La verbalizzazione delle prove concorsuali

Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 27 giugno 2019, n. 4432.

La massima estrapolata:

Nei pubblici concorsi la verbalizzazione delle prove concorsuali ha funzione strumentale e di carattere probatorio per cui le irregolarità o carenze di verbalizzazione non sono di per sé idonee ad inficiare la procedura qualora detta funzione non sia stato validamente provato che sia rimasta compromessa; il verbale, infatti, non è atto collegiale ma solo un documento che attesta, con le dovute garanzie legali, il contenuto della volontà collegiale.

Sentenza 27 giugno 2019, n. 4432

Data udienza 7 maggio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1588 del 2008, proposto dal dottor Ce. Bu., rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Pa., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…),
contro
il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via (…),
nei confronti
dottoressa Matilde Covone, non costituita in giudizio,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 16079/2006, resa tra le parti, concernente la mancata ammissione alle prove orali del concorso a 200 posti di notaio anno 2001 indetto con d.m. 29 dicembre 2000 e per il risarcimento dei danni.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2019 il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti l’avvocato Lu. Gi. su delega di Gi. Pa., e l’Avvocato dello Stato Gi. Ga.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il presente atto di appello è stata impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio n. 16079 del 28 dicembre 2006, che ha respinto il ricorso proposto dal dottor Ce. Bu. avverso la mancata ammissione alle prove orali del concorso a 200 posti da notaio indetto con decreto del Direttore generale degli affari civili e delle libere professioni del 29 dicembre 2000, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 gennaio 2001.
Il candidato non ha superato le prove scritte, in quanto non ha raggiunto la sufficienza nella prima prova corretta (atto di ultima volontà ), non avendo, quindi, proseguito la Commissione nella correzione delle ulteriori prove, ai sensi dell’art. 22 del r.d. n. 1953 del 1926. Il giudizio di non idoneità espresso dalla Commissione è così motivato: “Trattazione teorica degli istituti incompleta e veloce inconferente con presenza di in esattezze giuridiche. Carente motivazione in ordine alla sorte dell’eredità e degli effetti della rinuncia”.
Con il ricorso di primo grado sono state proposte le seguenti censure:
violazione e falsa applicazione degli articoli 22, 23, 24 e 27 del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953; degli articoli 11, 12, 15 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487; degli articoli 12 commi 4 e 16 del r.d. 15 ottobre 1925, n. 1860; difetto di motivazione; violazione e mancata applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; dei principi generali in materia di imparzialità e par condicio dei candidati; disparità di trattamento; violazione degli articoli 3, 24, 97, 113 della Costituzione; dei principi in materia di verbalizzazione; eccesso di potere per travisamento dei fatti; sviamento di potere; contraddittorietà, irragionevolezza, illogicità, ingiustizia manifesta.
E’ stata altresì proposta solo nelle epigrafe e nelle conclusioni del ricorso una domanda di risarcimento danni.
La sentenza di primo grado ha respinto il ricorso richiamando i consolidati orientamenti della giurisprudenza amministrativa in materia di procedure concorsuali; in particolare, ha ritenuto infondata la censura relativa alla sostituzione dei membri della Commissione, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale relativo alla fungibilità dei membri della Commissione esaminatrice di un concorso; altresì, la censura relativa alla genericità dei criteri determinati dalla Commissione, in relazione all’ampia discrezionalità attribuita alla Commissione, ritenendo legittima anche la successiva integrazione di tali criteri; ha respinto le censure sul difetto di motivazione richiamando la costante giurisprudenza sulla sufficienza del punteggio numerico; ha, altresì, respinto le censure con cui si contestava il giudizio della Commissione, in quanto riguardanti le valutazioni discrezionali della stessa.
