Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 17 luglio 2020, n. 4620.
La massima estrapolata:
Affinché possa discorrersi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un precedente manufatto edilizio, lo stesso oltre ad essere preesistente deve essere legittimamente realizzato secondo la disciplina vigente al tempo della costruzione e spetta al ricorrente, in caso di demolizione e ricostruzione, l’onere di documentare l’esatta corrispondenza tra la volumetria realizzata e quella preesistente.
Sentenza 17 luglio 2020, n. 4620
Data udienza 23 giugno 2020
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Diniego di sanatoria – Ordine di demolizione e ripristino – Ristrutturazione con demolizione e ricostruzione – Necessaria pressoché contestuale demolizione e ricostruzione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3879 del 2011, proposto dal signor Lu. Fi., rappresentato e difeso dall’avvocato An. Vo., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato El. An. in Roma, via (…),
contro
il Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., An. Pu., Br. Ri., Gi. Ta., An. Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gi. Ma. Gr. in Roma, corso (…)
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta n. 25190/2010, resa tra le parti, concernente ordine di demolizione opere realizzate sine titulo e ripristino dello stato dei luoghi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Viste le brevi note depositate ai sensi dell’art. 84 comma 5, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 23 giugno 2020, il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27) gli avvocati delle parti costituite in appello;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, Sez. IV, con sentenza del 17 novembre 2010, n. 25190, ha dichiarato inammissibile il ricorso principale, proposto dall’attuale parte appellante, contro la disposizione dirigenziale n. 620 del 7 agosto 2008 di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi e rigettato il ricorso principale contro la disposizione dirigenziale n. 579 del 6 novembre 2008 di diniego istanza di sanatoria, contenente contestuale ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. n. 380-2001, dichiarando altresì inammissibile il ricorso per motivi aggiunti contro la disposizione dirigenziale n. 510 del 16 febbraio 2009 di declaratoria d’improcedibilità della nuova istanza di accertamento in conformità .
Secondo il TAR, sinteticamente:
– è inammissibile il ricorso, nella parte in cui si contesta la disposizione dirigenziale n. 620 del 7 agosto 2008 di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, avendo parte ricorrente, prima della proposizione del ricorso, prodotto istanza di accertamento in conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380-2001;
– peraltro, la stessa istanza è stata, in data antecedente alla notifica del ricorso, rigettata dall’Amministrazione comunale, con provvedimento espresso con il quale, a seguito di nuovo iter procedimentale e di una nuova istruttoria, si è rinnovato l’ordine di demolizione;
– parte ricorrente non ha offerto, né in sede di procedimento amministrativo, nel quale gli era stata comunicato il preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241-1990, né in questa sede, neanche con il deposito delle perizie giurate, alcun principio di prova né in ordine alla legittimità della preesistenza, non avendo prodotto alcun titolo abilitante, né in ordine alla conformità di volume fra le opere di cui è causa e la paventata preesistenza, né infine in ordine alla contestualità, smentita peraltro dagli atti, fra la demolizione della preesistenza e la successiva ricostruzione;
– affinché possa discorrersi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un precedente manufatto edilizio, lo stesso oltre ad essere preesistente deve essere legittimamente realizzato, secondo la disciplina vigente al tempo della costruzione e spettava al ricorrente, in caso di demolizione e ricostruzione, l’onere di documentare l’esatta corrispondenza tra la volumetria realizzata e quella preesistente;
– nel territorio del Comune di Napoli, qualsiasi intervento edificatorio era soggetto al previo rilascio di licenza edilizia già in data antecedente al 1967 – ed anche al 1942 – in forza della previsione speciale di cui all’art. 1 del Regolamento edilizio comunale del 1935, sicché non è sufficiente affermare che il manufatto preesistente fosse risalente, ma il ricorrente avrebbe dovuto dedurre ed offrire almeno un principio di prova in ordine alla circostanza che il manufatto in questione fosse stato realizzato in epoca antecedente al 1935;
– da ciò la legittimità dell’atto gravato, in quanto l’art. 33 della variante generale al PRG, richiamato nella motivazione del medesimo, che consente nella sottozona Bb interventi sino alla ristrutturazione edilizia a parità di volume, va letto in conformità al disposto dell’art. 3 d.P.R. n. 380-2001;
