Responsabilità professionale dell’avvocato tradottasi nell’impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|6 settembre 2024| n. 24007.

Responsabilità professionale dell’avvocato tradottasi nell’impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata

La responsabilità professionale dell’avvocato, tradottasi nell’impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata, postula il positivo accertamento, sulla base di una valutazione prognostica ex ante, che, ove proposta, la domanda avrebbe avuto ragionevoli probabilità di accoglimento, dovendosi tener conto delle peculiarità del giudizio che non si è potuto celebrare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità di un avvocato per non aver fatto sottoscrivere al cliente un ricorso volto ad ottenere la riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p., sul presupposto che l’intervenuta assoluzione nel merito dello stesso dalle incolpazioni per le quali era stato recluso rendesse probabile l’esito positivo del giudizio).

Ordinanza|6 settembre 2024| n. 24007. Responsabilità professionale dell’avvocato tradottasi nell’impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata

Data udienza 28 giugno 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Avvocato e procuratore – Responsabilita’ civile – Errori ed omissioni responsabilità professionale dell’avvocato – Omessa proposizione di domanda giudiziale – Giudizio prognostico sulla relativa accoglibilità – Valutazione delle peculiarità del processo non potutosi celebrare – Necessità – Fattispecie.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – Relatore

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26146/2022 R.G. proposto da:

(…) Spa, elettivamente domiciliata in ROMA (…), presso lo studio dell’avvocato GI.AR. (Omissis) che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Co.Pi., Mo.Ma.;

– intimati –

avverso SENTENZA della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA n. 572/2022 depositata il 11/07/2022;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/06/2024 dal Consigliere LINA RUBINO.

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FATTI DI CAUSA

1.- (…) Spa propone ricorso per cassazione articolato in due motivi ed illustrato da memoria nei confronti di Mo.Ma. e dell’avvocato Co.Pi. per la cassazione della sentenza n. 572 del 2022, pubblicata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria l’undici luglio 2022, notificata l’otto agosto 2022 e regolarmente prodotta in copia notificata.

Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede.

2.- Questa è la vicenda giudiziaria per quanto ancora rilevante:

– il Mo.Ma. conveniva in giudizio l’avvocato Co.Pi. chiedendone la condanna per responsabilità professionale per aver introdotto per suo conto una causa volta ad ottenere il riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita senza farsi rilasciare la firma del cliente, cosicché il ricorso era stato ritenuto inammissibile;

– la domanda di risarcimento danni per responsabilità professionale era stata rigettata dal Tribunale, che aveva ritenuto che il Mo.Ma. non avesse dato la prova del probabile esito favorevole dell’azione di riparazione ove correttamente introdotta;

– la Corte d’Appello, sovvertendo l’esito del primo grado di giudizio, condannava l’avvocato Co.Pi. e per esso in manleva la sua assicuratrice per la responsabilità professionale (…) Spa, a corrispondere al Mo.Ma. la somma di Euro 81.471, 27;

– confermava che la declaratoria di inammissibilità della domanda del Mo.Ma. era stata conseguenza della negligenza del Co.Pi., che non si era munito della firma del cliente venendo meno ai suoi obblighi di svolgere la prestazione professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, aggiungendo che, a fronte della intervenuta assoluzione del Mo.Ma. dalle contestazioni in relazione alle quali era stato ristretto in carcere, l’accoglimento della sua domanda doveva ritenersi probabile e la presenza di fattori ostativi all’epilogo favorevole del giudizio indennitario avrebbe dovuto essere provata dal convenuto.

3.- La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, all’esito della quale il Collegio ha riservato il deposito della decisione nei successivi sessanta giorni.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo di ricorso la ricorrente, assicuratrice per la responsabilità professionale dell’avv. Co.Pi., denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1223 e 2697 c.c. da parte della sentenza impugnata là dove ha affermato che spetta al legale, convenuto in giudizio per responsabilità professionale, l’onere di allegare e dimostrare l’esito della valutazione prognostica in ordine al giudizio che era stato incaricato di introdurre, la cui domanda era stata dichiarata inammissibile.

Segnala l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello nel ribaltare sul professionista convenuto l’onere di provare, a fronte della sua accertata negligenza professionale, che la domanda, qualora fosse stata correttamente introdotta e quindi non giudicata inammissibile, non avrebbe avuto probabilità di accoglimento.

Ritiene che la ricostruzione della Corte d’Appello si ponga in contrasto con le norme di legge e con il consolidato orientamento di legittimità sulla responsabilità del professionista, secondo il quale è il cliente che deduce la responsabilità civile dell’avvocato che è tenuto a provare di aver subito un danno causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista, con successivo accertamento del nesso di causalità secondo il consueto criterio probabilistico.