Con l’atto di appello sono stati proposti i seguenti motivi:
– erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto fungibili i membri della Commissione, mentre sarebbero sostituibili solo negli specifici casi previsti dalla legge, con un provvedimento formale e comunque nell’ambito della singola categoria rappresentata nella Commissione e, comunque, violazione degli artt. 22, 23, 24 del r.d. n. 1953 del 1926 per mancato rispetto del procedimento relativo alle Sottocommissioni;
– erroneità della sentenza con riferimento alla mancata predeterminazione dei criteri da parte della Commissione che sono anche stati successivamente integrati;
– erroneità della sentenza per la omessa valutazione della censura relativa alla mancata sottoscrizione dei verbali nei fogli disgiunti e della censura relativa alla violazione dell’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926 relativa alle cancellature e interlineature nei verbali;
– erroneità della sentenza rispetto al profilo motivazionale sul punteggio numerico che non era oggetto di censura e riproposizione della censura relativa alle genericità della motivazione;
– erroneità della sentenza rispetto alle censure di contraddittorietà, illogicità e irragionevolezza del giudizio della Commissione deducendo la correttezza della soluzione adottata nella prova considerata non idonea.
Ha riproposto nell’epigrafe e nelle conclusioni dell’atto di appello la domanda di risarcimento danni per la illegittima attività amministrativa.
Il Ministero si è costituito con atto di mero stile.
All’udienza pubblica del 7 maggio 2019 il giudizio è stato trattenuto in decisione.
Con il primo motivo di appello si deduce l’erroneità della sentenza impugnata, in quanto ha erroneamente respinto la censura relativa alla illegittima formazione della Commissioni, che sarebbe invece avvenuta in assenza di un formale provvedimento di nomina delle Sottocommissioni, previsto dall’art. 22 del r.d. n. 1953 del 1926, e, comunque, con la partecipazione dei vari membri senza apposito provvedimento di sostituzione e senza rispettare il principio di partecipazione di tutte le categorie indicate dall’art. 13 del r.d. n. 1953 del 1926.
Tale motivo è infondato.
Ai sensi dell’art. 22 del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953, “in considerazione del numero rilevante dei concorrenti il presidente può, sentiti i commissari, formare due Sottocommissioni, stabilendo l’ordine di correzione dei temi.
Ciascuna Sottocommissione deve essere composta di cinque commissari assistiti da un segretario ed è presieduta da uno dei presidenti.
La Sottocommissione, dopo l’apertura dei pieghi con le modalità indicate dell’art. 19, procede all’esame del lavoro attinente alla materia che le è stata assegnata.
La Sottocommissione, se attribuisce al lavoro esaminato il minimo richiesto per l’approvazione, trasmette all’altra Sottocommissione, seguendo l’ordine di correzione prestabilito, il secondo lavoro.
La Commissione procede quindi all’esame del terzo lavoro dei candidati che hanno conseguito negli altri due lavori il minimo richiesto per l’approvazione”.
In primo luogo, la formazione delle due Sottocommissioni, che avrebbe comportato l’adozione del procedimento descritto dall’art. 22 del r.d. n. 1953 del 1956, non risulta disposta dal Presidente né comunque, concretamente, seguita dalla Commissione, nel caso di specie.
La stessa difesa appellante deduce che la Commissione avrebbe operato solo in via “di fatto” tramite due Sottocommissioni; in effetti non risulta dagli atti di causa che la Commissione abbia proceduto attraverso tale specifica modalità .
Il procedimento di distinzione delle Sottocommissioni, non trova, dunque, riscontro, in fatto, negli atti di causa.
La formazione della Commissione è, quindi, avvenuta semplicemente di volta in volta per la sostituzione dei componenti effettivi con i supplenti, senza dunque, alcuna necessità di seguire il procedimento previsto dall’art. 22 del r.d. n. 1953 del 1926.
Inoltre, la sostituzione dei membri della Commissione, in base alla disciplina del concorso notarile, prevista dall’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926 – per cui “nel caso che qualcuno dei commissari non possa assumere o continuare l’esercizio delle sue funzioni, è immediatamente surrogato da un membro supplente” – secondo la giurisprudenza costante di questo Consiglio, da cui il Collegio non ritiene di potersi discostare, nel caso di specie, non richiede una specifica motivazione. Tale disciplina è, infatti, considerata speciale rispetto alla disciplina generale dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego prevista dall’art. 9, comma 5, del d.P.R. n. 487 del 1994, che dispone l’intervento alle sedute della commissione dei componenti supplenti “nelle ipotesi di impedimento grave e documentato degli effettivi”.
