La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|15 marzo 2024| n. 6983.

La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione

La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’articolo 360, comma 1, Cpc, né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato. (Nella specie, ancorché il ricorrente avesse dedotto la violazione dell’articolo 360, comma 1, n. 3 Cpc, e non del n. 4 dello stesso articolo, la S.C. ha affermato che dovesse farsi riferimento a tale vizio, tenuto conto dell’esplicito riferimento alla nullità della sentenza conseguente alla violazione di una norma che regola il processo).

Ordinanza|15 marzo 2024| n. 6983. La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione

Data udienza 18 ottobre 2023

Integrale

Tag/parola chiave: Banche – Rapporto di conto corrente – Ripetizione di indebiti pagamenti – Onere di produzione – Estratti di conto periodici – Artt. 2697 e 2729, cc
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REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria Presidente

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere

Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso n. 36838/2019

promosso da

Mo.Fe. Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, (…), presso lo studio dell’avv. prof. Vi. Fe., che la rappresenta e difende unitamente all’avv. An. Gi. Pe. in virtù di procura speciale in calce al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

(…) Spa quale Capogruppo del Gruppo Bancario (…) Italiane (che ha incorporato per fusione la Banca (…) Spa), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, (…), presso lo studio dell’avv. Gi. Gr., rappresentata e difesa dall’avv. Al. Vi. in virtù di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1829/2019, pubblicata il 27/09/2019, notificata il 30/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/10/2023 dal Consigliere ELEONORA REGGIANI; letti gli atti del procedimento in epigrafe.

La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la Mo.Fe. Srl citava in giudizio la Banca (…) Spa (poi (…) Spa), esponendo: che aveva intrattenuto, con l’istituto convenuto, un contratto di conto corrente bancario, identificato con il n. (…) e un altro contratto di conto corrente, individuato con il n. (…); che sul detto conto corrente, la banca aveva applicato gli interessi debitori secondo anatocismo trimestrale; che la relativa pattuizione era nulla; che parimenti illegittimi erano alcuni oneri accessori. Chiedeva, quindi, la ripetizione delle somme indebitamente pagate a titolo di interessi anatocistici, di interessi ultralegali, di interessi derivanti dall’errato computo delle valute e di tutte le somme comunque pagate per i titoli denunciati.

Si costituiva in giudizio la Banca convenuta che preliminarmente eccepiva la prescrizione della pretesa. Rilevava di non aver mai applicato interessi con periodicità trimestrale e, comunque, rivendicava la legittimità della relativa prassi, da considerarsi un uso normativo, chiedendo il rigetto della domanda.

La causa veniva istruita tramite consulenza tecnica.

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All’esito, rassegnate le conclusioni, il Tribunale di Cosenza, con sentenza n. 1281/2016, accoglieva la sola domanda riferita all’indebita applicazione di commissioni di massimo scoperto in conto, condannando la banca alla restituzione della somma di Euro 131.219,46 in relazione al c/c n. 5200153, e di Euro 6.128,59 in relazione al c/c n. (…).

Avverso la sentenza proponeva appello la Banca (…) Spa prospettando un unico motivo di impugnazione, relativo all’omesso assolvimento dell’onere della prova, sotto due distinti profili.

Secondo l’appellante, la mancanza dei contratti di conto corrente non consentiva alcun accertamento sulla liceità delle clausole in essi contenute, né a tanto potevano supplire gli estratti conto. Inoltre, l’asserzione circa la completezza degli estratti conto non era corretta, posto che del conto corrente n. 5200153 mancavano sia un estratto intermedio (quello del IV trimestre 1989), sia, soprattutto, quello della chiusura, avvenuta il 5 marzo 2001, mentre gli estratti conto si fermavano al 31 dicembre 2000.

