Termine previsto per la conclusione del procedimento

Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 20 gennaio 2020, n. 459

La massima estrapolata:

La scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento non è in grado di refluire ex se sulla legittimità dell’atto terminale, ancorché tardivo, a meno che non si tratti – stante una espressa previsione normativa al riguardo non configurabile nella disciplina in subiecta materia vigente – di un termine perentorio con effetto consumativo del potere. Il superamento del termine massimo di durata di un procedimento avviato ad istanza di parte, infatti, comporta le conseguenze previste dagli artt. 2 e 2 bis, l.7 agosto 1990, n. 241 (tra le altre, costituisce “elemento di valutazione della performance individuale” e consente di proporre innanzi al giudice amministrativo il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione), ma di per sé non incide sulla legittimità del provvedimento conclusivo del procedimento-

Sentenza 20 gennaio 2020, n. 459

Data udienza 17 dicembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8169 del 2009, proposto dai signori -OMISSIS-, nella qualità di eredi del signor -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall’avvocato Nicola Serra, elettivamente domiciliati presso lo studio del dott. Al. Pl., in Roma alla via (…)
il Ministero della difesa, in persona del Ministro in carica pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso la sua sede in Roma, via (…)
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, Sezione I bis, n. -OMISSIS-, resa inter partes, concernente una domanda di concessione di equo indennizzo.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2019 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, l’avvocato dello Stato Lu. Fi. e l’avvocato Lo. Co. su delega dell’avvocato Gi. Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Oggetto del presente giudizio è rappresentato dal decreto del 23 febbraio 1999, con il quale il Ministero della difesa ha respinto la domanda di equo indennizzo, avanzata dalla consorte del signor -OMISSIS-, Maggiore dell’esercito italiano, deceduto con la diagnosi di “-OMISSIS-“, nonché dai previ pareri sfavorevoli del Collegio Medico Legale, in data -OMISSIS-, e del Comitato per le Pensioni Privilegiate Ordinarie in data -OMISSIS-.
2. Avverso tali atti gli odierni appellanti proponevano ricorso, innanzi al T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, n. -OMISSIS-, deducendo quanto segue:
i) violazione del termine massimo di 18 mesi dalla data di presentazione della domanda tesa ad ottenere l’equo indennizzo;
ii) mancata valorizzazione del parere favorevole della Commissione medica ospedaliera a confronto con gli immotivati pareri sfavorevoli del Collegio Medico Legale e del Comitato per le Pensioni Privilegiate Ordinarie.
3. Costituitasi l’Amministrazione erariale con atto di stile, il Tribunale adì to, Sezione II bis, ha respinto il ricorso e compensato le spese di lite.
4. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:
– “i termini di cui all’art. 9, comma 2, del D.P.R n. 349 del 1994 (entro i quali l’Amministrazione deve pronunciarsi) sono ordinatori (T.AR Valle d’Aosta n. 54/2004), sicché è evidente che il superamento degli stessi non ha fatto venir meno il potere dell’Amministrazione di pronunciarsi in merito alla domanda presentata da -OMISSIS-al fine di ottenere l’equo indennizzo”;
– “sulla base delle considerazioni espresse dal CML e degli accertamenti eseguiti al fine di adottare i citati pareri, appare ragionevole la conclusione alla quale è giunta l’Amministrazione adottando il decreto impugnato”;
5. Avverso tale pronuncia si è interposto appello, notificato l’8 ottobre 2009 e depositato il 15 ottobre 2009, lamentandosi, attraverso due motivi di gravame (pagine 3-14) con la reiterazione dei motivi di primo grado, quanto di seguito sintetizzato:
I) avrebbe errato il Tribunale nel respingere il primo motivo non avendo considerato l’arco di tempo “palesemente spropositato ed eccessivo” (ben quattro anni) che è intercorso tra la domanda di concessione dell’equo indennizzo e la decisione dell’Amministrazione e l’indicazione precisa dei tempi che devono scandire l’iter procedimentale come contemplati dalla disciplina di riferimento;
II) avrebbe errato il Tribunale anche nel respingere il secondo motivo, non avendo considerato che il militare è rimasto, per lungo tempo ed in ragione del suo ufficio, a contatto proprio con quelle sostanze che, secondo la comunità scientifica, avrebbero una incidenza causale nell’insorgenza dell’infermità, vale a dire il benzene (di cui sono impregnate le armi e le armerie militari) nonché le radiazioni provenienti dai primi modelli di personal computer.
6. L’appellante ha concluso chiedendo, in riforma dell’impugnata sentenza, l’annullamento degli atti impugnati.
7. In data 18 novembre 2014 il Ministero appellato si è costituito chiedendo la reiezione del gravame.
8. In vista della trattazione nel merito del ricorso entrambe le parti hanno svolto difese scritte, insistendo per le rispettive conclusioni.
9. La causa, chiamata per la discussione alla pubblica udienza del 17 dicembre 2019, è stata ivi introitata in decisione.
9.1 Infondato è il primo motivo di appello.
L’appellante evidenzia, a tal riguardo, il notevole lasso di tempo trascorso dalla presentazione della richiesta di riconoscimento della causa di servizio, essendo la stessa risalente al 23 maggio 1995 mentre l’interposto diniego è intervenuto soltanto il 23 febbraio 1999. Sottolinea l’appellante che il procedimento nel caso di specie si è dipanato in un arco temporale di circa quattro anni a fronte della tempistica contemplata dalla disciplina di riferimento (all’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 349 del 1994) in base alla quale, “l’Amministrazione si pronuncia sulla domanda di concessione di equo indennizzo con provvedimento finale espresso e motivato da adottarsi entro un mese dal ricevimento del parere del c.p.p.o e, “in ogni caso, entro 19 mesi dalla data di ricevimento della domandà “.