– affinché possa discorrersi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, ex art. 3 d.P.R. n. 380-2001, è necessaria la dimostrazione, oltreché della liceità della preesistenza (del pari richiamata nella motivazione dell’atto gravato, che risulta pertanto del tutto congrua), della pressoché contestuale demolizione e ricostruzione e dell’identità di volume e di sagoma fra il manufatto preesistente e quello risultante dalla ristrutturazione;
– la ratio della ragionevole prossimità del tempo della ricostruzione a quello della demolizione, criterio privo di riscontro positivo ma costantemente presente nella giurisprudenza, va infatti individuata nell’esigenza di assicurare un rapporto di necessaria strumentalità dell’abbattimento alla successiva ricostruzione;
– alla luce di tali considerazioni, è del tutto irrilevante è la circostanza che la preesistenza non fosse stata resa nota alla Commissione Edilizia, assunto questo peraltro erroneo in quanto nel parere reso dalla Commissione e prodotto agli atti si evidenzia “che l’intervento non è sanabile poiché in contrasto con l’art. 33 della variante al P.R.G. che consente la ristrutturazione edilizia esclusivamente su immobili legittimamente realizzati”;
– non vi è menzione della D.I.A. presentata dal ricorrente per la realizzazione-modifica del muro di cinta del fondo agricolo già presente lungo il confine di proprietà, atteso che il diniego di sanatoria e il contestuale ordine di demolizione attengono alle distinte opere oggetto dell’istanza di accertamento in conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380-2001;
– la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria ove il procedimento, come nella specie sia iniziato ad istanza di parte;
– il Comune ha prodotto la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza con la relativa notifica al ricorrente, ove si fa menzione che le osservazioni presentate da parte ricorrente, relative alla circostanza che il capannone oggetto dell’intervento era stato realizzato in sostituzione di altro pregresso, erano state esaminate dal responsabile del procedimento ma considerate, secondo quanto evincibile dalla stessa motivazione del provvedimento gravato, inidonee al superamento dei motivi di diniego, non avendo il ricorrente dimostrato la liceità (ovvero la realizzazione sulla base di un titolo edilizio) della preesistenza;
– il provvedimento di demolizione non necessita di motivazione in ordine all’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, poiché detto interesse è da ritenersi infatti in re ipsa, nella stessa rimozione, rispondendo questa alla esigenza di ripristino dell’assetto urbanistico violato;
– il ricorso per motivi aggiunti è inammissibile, in quanto la disposizione oggetto di gravame non è entrata nel merito dell’esame della nuova istanza di accertamento in conformità presentata da parte ricorrente, ma si è limitata a dichiararne l’improcedibilità, non avendo parte ricorrente con tale istanza allegato nuovi elementi di fatto o normativi, idonei a comportare una nuova istruttoria, ai sensi della delibera di G.C. n. 2987 del 4 agosto 2003.
La parte appellante contestava la sentenza del TAR, eccependone l’erroneità e riproducendo, nella sostanza, i motivi del ricorso di primo grado.
Con l’appello in esame chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.
Si costituiva il Comune appellato chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica del 23 giugno 2020 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Rileva il Collegio che parte appellante, proprietario in Napoli, via (omissis), di un’area di 425 mq. con annesso capannone – già comodo rurale – riportato al catasto al foglio (omissis), p.lla (omissis), oggetto da parte sua di opere di manutenzione straordinaria e di ristrutturazione, ha impugnato la disposizione dirigenziale n. 620 del 7 agosto 2008 di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, notificata in data 16 ottobre 2008, con la quale gli si ingiungeva la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, ex art. 31 d.P.R. n. 380-2001, in riferimento ad opere eseguite sulla predetta area, senza il necessario permesso di costruire (platea in calcestruzzo di circa mq. 200,00 X HM 0,30 con sovrastante tettoia in lamiere coibentate a falde ad HM 4,00 al colmo e m. 3,00 alle gronde, sorretta da pilastri di legno bullonati al calpestio a mezzo piastre in ferro), nonché la disposizione dirigenziale n. 579 del 6 novembre 2008, notificata in data 14 novembre 2008, con cui si denegava l’istanza di accertamento in conformità, ex art. 36 D.P.R. 380-2001, da lui presentata in data 8 luglio 2008, successivamente al sequestro effettuato dal Servizio di Polizia Municipale, in relazione alle medesime opere oggetto dell’ingiunzione di demolizione (realizzazione di un capannone).
