’interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto doveva essere valutata secondo criteri obiettivi, ai sensi dell’art. 3, seconda parte, della l. 604/66, e cioè con riferimento alle esigenze della azienda da valutarsi con giudizio “ex ante” e non “ex post”, con riguardo alle dimensioni dell’azienda, al tipo di organizzazione tecnico produttiva, alla ragionevolmente prevedibile durata della custodia cautelare e ad ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza.
Nel caso specifico era risultato che presso l’aeroporto di (omissis), sede di lavoro dell’appellante – inviato in missione temporanea presso l’Aeroporto di (omissis) fino al 30.9.2006 – non vi era carenza di organico, essendo state disposte nuove assunzioni e che a (omissis) il lavoratore non poteva svolgere attività di controllore da solo dovendo essere affiancato da controllore titolare, che pertanto vi erano decisivi elementi nel senso della tollerabilità dell’assenza dell’appellante senza pregiudizio delle obiettive esigenze di copertura del servizio, soddisfatte, come acclarato, da una diffusa mobilità territoriale.
Vero è che, essendo stato invitato a fornire ragguagli sulla custodia cautelare del proprio assistito, il difensore del lavoratore aveva omesso di comunicare notizie al riguardo, non consentendo alla società di acquisire contezza “ex ante” della presumibile durata della carcerazione preventiva in relazione al tipo di reato imputato al B. ed alla fase in cui si trovava il procedimento penale, ma tuttavia – osservava la Corte del merito – la decisione di risolvere il rapporto era stata avventata, in quanto assunta dopo appena due mesi di indisponibilità del lavoratore, pure in presenza di un contesto di sostanziale tollerabilità dell’assenza alla stregua di tutti i criteri enucleati dalla S. C. al riguardo.
Quindi, pur se non resa edotta in anticipo della prevedibile durata dell’assenza del lavoratore, la società presentava una serie di condizioni complessivamente tali da rendere da essa sopportabile, per un congruo anche prolungato periodo, l’assenza del lavoratore astretto in carcere, senza pregiudizio per l’attività aziendale. Per la cassazione della decisione ricorre l’ENAV s.p.a., affidando l’impugnazione ad unico motivo, illustrato con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Il B. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
L’ENAV s.p.a denunzia, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1463 e 1464 c.c. e dell’art. 3 l. 604/66, nonché vizio di contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, per avere la Corte d’appello di Roma ritenuto non decisiva la circostanza che la società non sia stata posta nella condizione di effettuare una previsione preventiva della “durata dell’assenza dal luogo di lavoro” del B. ristretto in carcere, dopo avere premesso la necessità di una valutazione prognostica del dato temporale dell’assenza, e per avere, invece, ritenuto tollerabile l’assenza del lavoratore, in forza di una valutazione ex post del periodo medesimo e, comunque, “per un congruo, anche prolungato, periodo”, vista la presenza degli altri indici di sopportabilità.
Assume l’insanabile incoerenza dell’iter motivazionale laddove, dopo avere premesso che nel caso di carcerazione preventiva la persistenza nel datore dell’interesse a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto deve essere valutata con giudizio “ex ante” (al momento del licenziamento, tenuto conto della prevedibile durata della custodia cautelare), ha, poi, ritenuto che era stata avventata la decisione di risolvere il rapporto dopo appena due mesi di indisponibilità del lavoratore, in un contesto di sostanziale tollerabilità dell’assenza alla stregua degli altri elementi, come era emerso anche alla relativamente sollecita liberazione del dipendente, e quindi con valutazione condotta con criterio “ex post”. Aggiunge che la regola iuris richiamata è stata disapplicata, non tenendosi conto, tra gli altri criteri, della prevedibile durata della carcerazione, con sovversione del logico e ragionevole ordine di indagine, e che il congruo anche prolungato periodo di tollerabilità dell’assenza del lavoratore era concetto di carattere indefinito ed indeterminato.