Orbene, il Collegio ritiene di condividere le osservazioni rese dal Tribunale a sostegno della reiezione della corrispondente censura del ricorso di primo grado, dovendosi rilevare, innanzitutto, che la scadenza del termine previsto per la conclusione del procedimento non è in grado di refluire ex se sulla legittimità dell’atto terminale, ancorché tardivo, a meno che non si tratti – stante una espressa previsione normativa al riguardo non configurabile nella disciplina in subiecta materia vigente – di un termine perentorio con effetto consumativo del potere. Questo Consiglio ha sul punto rilevato infatti che “Il superamento del termine massimo di durata di un procedimento avviato ad istanza di parte comporta le conseguenze previste dagli artt. 2 e 2 bis, l.7 agosto 1990, n. 241 (tra le altre, costituisce “elemento di valutazione della performance individuale” e consente di proporre innanzi al giudice amministrativo il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione), ma di per sé non incide sulla legittimità del provvedimento conclusivo del procedimento” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 18 maggio 2016, n. 2019).
Né va trascurato il fatto che, a fronte del protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione, l’interessato alla definizione del procedimento poteva attivarsi mediante il ricorso agli strumenti giurisdizionali messi a disposizione dell’ordinamento per conseguire la relativa declaratoria dell’obbligo di provvedere con la nomina dell’organo commissariale. Lo speciale procedimento giurisdizionale disciplinato dagli artt. 31 e 117 c.p.a. ha infatti proprio la finalità di conferire al privato un potere procedimentale, strumentalmente volto a rendere effettivo l’obbligo giuridico della p.a. di provvedere (Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 860).
8.2. Infondato è anche il secondo motivo d’appello, col quale l’appellante obietta che l’accertata infermità (“-OMISSIS-“) sarebbe in regime di connessione causale con le mansioni espletate, in quanto lo avrebbero esposto diuturnamente ad agenti patogeni. L’appellante valorizza a tal uopo i contributi della letteratura medica che riconosce possibile efficienza causale al benzene, contenuto nelle sostanze utilizzate per la pulizia e manutenzione delle armi, nonché alle radiazioni ionizzanti, prodotto dai computer di vecchia generazione all’epoca utilizzati in ufficio.
Il motivo non può essere condiviso per le seguenti ragioni:
– “il giudizio medico-legale circa la dipendenza di infermità da cause, o concause, di servizio si fonda su nozioni scientifiche e su dati di esperienza di carattere tecnico discrezionale che, in quanto tali, sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvi i casi in cui si ravvisi irragionevolezza manifesta o palese travisamento dei fatti” (Cons. Stato, sez. V, 13 aprile 2012, n. 2093);
– “il parere del Comitato, infatti, consiste in un atto connotato da discrezionalità tecnica, fondato su nozioni scientifiche e su dati di esperienza tecnico discrezionale, con la conseguenza che il medesimo nel giudizio amministrativo è insindacabile, salve le ipotesi di irragionevolezza manifesta, palese travisamento dei fatti, omessa considerazione di circostanze di fatto tali da poter incidere sulla valutazione medica finale, nonché di non correttezza dei criteri tecnici e del procedimento seguito” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18 gennaio 2018, n. 305);
– alla Commissione medica ospedaliera spetta il giudizio diagnostico sulle infermità e lesioni denunciate dal pubblico dipendente e, per il caso che da esse siano residuati postumi invalidanti a carattere permanente, l’indicazione della categoria di menomazioni alle quali essi devono ritenersi ascrivibili mentre al Comitato di verifica sulle cause di servizio spetta il differente compito di accertare l’esistenza di un nesso causale fra le patologie riscontrate dalla Commissione a carico del pubblico dipendente e l’attività lavorativa da lui svolta (Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2010 n. 3411);
– non può darsi, quindi, l’auspicato rilievo al parere favorevole della Commissione medica ospedaliera del 10 aprile 1995 non avendo tale organo competenza ad esprimersi sulla dipendenza da causa di servizio dell’infermità rilevata secondo il paradigma procedimentale scolpito dalla disciplina di riferimento;
– il giudizio negativo espresso dal Comitato di verifica, alla luce del suo quadro motivazionale e nei limiti del sindacato del giudice amministrativo dianzi rassegnati, risulta immune dai rilievi di parte, in quanto, come correttamente rilevato dal Tribunale, non emerge che il militare sia stato esposto a sostanze in grado di innescare la patologia sofferta, la cui eziopatogenesi è peraltro ricondotta, dalla letteratura medica, alla mutazione di un gene possibilmente innescata anche da fattori endogeni. Nemmeno va trascurato che trattasi di militare col grado di ufficiale superiore e che pertanto non è stato verosimilmente adibito al costante espletamento di mansioni manuali che prevedano il contatto diretto con sostanze potenzialmente patogene, solitamente utilizzate per la manutenzione delle armi in dotazione al reparto di appartenenza. Così pure non è accertata l’entità delle radiazioni ionizzanti prodotte dai personal computer di vecchia generazione e la loro efficienza causale ai fini dell’insorgenza della patologia accusata dall’appellante ed il quadro eziologico non può dirsi adeguatamente suffragato da fattori generici del servizio espletato quali stress psicofisici, condizioni climatiche avverse, regime alimentare irregolare.
9. Conclusivamente, l’appello è infondato e deve essere respinto.
10. Il Collegio ritiene sussistano eccezionali motivi, stante la particolarità della vicenda di causa e dei sottesi interessi, per compensare le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (R.G. n. 8169/2009), lo respinge.
Spese del presente grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere, Estensore
Antonella Manzione – Consigliere
Giovanni Orsini – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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