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Si costituiva la Mo.Fe. Srl che eccepiva l’inammissibilità dell’impugnazione per violazione dell’art. 342 c.p.c. e la tardività dell’eccezione avanzata ai sensi dell’art. 2697 c.c. Asseriva poi che alla carenza dell’estratto conto del IV trimestre 1989 il consulente aveva supplito con adeguato calcolo ragionieristico (peraltro, in danno del correntista) e che non rispondeva al vero che il conto si fosse chiuso al 5 marzo 2001, essendo in atti la prova che esso era stato chiuso al 30 dicembre 2000. Contrastando ogni altro argomento, concludeva per il rigetto del gravame.

Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello accoglieva in parte l’appello, ritenendo che la correntista non avesse offerto la prova del credito vantato in restituzione con riferimento al conto corrente n. (…), confermando invece la statuizione di primo grado con riferimento al conto corrente n. (…).

Avverso la decisione della Corte d’appello di Catanzaro, la Mo.Fe. Srl ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi di impugnazione.

La banca intimata si è difesa con controricorso.

La erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per non essersi la Corte d’appello pronunciata sulla eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per genericità della censura.

Con il secondo motivo di ricorso e dedotta al violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115 e 345, comma 2, c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), non avendo la Corte d’appello rilevato la novità dell’eccezione riferita alla violazione delle regole di riparto dell’onere della prova, tenuto conto che in primo grado l’istituto di credito non aveva negato l’applicazione di interessi anatocistici, di cui rivendicava la liceità, così affrancando la correntista dall’onere della prova del loro addebito in conto.

Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 1283 c.c. (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), nonché il vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), poiché la Corte d’appello, dopo avere affermato che anche sul conto n. 5200153 erano stati applicati interessi anatocistici, ha poi rigettato la domanda di ripetizione, in ragione della mancata produzione dell’estratto conto di chiusura del conto, ritenendo in modo – per la ricorrente illogico – e non comprensibile che si trattava di una mancanza non colmabile con alcun tipo di prova.

2. Deve subito rilevarsi, nell’esaminare il primo motivo di ricorso, che, sebbene la ricorrente abbia dedotto la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., e non del n. 4 dello stesso articolo, è a tale vizio che occorre fare riferimento, tenuto conto dell’esplicito riferimento alla nullità della sentenza conseguente alla violazione di una norma che regola il processo.

Com’è noto, infatti, l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, c.p.c., né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass., Sez. 65, Ordinanza n. 25557 del 27/10/2017).

3. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

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Come più volte affermato da questa Corte, infatti, il vizio di omessa pronunzia è, infatti, configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25154 dell’11/10/20182018; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10422 del 15/04/2019; Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 1876 del 25/01/2018).

4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

Occorre prima di tutto evidenziare che la prospettazione della violazione delle regole che disciplinano il riparto dell’onere della prova non è riconducibile all’ambito operativo dell’art. 345 c.p.c., nella parte in cui non consente la proposizione in appello di eccezioni nuove, che non siano rilevabili anche d’ufficio.

Come già precisato da questa Corte, non sono inammissibili quei motivi di impugnazione con i quali il convenuto, soccombente nel giudizio di primo grado, eccepisca la mancanza della prova del diritto controverso, atteso che la doglianza proposta dall’appellante non costituisce eccezione in senso tecnico, che incontra il divieto di proposizione in appello, ai sensi dell’articolo appena menzionato, ma una mera sollecitazione dei poteri ufficiosi del giudice, il quale deve rilevare d’ufficio la mancanza della prova dei fatti posti a base della pretesa dell’attore, in applicazione dell’art. 2697 c.c. (cfr. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 10475 del 03/07/2003).

Nel caso di specie, parte ricorrente ha dedotto che il giudice di appello ha esaminato, ed accolto, gli argomenti posti a fondamento dell’impugnazione in tema di prova del credito azionato dalla correntista, senza tenere conto del fatto che la banca aveva riconosciuto l’intervenuta capitalizzazione trimestrale degli interessi, di cui aveva affermato la liceità, con la conseguenza che non doveva ritenere la correntista tenuta a fornirne la prova.

È tuttavia evidente che occorre distinguere la questione relativa alla prova della capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito della correntista, ritenuta incontestata anche dal giudice dell’appello, e la questione relativa alla prova dell’esistenza e dell’entità del credito restitutorio dalla correntista, derivante dal pagamento di somme addebitate in conto ma non dovute in ragione della menzionata capitalizzazione.