Affinché si possa addebitare al professionista il mancato risultato utile ovvero il risultato negativo derivante dalla sua negligenza e quindi necessario compiere una valutazione prognostica che conduca a ritenere che, laddove egli avesse agito con diligenza, l’attività avrebbe avuto probabilmente un esito diverso e segnatamente di carattere positivo e satisfattivo per il cliente, il tutto con accertamento del nesso causale sulla base di una valutazione da effettuarsi ex ante. Precisa la ricorrente che l’onere di allegazione in capo all’attore non si esaurisce dunque nel provare la colpa professionale o la mancanza di diligenza, in questo caso provata perché è pacifico che il Co.Pi. non abbia acquisito la firma del proprio cliente, ma deve comprendere anche gli elementi necessari per compiere il giudizio prognostico di probabilità di accoglimento della domanda in cui consisteva l’incarico professionale ove correttamente presentata, onere non assolto dal Mo.Ma. e che la Corte d’Appello ha ritenuto invece – erroneamente – che gravasse sull’avvocato, riconducendolo alla nozione di onere probatorio del fatto estintivo.

Ciò premesso, la ricorrente ricostruisce la distribuzione degli oneri probatori nel senso che e l’attore-cliente che assume di essere stato danneggiato dall’operato del professionista – che avrebbe dovuto provare se, a fronte di una regolare presentazione del ricorso da parte dell’avvocato Co.Pi. – di certo mancata perché questo non aveva curato l’acquisizione della firma della parte – il ricorso avrebbe avuto delle possibilità di accoglimento sulla base di precisi elementi e circostanze che l’attore avrebbe avuto l’onere di allegare.

Quindi assume che la ripartizione degli oneri probatori era stata correttamente ricostruita dal primo giudice mentre la Corte d’Appello avrebbe invertito il corretto posizionamento di tali oneri, confondendo l’onere probatorio relativo al nesso causale con quello attinente alla prova liberatoria, che presuppone già accertato il primo.

Conclusivamente, la ricorrente afferma che la Corte d’Appello non ha applicato le regole corrette sulla ripartizione degli oneri probatori e sull’accertamento del nesso causale che costituisce un presupposto della invocata responsabilità professionale e grava sull’attore. In difetto della prova del nesso causale il convenuto non sarebbe stato tenuto a fornire la prova liberatoria, che presuppone già accertata la relazione causale tra la condotta colposa e l’evento pregiudizievole.

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2.- Il motivo è infondato.

In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, qualora essa si sia tradotta nella impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata (per omessa proposizione di una impugnazione nei termini, oppure, come nella specie, per omesso rilascio della firma del cliente sul ricorso, dichiarato per questo inammissibile) ai fini della configurabilità del diritto del cliente al risarcimento del danno è necessario all’attore non soltanto provare il comportamento imperito, negligente o imprudente del professionista e il suo rapporto causale con la preclusione della iniziativa giudiziaria, ma anche che, se fosse stata intrapresa, l’iniziativa giudiziaria avrebbe avuto, sulla base di una valutazione ex ante ed applicando la regola probatoria del più probabile che non, ragionevoli probabilità di accoglimento.

Non è sufficiente infatti a fondare il diritto risarcitorio la sola prova della negligenza, anche se preclusiva dell’azione giudiziaria, lasciando ricadere sul professionista convenuto l’onere di provare che l’iniziativa, anche se regolarmente intrapresa, non avrebbe avuto realistiche probabilità di successo, traducendosi ciò in un indebito ribaltamento degli oneri probatori, perché l’onere del convenuto di fornire la prova liberatoria della propria responsabilità scatta soltanto se è accertato il nesso causale tra la condotta colposa e il danno.

Il contenuto dell’onere probatorio in capo all’attore, in caso si alleghi la responsabilità professionale dell’avvocato, non si esaurisce dunque nel provare la negligenza dell’avvocato ma consiste nel fornire gli elementi di prova dell’evento di danno e cioè nel fornire elementi ai fini dell’esito positivo del giudizio probabilistico, al fine di condurre all’accertamento che fosse più probabile che non che, se l’avvocato si fosse correttamente attivato evitando di porre in essere comportamenti che vanificavano l’efficacia della sua attività professionale, con buona probabilità avrebbe ottenuto l’esito sperato in favore del cliente (v. in questo senso Cass. n. 2638 del 2013: “La responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone”).

Il giudizio di risarcimento del danno per responsabilità professionale comprende quindi, come detto, un giudizio prognostico ex ante sulla accoglibilità della domanda che si andava a proporre nel giudizio che non si è celebrato per la negligenza dell’avvocato. All’interno di esso si deve peraltro tener conto, anche ai fini di verificare l’intervenuta, corretta distribuzione degli oneri probatori, delle peculiarità del giudizio che non si è potuto celebrare. Nel caso di specie, occorre considerare, per la particolarità della normativa e per il contenuto della posizione giuridica soggettiva attiva che si andava a far valere, il tipo di diritto che si andava ad azionare, ed il tipo di giudizio che si andava ad aprire.

Il Mo.Ma., cioè, andava ad introdurre non un giudizio volto al risarcimento del danno aquiliano, ma un giudizio volto ad ottenere il riconoscimento del diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione, ex artt. 314 e 315 c.p.p.