2. In via preliminare, devono esser dichiarate inammissibili le deduzioni contenute nelle memorie dell’11 aprile 2014 e del 24 giugno 2015, atteso che nel processo amministrativo d’appello occorre, ai sensi degli artt. 91, 92, 101, comma 1, e 104, c.p.a., fare esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti nel ricorso e a sostegno dello stesso, senza tener conto di ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 20 ottobre 2016, n. 4372).
3. Sempre in via preliminare, deve esser confermata l’inammissibilità delle deduzioni formulate dalla parte ricorrente in primo grado con la memoria difensiva depositata in data 6 settembre 2010 avanti al TAR, non potendosi con memoria non notificata alla controparte allargare il thema decidendum.
Una mera memoria difensiva non notificata alla controparte e depositata nella imminenza dell’udienza di discussione, infatti, non costituisce strumento idoneo per ampliare la materia del contendere, poiché altrimenti verrebbe leso il diritto di difesa delle parti resistenti, atteso che nel processo amministrativo, l’oggetto della lite è determinato sulla base delle deduzioni contenute nell’atto introduttivo del giudizio e, se del caso, negli altri atti (motivi aggiunti, ricorso incidentale) con i quali le parti interessate sottopongono al giudice ulteriori questioni, ma sempre con l’osservanza delle formalità previste per la instaurazione del contraddittorio processuale e atteso anche che il giudice non può pronunciarsi su tali nuove deduzioni per i noti limiti posti dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il cui vulnus esporrebbe la decisione al vizio di ultra petita.
Peraltro, nel processo amministrativo sono inammissibili le censure formulate in memoria non notificata alla controparte, sia nell’ipotesi in cui risultino completamente nuove e non ricollegabili ad argomentazioni espresse nel ricorso introduttivo, sia quando, pur richiamandosi ad un motivo già ritualmente dedotto, introducano elementi sostanzialmente nuovi, ovvero in origine non indicati, come nella specie, con conseguente violazione del termine decadenziale e del principio del contraddittorio, essendo affidato alla memoria difensiva il solo compito di una mera illustrazione esplicativa dei precedenti motivi di gravame, senza possibilità di ampliare il thema decidendum.
4. Nel merito, l’appello è infondato, dovendosi ribadire in via generale, come ha ben evidenziato il TAR, che nel territorio del Comune di Napoli, l’obbligo di dotarsi del titolo edilizio per procedere a nuove edificazioni trova la propria fonte nel Regolamento edilizio adottato nel 1935.
Infatti, per tutto il territorio del Comune di Napoli, la necessità del titolo abilitativo edilizio risale al 1935 in forza di Regolamento edilizio.
Inoltre, deve parimenti ribadirsi, come ha evidenziato il TAR, che i concetti di “risanamento conservativo” e di “ristrutturazione edilizia”, costituendo interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, postulano necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare o risanare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura; di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su di un edificio già da tempo demolito costituisce nuova opera.
Per quanto riguarda gli interventi di ripristino di edifici diruti, occorre distinguere l’ipotesi in cui esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione (nel qual caso è possibile parlare di demolizione e ricostruzione, e dunque, di ristrutturazione) dall’ipotesi in cui, invece, sussista un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura (nel qual caso, gli interventi in questione non possono essere classificati come interventi di restauro e risanamento conservativo, ma di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare).
Quindi, può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare, configurandosi in questa evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
Nel caso di specie, come ha osservato del tutto condivisibilmente il TAR, né in sede di procedimento amministrativo né in sede di giudizio, parte appellante ha presentato il pur minimo principio di prova né in ordine a quanto era preesistente, non avendo prodotto alcun titolo abilitante, né in ordine alla conformità di volume fra le opere di cui è causa e la preesistenza, né in ordine alla contestualità tra la demolizione della preesistenza e la successiva ricostruzione.
Peraltro, il precedente manufatto edilizio, oltre ad essere preesistente deve essere legittimamente realizzato, secondo la disciplina vigente al tempo della costruzione, e anche di questo aspetto non sussiste la minima prova.