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In effetti, l’addebito in conto di determinate somme non equivale necessariamente al pagamento delle stesse, il quale deriva dal compimento di rimesse solutorie da parte della correntista in costanza di rapporto o in chiusura dello stesso.

In conclusione, la prova (o la non contestazione) dell’applicazione di commissioni di massimo scoperto in conto costituisce la prova della natura indebita delle corrispondenti poste annotate a debito nel conto, ma essa non esonera dalla prova del versamento in conto da parte del correntista di somme che costituiscono veri e propri pagamenti a tale titolo e, come tali, suscettibili di ripetizione.

5. Il terzo motivo di ricorso è fondato.

Nell’illustrazione del motivo la ricorrente ha nuovamente censurato la decisione impugnata nella parte in cui, nonostante avesse ritenuto sussistente la denunciata capitalizzazione trimestrale degli interessi, ha poi affermato – con motivazione ritenuta perplessa e contraddittoria – che la mancanza dell’ultimo estratto conto comportava il non assolvimento dell’onere probatorio in relazione all’an debeatur, salvo poi a concludere che tale omessa produzione configurava una insufficienza della prova incidente sulla esatta determinazione del quantum, inferendone comunque che tale insufficienza si riverberava inevitabilmente sulla sorte della domanda, trattandosi di carenza non colmabile con alcun tipo di prova (p. 6 e 7 del ricorso per cassazione).

Secondo la parte, la Corte di merito ha ritenuto inopinatamente che la mancanza dell’ultimo estratto conto impedisse l’accoglimento della domanda di pagamento dell’indebito, usando peraltro argomenti illogici e incomprensibili.

5.1. I fatti costitutivi dell’azione di ripetizione sono essenzialmente due: 1) l’effettuazione del pagamento; 2) l’assenza di un titolo giustificativo della prestazione eseguita.

Dovendo l’onere di allegazione, come in precedenza evidenziato, riguardare i fatti rilevanti ai fini della decisione, nel caso in cui venga proposta l’azione di ripetizione, l’attore deve allegare i fatti appena indicati e fornirne la prova.

La giurisprudenza ha più volte affermato che, secondo le ordinarie regole, nelle ipotesi in cui viene esperita l’azione di ripetizione dell’indebito, l’attore è tenuto a dimostrare i fatti costitutivi dell’azione esperita, dovendo quindi provare sia l’avvenuto pagamento e sia la mancanza di una causa che lo giustifichi, ovvero il successivo venire meno di questa (tra le tante, v. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 30713 del 27/11/2018).

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Ovviamente se l’indebito non concerne tutto l’importo pagato, ma solo una parte di esso, chi allega di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e propone nei confronti dell’accipiens l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta.

Nei rapporti di conto corrente ciò significa che il correntista, attore in ripetizione, deve dimostrare, in primo luogo, di avere effettuato versamenti in conto, che tali versamenti siano dei veri e propri pagamenti e che questi ultimi non siano dovuti (in tutto o in parte).

In un primo tempo, questa Corte ha ritenuto che, sempre nei rapporti di conto corrente bancario, il correntista che agisce per la ripetizione dell’indebito è tenuto alla prova degli avvenuti pagamenti e della mancanza di una valida causa debendi essendo, altresì, onerato della ricostruzione dell’intero andamento del rapporto, con la conseguenza che non può essere accolta la domanda di restituzione se gli estratti conto attestanti le singole rimesse sono suscettibili di ripetizione (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 30822 del 28/11/2018, ove la S.C. ha cassato la sentenza della Corte d’appello che, in presenza del primo estratto conto disponibile con saldo negativo per il correntista, aveva calcolato i rapporti di dare e avere con la banca previo azzeramento di detto saldo perché ritenuto non provato con la produzione degli estratti conto risalenti alla data di apertura del rapporto).