Proprio, con riferimento alla disciplina della Commissione del concorso notarile, di cui all’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926, è stato, infatti, affermato il principio di piena fungibilità dei membri della Commissione di concorso, escludendo, altresì, l’obbligo di una specifica indicazione a verbale della motivazione in ordine ai motivi che hanno reso necessaria la sostituzione dei componenti, (Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 805; id., 27 marzo 2008, n. 1243; id., 22 marzo 2007, n. 1390; id., 22 settembre 2005, n. 4989).
Con l’ulteriore motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sufficienti i criteri determinati dalla Commissione e successivamente integrati dalla stessa, lamentando la violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1994, per cui “le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove” e deducendo, comunque, l’assoluta genericità dei criteri indicati dalla Commissione.
In primo luogo, ritiene il Collegio di dovere richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale, anche riferito alla disciplina generale dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1994, per cui la predeterminazione dei criteri della Commissione esaminatrice rientra nell’ambito di discrezionalità della Commissione.
Per la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, l’attività di predeterminazione dei criteri di valutazione è espressione dell’ampia discrezionalità amministrativa di cui sono fornite le commissioni esaminatrici per lo svolgimento della propria funzione, con la conseguenza che le relative scelte non sono assoggettabili al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano ictu oculi inficiate da irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamento dei fatti (con specifico riferimento al concorso notarile: Consiglio di Stato, sez. IV, 26 ottobre 2018, n. 1603; id., 25 febbraio 2018, n. 705; id., 3 aprile 2014, n. 1596; in generale sui concorsi pubblici: sez. IV, 7 dicembre 2017, n. 5770; sez. VI, 17 maggio 2017, n. 2334; id., 26 gennaio 2015, n. 330; id., 17 giugno 2014, n. 3050; sez. IV, 11 luglio 2013, n. 3747).
Costituiscono, pertanto, espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l’idoneità tecnica o culturale ovvero attitudinale dei candidati, tanto il momento, a monte, dell’individuazione dei criteri di massima per la valutazione delle prove, quanto quello, a valle, delle valutazioni espresse dalla commissione giudicatrice. Da ciò discende che sia i criteri di giudizio che le valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo se non nei limitati casi in cui l’esercizio del potere discrezionale trasmodi in uno o più dei vizi sintomatici dell’eccesso di potere, irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamento dei fatti, i quali tipicamente rappresentano dei vizi della funzione amministrativa, per essere stato il potere scorrettamente esercitato o finalizzato al raggiungimento di finalità estranee a quella della scelta dei soggetti più idonei a ricoprire la funzione (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 luglio 2018, n. 4585).
Inoltre, tale predeterminazione deve essere idonea ad orientare il processo logico seguito dalla Commissione nella valutazione delle prove e a rendere sufficiente, ai fini della motivazione, il punteggio numerico (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 20 settembre 2017, n. 7, secondo cui i giudizi delle commissioni sulle prove scritte d’esame vanno di per sé considerati adeguatamente motivati anche quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione).
Poiché, quindi, i criteri di massima assolvono la funzione di orientare il processo valutativo della Commissione e di consentire la ricostruzione del processo logico attraverso il quale la stessa è pervenuta alla formulazione del giudizio, il loro rilievo si attenua quando la motivazione della valutazione della singola prova, come avvenuto nel caso di specie, sia stata compiutamente esternata, in quanto il giudizio di inidoneità della prove del candidato non è stato formulato con un punteggio numerico ma con un giudizio esplicito, sia pure sintetico, che ha fatto specifico riferimento agli aspetti della prova esaminata (“Trattazione teorica degli istituti incompleta e veloce inconferente con presenza di in esattezze giuridiche. Carente motivazione in ordine alla sorte dell’eredità e degli effetti della rinuncia”), con la conseguenza che i criteri di correzione indicati dalla Commissione non avevano anche la funzione di integrare ed esplicitare il punteggio numerico, sul piano della motivazione.