Osserva che le valutazioni del giudicante in relazione all’impatto dell’assenza sulle
esigenze di copertura del servizio, in ragione di considerazioni attinenti all’organizzazione tecnico produttiva, avevano un senso solo se ed in quanto riferite ad un’assenza limitata a quattro mesi complessivi, laddove erano da ritenere totalmente inadeguate se riferite ad un arco temporale di durata indeterminabile.
Va affermato, in conformità ad orientamento giurisprudenziale reiteratamente espresso in sede di legittimità (cfr. Cass. 5 maggio 2003 n. 6803; Cass. 1 giugno 2009 n. 12721) che lo stato di detenzione del lavoratore, per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma integra gli estremi della sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione, che giustifica il licenziamento solo ove, in base ad un giudizio “ex ante” – che tenga conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato, della natura ed importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, nonché del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevolmente prevedibile ulteriore durata della sua carcerazione, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza – costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo l’interesse dal datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto (cfr. Cass. 12721/2009 cit.).
La Corte territoriale ha proceduto ad una valutazione di merito sulla prevedibilità della durata dello stato di carcerazione ed ha ritenuto – anche in base ai principi di buona fede e correttezza e sulla base della prevedibilità dello stato di detenzione impeditivo della prestazione, nonché alla stregua di considerazioni relative alla sostenibilità da parte dell’azienda dell’assenza del dipendente – che il licenziamento non poteva ritenersi legittimo.
Non solo la società non aveva acquisito notizie per valutare correttamente la situazione in cui versava il B. , ma non aveva avuto riguardo neanche al maturato periodo di custodia cautelare, di appena due mesi, a fronte di una situazione caratterizzata da elementi che costituivano sicuri indici di tollerabilità dell’assenza, quali il ruolo ricoperto dal B. presso l’aeroporto di (omissis), ove lo stesso era stato inviato in missione e svolgeva la propria attività affiancato da controllore titolare, una situazione di organico tutt’altro che carente presso l’aeroporto di Venezia, sede di lavoro del resistente, una diffusa mobilità territoriale, elementi tutti che in modo tutt’altro che irragionevole hanno indotto il giudice del gravame a qualificare come avventata una decisione di risoluzione del rapporto in un contesto che ne rendeva possibile una ulteriore prosecuzione.
Ed invero una valutazione ex ante non poteva sicuramente, dopo appena due mesi di assenza di prestazione, indurre a ritenere intollerabile la stessa, alla stregua di un contesto ambientale e lavorativo tutt’altro che ostativo rispetto alla procrastinazione di ogni ultimativa decisione.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi -violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass. 26 marzo 2010 n. 7394 e, in senso conforme, Cass. 16 luglio 2010 n. 16698).
Nella specie, più che censurare l’applicazione di erronei parametri valutativi in una fattispecie di inadempimento per impossibilità temporanea della prestazione, al di là di una critica generica all’inadeguatezza del riferimento, da parte del giudice del gravame, alla circostanza della sollecita liberazione del B. (dato che ricondurrebbe ad una non consentita valutazione ex post) – che tuttavia viene dal giudice del gravame richiamata unicamente quale conferma della bontà di una prognosi di durata dell’assenza ancorata a giudizio ex ante – la società ricorrente sollecita una inammissibile ulteriore valutazione degli elementi sottoposti all’esame del giudice del merito, con apprezzamento dell’eventuale ingiustizia della ricostruzione operata nella sentenza impugnata.
E ciò in contrasto con i principi che regolano il ricorso per cassazione, che conferiscono al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Cass. 16.12.2011 n. 27197).
Nella specie non risulta che le doglianze abbiano evidenziato i profili rilevanti del vizio motivazionale dedotto – nel quale il ricorrente si duole della intrinseca contraddittorietà dell’iter argomentativo – né risultano chiariti gli aspetti di decisività della critica avanzata, rispetto ad una ricostruzione logica e coerente operata dalla Corte territoriale, ai fini della valutazione dell’interesse del datore alla prosecuzione del rapporto a fronte di una impossibilità temporanea della prestazione.
Il ricorso va, pertanto, respinto.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della società e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
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