Tale opinione è rimasta tuttavia isolata, poiché la S.C., con orientamento condiviso anche da questo Collegio, si è consolidata nel ritenere che, ai fini della prova del pagamento suscettibile di restituzione, il correntista che agisce in giudizio per la ripetizione non è tenuto a documentare le singole rimesse suscettibili di restituzione solo mediante la produzione di tutti gli estratti conto periodici, ben potendo la prova dei movimenti desumersi aliunde, vale a dire attraverso le risultanze di altri mezzi di prova in grado di fornire indicazioni certe e complete, ed anche ricorrendo all’ausilio di una consulenza d’ufficio (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20621 del 19/07/2021; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 29190 del 21/12/2020).

Si è, in particolare, affermato che gli estratti conto non forniscono la prova legale di fatti relativi al rapporto di conto corrente, i quali sono suscettibili di prova libera, potendo anche essere dimostrati da argomenti di prova o elementi indiretti, che compete al giudice di merito valutare nell’ambito del suo prudente apprezzamento (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 29190 del 21/12/2020; v. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 22290 del 25/07/2023).).

L’estratto conto, quale atto riassuntivo delle movimentazioni del conto corrente, può senza dubbio offrire la prova del saldo del conto stesso, in combinazione con le eventuali controdeduzioni di controparte e le ulteriori risultanze processuali, ma se tali movimentazioni sono ricavabili anche da altri documenti, come i cosiddetti riassunti scalari, attraverso la ricostruzione operata dal consulente tecnico d’ufficio, secondo l’insindacabile accertamento in fatto del giudice di merito, ciò è sufficiente alla integrazione della prova di cui il correntista richiedente è onerato (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 10293 del 18/04/2023).

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Ma, come di recente ribadito, l’estratto conto non costituisce l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto (Cass, Sez. 1, Ordinanza n. 37800 del 27/12/2022).

Esso consente di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto e, tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito può valorizzare, esemplificativamente, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni o, a norma degli artt. 2709 e 2710 c.c., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass., Sez. 1, Sentenza n. 10692 del 10/05/2007 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 23974 del 25/11/2010) e, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati, quello stesso giudice può avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile, al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (cfr. Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14074 del 01/06/2018; nel medesimo senso, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 31187 del 03/12/2018, n. 31187; v. altresì Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11543 del 02/05/2019). Rilevano, altresì, la condotta processuale della controparte ed ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c..

5.2. Nel caso di specie, la Corte d’appello, dopo aver affermato che il correntista che agisce in ripetizione di indebiti pagamenti ha lo specifico onere di produrre tutti gli estratti di conto periodici dalla data di avvio del rapporto fino alla sua chiusura, essendo altrimenti impossibile stabilire con esattezza le somme da ultimo rilevate alla chiusura del conto, e dunque verificare l’esistenza e l’entità di somme dovute in restituzione, ha rilevato che nella specie non vi era la prova del pagamento oggetto della richiesta di restituzione, perché mancava l’ultimo estratto conto, dal quale poteva dedursi l’esistenza di un credito o di un debito del correntista al momento della chiusura del conto, e non era attestato da nessuna parte nemmeno se si trattava di saldo positivo o negativo, senza che tale carenza fosse colmabile in alcun modo, neppure considerando la situazione contabile risultante dal penultimo estratto conto, perché non poteva escludersi che nel due mesi successivi al 31/12/2000, che precedevano la chiusura del conto, avvenuta il 05/03/2001 fossero intervenuti movimenti incidenti sulla determinazione del credito in restituzione.

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La Corte non si è dunque adeguata ai principi sopra enunciati, poiché l’estratto conto non costituisce l’unico mezzo di prova attraverso cui costruire le movimentazioni del rapporto, essendo il giudice chiamato a valutare le risultanze istruttorie nel loro complesso.

6. In conclusione, deve essere accolto il terzo motivo di ricorso e, inammissibile il primo e infondato il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa alla Corte di appello di Catanzaro in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso come da motivazione e, dichiarato inammissibile il primo e infondato il secondo, cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di appello di Catanzaro in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 ottobre 2023.

Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2024.

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