In ogni caso, la giurisprudenza è anche costante nel ritenere che i criteri di valutazione delle prove scritte, in particolare, per quanto riguarda i concorsi che richiedono un’elevata specializzazione, come il concorso notarile, non necessitino di particolare analiticità (Consiglio di Stato, sez. IV, 20 giugno 2012, n. 3619). I parametri di valutazione devono mantenere una certa flessibilità ed elasticità, non sempre essendo possibile predeterminare a priori la gamma delle soluzioni a ciascuna questione giuridica che potrebbero risultare suscettibili di positiva delibazione; e, per altro verso, perché il concorso per cui è causa non può essere qualificato alla stregua di un insieme di quiz a fronte dei quali la Commissione esaminatrice è chiamata unicamente a verificare l’esattezza delle risposte fornite dai candidati (Consiglio di Stato, sez. IV, 27 giugno 2011, nn. 3857 e 3855; id., 4 giugno 2013, n. 3057).
Nel caso di specie, la Commissione prima dell’inizio della correzione delle prove scritte, ha indicato i seguenti criteri per una valutazione di insufficienza delle prove:
“a- presenza di errori tali da indurre a ritenere che il candidato abbia una scarsa padronanza della lingua italiana o della corretta terminologia giuridica;
b- presenza nella redazione dell’atto o del ricorso, oggetto dell’elaborato, di errori o di imperfezioni che comportino l’invalidità ai sensi delle norme vigenti, anche con riferimento all’art. 28 della legge n. 18 febbraio 1013, n. 89;
c- mancata o incompleta trattazione degli istituti giuridici da prendere in considerazione;
d-travisamento od insufficiente illogica o contraddittoria trattazione dei fatti prospettati o presenza di errori di diritto inerenti alle scelte seguite nella soluzione del caso;
e-soluzione adottata incompatibile con lo scopo perseguito dalle parti”.
Tali criteri, in base agli orientamenti giurisprudenziali consolidati sopra citati, devono ritenersi sufficienti ad indirizzare il giudizio discrezionale della Commissione, anche tenuto conto che, nel caso di specie, il giudizio della prova è stato, pur sinteticamente, motivato.
L’appellante sostiene la genericità dei criteri, anche in quanto non avrebbero fatto riferimento alla individuazione delle soluzioni corrette rispetto alle tracce proposte.
Anche sotto tale profilo, il motivo deve ritenersi infondato.
Si richiamano, infatti, i consolidati orientamenti di questo Consiglio, da cui il Collegio non intende discostarsi, per cui nel concorso notarile, atteso il particolare spessore teorico-pratico della competenza e della perizia richieste, vengono sottoposti ai candidati temi che non prevedono soluzioni predeterminate in astratto ma che, invece, consentono più soluzioni possibili, purché correttamente costruite sul piano logico e giuridico e adeguatamente motivate. Ciò risponde, all’evidenza, alla necessità pratica di individuare il profilo professionale che, munito di doti di comprensione, riflessione, ragionamento logico-giuridico e capacità espositivo-argomentativa, maggiormente corrisponde al tipo ideale di pubblico ufficiale preposto all’esercizio della funzione notarile (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5117). Inoltre, l’opinabilità delle questioni giuridiche sottese ai quesiti, spesso articolati e complessi che connotano le prove d’esame del concorso notarile impedisce di esaminarle come se si trattasse di quiz rispetto ai quali la Commissione sarebbe chiamata soltanto verificare l’esattezza o meno delle risposte fornite, laddove invece il giudizio sule soluzioni offerte dal candidato è spesso condizionato in modo determinante dal percorso logico e dalle argomentazioni che le sostengono, nell’ambito di una più generale valutazione della completezza e della logica interna dell’elaborato.
Entrano così in gioco quali aspetti pure decisivi del giudizio altri elementi come la modalità espositiva delle argomentazioni, la coerenza e la correttezza delle prospettazioni giuridiche, la cui valutazione, non può non rientrare nella sfera rimessa alla piena discrezionalità della Commissione e rispetto ai quali non è ammissibile una sostituzione dell’organo giurisdizionale (Consiglio di Stato, sez. IV, 27 giugno 2011, n. 3855).
L’appellante deduce poi che la Commissione avrebbe integrato i criteri nel corso delle correzioni, ma non vi è alcuna prova in tal senso agli atti del giudizio, in cui la determinazione dei criteri risulta effettuata nella prima seduta (verbale n. 1).