Parte appellante si è, infatti, limitata ad evidenziare che il manufatto era materialmente preesistente da tempo, come evincibile dalle mappe catastali, senza neanche dedurre (oltre che dimostrare almeno con un principio di prova) che lo stesso era stato legittimamente realizzato sulla base di un titolo edilizio o che era stato realizzato in epoca in cui non era necessario alcun titolo edilizio.
In atti, anzi, vi è una dimostrazione del tutto antitetica rispetto alle tesi propugnate da parte appellante, atteso che il competente Servizio Antiabusivismo Edilizio attesta, con la nota prot. 1207 del 9 settembre 2009 in atti, e con la documentazione ad essa allegata, “che al sito in oggetto delle opere abusive non esisteva alcunché quanto meno al 1987”.
Pertanto, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo legittimante, l’Amministrazione ha solo il potere-dovere di sanzionarla, non essendo tenuta a fornire la prova dell’epoca di realizzazione dell’immobile edilizio della sua consistenza e della sua sanabilità (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2019, n. 5220), incombendo sull’interessato l’onere di fornire la prova dell’epoca di realizzazione di un abuso edilizio o, comunque, la datazione dell’opera in tempi tali da escludere che la legge lo esigesse.
5. In ogni caso, si deve evidenziare che, da un punto di vista tecnico è palese che nella specie i lavori si siano sostanziati nella totale demolizione e ricostruzione di quanto preesistente e ciò è sufficiente a escludere che l’intervento de quo sia riconducibile alle categorie del restauro o del risanamento conservativo, con conseguente assoggettabilità a DIA; detti lavori non possono integrare neanche un’ipotesi di demolizione e ricostruzione in ragione del fatto che, come ammesso dallo stesso appellante in apertura del proprio atto di appello, il manufatto preesistente era diruto già da lungo tempo prima dell’avvio dei lavori, il che, allo stato della legislazione vigente all’epoca dei fatti di causa, comporta che l’intervento integrava una nuova edificazione soggetta a permesso di costruire.
6. Anche i residui motivi di appello sono infondati.
Infatti, il motivo di appello con cui si sostiene, come in primo grado, il difetto di motivazione del diniego impugnato è inconsistente, atteso che, in caso di diniego, la motivazione è rappresentata dall’abusività dell’opera peraltro, precisa, circostanziata e connessa a tutti gli elementi di fatto rilevanti nella specie e legata al contrasto con la normativa urbanistica applicabile nella specie.
Inoltre, sono privi di fondamento i motivi che si fondano sulle denunciate violazioni della L. n. 241-1990 poiché v’è prova in atti della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità effettuata con nota del Comune prot. n. 1806 dell’11 giugno 2008 ricevuta il 3 settembre 2008.
Anche il dedotto difetto di motivazione è insussistente, posto che, come ha chiarito l’Adunanza Plenaria con sentenza del 17 ottobre 2017, n. 9, è escluso l’obbligo di motivazione dell’ordinanza di demolizione anche se adottata a distanza di anni dall’abuso, anche nei confronti dell’attuale proprietario che non lo ha perpetrato.
Infine, la pronuncia di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti è del tutto condivisibile, atteso che, all’evidenza, parte appellante, con la sua nuova istanza di accertamento di conformità, dopo il precedente diniego ante causam, non ha in alcun modo allegato nuovi elementi di fatto o normativi, idonei a comportare una nuova istruttoria, ai sensi della delibera di G.C. n. 2987 del 4 agosto 2003.
Nel caso di specie, la nota n. 510 del 16 febbraio 2009 aveva all’evidenza natura confermativa del diniego di accertamento di conformità già disposto con la disposizione dirigenziale n. 579 del 6 novembre 2008 di diniego dell’istanza di sanatoria.
In questa prospettiva, infatti, deve essere considerato meramente confermativo l’atto amministrativo che, senza nuova istruttoria, né rivalutazione degli interessi, né nuova motivazione, si limita a dichiarare l’esistenza di un precedente provvedimento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21 febbraio 2019, n. 1201).
6. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto infondato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe indicato, lo respinge.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore del Comune appellato, spese che liquida in euro 6.000,00, oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2020 convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere, Estensore
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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