Ulteriore motivo di appello è stato proposto in relazione al mancato esame da parte del giudice di primo grado della censura relativa alla violazione dell’art. 15 del d.P.R. n. 487 del 1994 e dell’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926, per la mancata sottoscrizione dei verbali nei fogli disgiunti, in particolare del verbale n. 1 che, in mancanza della sottoscrizione per esteso o della sigla di almeno un componente della Commissione o del segretario nei fogli disgiunti, non sarebbe riconducibile alla Commissione. Inoltre, neppure sarebbe stata rispettata la previsione dell’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926, per cui le cancellature o correzioni avrebbero dovuto essere approvate con postilla prima della sottoscrizione.
Ritiene il Collegio l’infondatezza anche di tale motivo di appello.
Ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, “di tutte le operazioni di esame e delle deliberazioni prese dalla commissione esaminatrice, anche nel giudicare i singoli lavori, si redige giorno per giorno un processo verbale sottoscritto da tutti i commissari e dal segretario”.
In base all’art. 27 del r.d. n. 1953 del 1926 “di tutte le operazioni del concorso viene redatto quotidianamente processo verbale che viene sottoscritto dal presidente, dai membri della commissione e dal segretario”.
Per costante giurisprudenza, la verbalizzazione delle prove concorsuali ha funzione strumentale e di carattere probatorio per cui le irregolarità o carenze di verbalizzazione non sono di per sé idonee ad inficiare la procedura qualora detta funzione non sia stato validamente provato che sia rimasta compromessa; il verbale, infatti, non è atto collegiale ma solo un documento che attesta, con le dovute garanzie legali, il contenuto della volontà collegiale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989; id., Sez. V, 4 gennaio 2011, n. 8, che, con riferimento alla mancata sottoscrizione del verbale di concorso da parte di uno dei componenti della commissione giudicatrice, affermano che si tratta di irregolarità sanabile, che non inficia la validità del verbale stesso, che costituisce “atto estrinseco rispetto alle operazioni concorsuali, come tale insuscettibile di invalidare le operazioni dell’organo collegiale quando queste si siano svolte regolarmente e dall’intestazione dell’atto risulti la presenza anche dei componenti della commissione che non hanno sottoscritto il verbale”).
Quale mera irregolarità è stata, dunque, anche già qualificata dalla giurisprudenza la specifica mancanza lamentata dall’appellante, ovvero la asserita mancanza di sigla sui fogli di cui constano i verbali oggetto di impugnazione, ritenuta inidonea, quindi, ad inficiare la validità del verbale, qualora, come nel caso di specie, quando non venga svolta alcuna contestazione circa l’effettività e veridicità del loro contenuto, “essendosi limitato l’appellante a prospettare, in maniera del tutto vaga, generica ed astratta, che un tal modo di redazione dei verbale potrebbe rendere impossibile ricollegare all’organo competente (cioè alla Commissione) l’attività svolta, mentre i fogli aggiunti al verbale sono regolarmente numerati in modo che alcun dubbio ragionevole vi è sul fatto della loro effettiva riconducibilità al verbale contestato e alla effettiva volontà espressa dalla commissione, così come da essi risultante” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989).
Inoltre, con specifico riferimento alla disposizione dell’art. 27 del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953, per cui “è vietata qualunque abrasione nei processi verbali della commissione. Le cancellature o correzioni che occorressero devono essere approvate con postille, prima delle sottoscrizioni”, la giurisprudenza di questo Consiglio, da cui il Collegio ritiene di non doversi discostare nel caso di specie, ha anche già affermato che “il bene giuridico tutelato da tale disposizione è la genuinità del processo verbale a garanzia non solo della correttezza estrinseca del procedimento concorsuale e delle operazioni svolti dalla commissione, ma anche – e soprattutto – della correttezza intrinseca, nel senso della corrispondenza sostanziale di quanto riportato nel processo verbale con l’effettiva attività svolta dalla commissione nel suo complesso. Sotto tale profilo, in particolare, è significativo che la norma, mentre vieta le abrasioni, consente invece le cancellature e correzioni, avendo cura che le stesse – attraverso la peculiare formalità della postilla – siano non solo riconoscibili, ma siano espressamente approvate, prima delle sottoscrizioni del verbale, in tal modo assicurandosi la corrispondenza intrinseca fra quanto riportato nel verbale e l’effettiva volontà dei commissari”, escludendo profili di legittimità, quando le modalità “con cui la contestata cancellatura è stata operata escludono, in mancanza di elementi contrari che possa essere messa in dubbio la sua riferibilità alla commissione”(Consiglio di Stato, sez. IV, 27 novembre 2008, n. 5862).
Nel caso di specie, il verbale n. 1, risulta sottoscritto da tutti i componenti e le correzioni, tramite interlineature, risultano integralmente attribuibili alla Commissione esaminatrice; inoltre, la maggior parte riguardano aspetti meramente formali, come la sostituzione della parola “aula” con “sala” (essendosi la Commissione riunita nella sala rossa del Ministero della Giustizia) del tutto irrilevanti rispetto alla manifestazione di volontà espressa dalla Commissione; altre correzioni sono contenute nella pagina finale del verbale, sottoscritta dai membri della Commissione, quindi perfettamente riconducibili alla stessa (la sostituzione del termine “insufficiente” con “inidoneo” con riferimento al giudizio espresso rispetto al primo elaborato corretto; il riferimento alla “busta piccola contenente il nome del candidato” cancellato e poi riprodotto successivamente).
Le censure proposte dall’appellante relativamente al verbale n. 1 della Commissione devono quindi ritenersi infondate, in quanto i difetti contenuti in tali verbali non superano il livello della mera irregolarità, in base ai consolidati orientamenti giurisprudenziali sopra citati.
Con ulteriore motivo di appello si lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui avrebbe fatto riferimento al punteggio numerico, in relazione, quindi, ad un motivo di ricorso non proposto in primo grado; è stata, pertanto, riproposta l’originaria censura relativa al difetto di motivazione per la insufficienza e genericità della stessa anche in relazione alla genericità dei criteri elaborati dalla Commissione.
Ritiene il Collegio che effettivamente sul punto la sentenza di primo grado abbia fatto erroneamente riferimento alla sufficienza del punteggio numerico, in quanto all’elaborato del candidato è stato attribuito un giudizio.
Peraltro, il motivo di censura originariamente proposto e riproposto con l’atto di appello è comunque infondato, dovendosi ritenere sufficientemente motivato il giudizio di inidoneità della prova espresso dalla Commissione.
Il giudizio espresso nei seguenti termini: “Trattazione teorica degli istituti incompleta e veloce inconferente con presenza di inesattezze giuridiche. Carente motivazione in ordine alla sorte dell’eredità e degli effetti della rinuncia”, pur formulato in forma sintetica, riguarda i vari aspetti della prova e corrisponde ai criteri fissati nel verbale n. 1 del 27 ottobre 2001, in particolare a quello di cui alla lettera c), “mancata o incompleta trattazione degli istituti giuridici da prendere in considerazione”.
L’appellante contesta, infine, il giudizio di inidoneità espresso dalla Commissione sia in relazione alla soluzione da lui proposta sia in relazione all’elaborato di un altro candidato (contraddistinto dalla busta 750), ritenuto idoneo dalla Commissione, ma secondo quanto affermato dall’appellante, con una trattazione degli argomenti non maggiormente approfondita rispetto a quella contenuta nella sua prova.
Osserva il Collegio che, in base ai consolidati orientamenti di questo Consiglio, le valutazioni espresse dalla Commissione esaminatrice di un concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell’elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l’idoneità tecnica e/o culturale ovvero attitudinale dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico od un errore di fatto, o ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile; conseguentemente il giudicante non può ingerirsi negli ambiti riservati alla discrezionalità tecnica dell’organo valutatore (e quindi sostituire il proprio giudizio a quello della Commissione), se non nei casi in cui il giudizio si appalesi viziato sotto il profilo della abnormità logica (Consiglio di Stato, sez. IV, 7 febbraio 2018, n. 705, con specifico riferimento al concorso notarile).
In particolare, la valutazione degli elaborati costituisce espressione di un giudizio discrezionale, sul quale il sindacato di legittimità del giudice amministrativo, non essendo materia compresa tra le eccezionali ipotesi tassativamente attribuite alla giurisdizione di merito del giudice amministrativo, è limitato ad un sindacato estrinseco nei limiti del riscontro effettivo del vizio di eccesso di potere; né è consentito al giudice della legittimità sovrapporre alle valutazioni della Commissione la personale valutazione propria o di un soggetto terzo – qualunque sia il livello di conoscenza ed esperienza – in quanto spetta in via esclusiva alla Commissione la competenza a valutare gli elaborati degli esaminandi. Infatti, il giudizio tecnico discrezionale della Commissione esaminatrice riguarda vari profili (il modo in cui è stato redatto l’elaborato scritto in relazione al caso concreto, la soluzione prospettata, la pertinenza delle norme giuridiche richiamate, la menzione delle massime giurisprudenziali formatesi sul caso specifico affrontato e dell’orientamento prevalente, la chiarezza espositiva, la forma sintattica e la stessa logica emergente dall’elaborato, ecc.), la valutazione dei quali implica all’evidenza un sindacato pregnante consentito, in sede di legittimità, soltanto a fronte della abnormità dell’operato valutativo della commissione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2018, n. 253; id., 4 dicembre 2017, n. 5726).
Le deduzioni dell’appellante circa l’erroneità della valutazione della Commissione con riferimento alla valutazione della sua prova e a quella di altro candidato attengono proprio al merito delle valutazioni espresse dalla Commissione esaminatrice, riguardando il giudizio tecnico discrezionale espresso dalla Commissione sulle prove, in particolare contestando il merito del giudizio espresso dalla Commissione, positivo, sulla prova di altro candidato e di non sufficienza della sua prova.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la Commissione abbia un ampio margine di discrezionalità rispetto alla valutazione delle prove di un concorso e che il sindacato di legittimità non possa sostituire il giudizio della Commissione come invece invoca l’appellante in tale motivo di appello. Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo rispetto al giudizio espresso dalle Commissioni esaminatrici di un esame o di un concorso è, infatti, limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere per manifesta illogicità, con riferimento ad ipotesi di erroneità o irragionevolezza riscontrabili ab externo e ictu oculi dalla sola lettura degli atti (Consiglio di Stato, sez. VI, 17 maggio 2017, n. 2334; Sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5117).
Inoltre, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio, la disparità di trattamento postula la dimostrazione che siano state trattate diversamente due situazioni uguali o analoghe (sez. IV, 30 agosto 2017, n. 4107; id., 1 giugno 2018, n. 3326), mentre è evidente che la valutazione di un concetto giuridico e della sua concreta applicazione deve essere inserita all’interno dello svolgimento della traccia nel suo complesso, e che il maggiore o minor pregio della prova discende anche dall’equilibrio argomentativo complessivo e dalla logica interna generale che sorregge l’elaborato nella sua interezza (con riferimento al concorso notarile: sez. IV, 27 giugno 2011, n. 3856; id., 4 giugno 2013, n. 3057; id., 5 gennaio 2017, n. 11).
In particolare, l’opinabilità delle questioni giuridiche sottese ai quesiti, spesso articolati e complessi, che connotano le prove d’esame del concorso notarile comporta che il giudizio sulle soluzioni offerte dal candidato sia connesso in modo determinante con la valutazione del percorso logico e dalle argomentazioni che le sostengono, nell’ambito di una più generale valutazione sulla completezza e la logica interna dell’elaborato (Consiglio di Stato, sezione IV, 27 giugno 2011, n. 3855, n. 3857).
Applicando i sopra richiamati consolidati orientamenti giurisprudenziali, ritiene, dunque, il Collegio di non potere accogliere tali profili di censura che implicherebbero la sostituzione del giudizio espresso dalla Commissione con le differenti valutazioni proposte dall’appellante.
Inoltre, con specifico riferimento alla motivazione del giudizio di inidoneità della prova dell’appellante espresso dalla Commissione, deve osservarsi che tale giudizio riguarda gli aspetti complessivi della prova ritenuta insufficiente, senza fare riferimento, dunque, alla correttezza della soluzione proposta.
Anche tale motivo di appello deve essere dunque respinto.
In conclusione l’appello deve essere respinto anche se con integrazione della motivazione della sentenza di primo di grado rispetto alle censure non esaminate ma comunque con la reiezione del ricorso di primo grado.
L’infondatezza della domanda di annullamento degli atti impugnati comporta il rigetto della domanda di risarcimento danni, anche se proposta in via del tutto generica e apodittica solo nell’epigrafe e nelle conclusioni del ricorso di primo grado e dell’atto di appello.
In considerazione della materia trattata sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore

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