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È questo un giudizio sottratto ai canoni dell’art. 2043 c.c., di competenza del giudice penale, regolato almeno in parte dall’impulso di ufficio, in cui anche l’imputato assolto dalla incolpazione per la quale è stato sottoposto a carcerazione preventiva potrebbe essere ritenuto non meritevole dell’indennizzo ove ritenuto in colpa dal giudicante (v. Cass. pen. n. 29950 del 2019: “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo, anche nel caso in cui intervengano con persone legate da rapporto di parentela, purché siano accompagnate dalla consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti e non siano assolutamente necessitate”).

Tutto ciò premesso, appare corretta l’applicazione delle regole da parte della Corte d’Appello, la quale ha ritenuto, a fronte della intervenuta assoluzione nel merito del Mo.Ma. dalle incolpazioni per le quali era stato sottoposto a carcerazione, che il giudizio volto al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta riparazione avrebbe avuto esito probabilmente positivo, e che a fronte di ciò sarebbe stato onere del convenuto dover allegare, quale fatto estintivo, l’esistenza di una situazione riconducibile alla colpa o al dolo dell’imputato che avrebbe potuto portare ad un giudizio di non meritevolezza dell’indennizzo, pur a fronte di una assoluzione nel merito, ovvero all’esistenza di una condizione ostativa all’accoglimento.

3.- Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 1223 c.c., 314, 315 e 643 c.p.p. per aver la Corte d’Appello liquidato il danno in maniera meccanica, in misura pari cioè all’importo massimo che, se la sua domanda fosse stata pienamente accolta, il Mo.Ma. avrebbe potuto ricevere, senza considerare il rapporto di causalità giuridica e la effettività della lesione subita.

La ricorrente richiama un orientamento giurisprudenziale che afferma che la quantificazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione non è frutto di un mero calcolo aritmetico cioè della moltiplicazione della rata pro die per tutto il periodo di ingiusta privazione della libertà personale (fino al tetto massimo fissato dalla legge), ma considera le condizioni del caso di specie e quindi le condizioni della detenzione e la situazione personale del soggetto.

Aggiunge che la misura dell’indennizzo perduto è solo un parametro di quantificazione del danno subito per responsabilità professionale dell’avvocato, per cui sarebbe stata necessaria una valutazione del danno svincolata dal mero dato numerico perché si dovevano considerare le condizioni personali del soggetto e considerare il fatto che è mancata la celebrazione del processo che avrebbe dovuto portare al riconoscimento dell’indennizzo, per cui l’esito di quest’ultimo rimane definitivamente incerto. Ovvero, per la negligenza dell’avvocato non si è mai celebrato un giudizio nel quale sia stato accertato che effettivamente era dovuto l’indennizzo per ingiusta detenzione.

Quindi lamenta una carente liquidazione del danno, mancante di un accertamento puntuale sulla ingiusta detenzione, sulle condizioni di essa e sulla sua durata, valutazioni necessarie per liquidare, a titolo di risarcimento del danno, un importo pari all’indennizzo massimo percepibile per il periodo in cui si è protratta la detenzione. In assenza di una valutazione articolata nei suddetti passaggi, ritiene non corretto addebitare all’avvocato pur responsabile della declaratoria di inammissibilità del ricorso un ammontare risarcitorio pari al massimo eventualmente liquidabile per il periodo di ingiusta detenzione sofferta.

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4.- La censura sulla quantificazione del risarcimento è infondata.

La valutazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione è sottoposta alla verifica del giudice penale (da ultimo, in proposito v. Cass. pen. n. 25359 del 2023). L’indennizzo per ingiusta detenzione, disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p., per espressa previsione di legge non può eccedere la somma massima di 516.456,90 euro. L’ammontare liquidabile per ogni giorno di ingiusta detenzione si ottiene suddividendo l’importo massimo, indicato, per i numeri di giorni contenuti in sei anni. Si ottiene così un valore massimo di Euro 235,82 Euro pro die, moltiplicabile per i giorni di ingiusta detenzione patiti.

Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto, di regola, al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta (Sez. 4, n. 27474 del 02/07/2021; Sez. 4, n. 10690 del 25/2/2010; Sez. 4, n. 24225 del 04/03/2015), precisandosi al contempo che la riparazione per l’ingiusta detenzione non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale, trovando l’istituto fondamento nelle sole norme processuali penali, cui sono estranei i criteri dettati dalle norme civilistiche che regolamentano il risarcimento da fatto illecito ex art. 2043 cod. civ., improntate ad un criterio rigorosamente risarcitorio correlato al pregiudizio patito in termini di lucro cessante o danno emergente (in questo senso, Sez. 6, n. 1755 del 09/05/1991; cfr., altresì, Sez. Un, n. 24287 del 09/05/2001, secondo cui la liquidazione dell’indennità deve avvenire in via equitativa).

Il criterio aritmetico, agganciato al valore massimo indennizzabile diviso per la durata della detenzione riconosciuto dalla normativa penal-processualistica, viene a costituire il criterio medio di calcolo adottato per la liquidazione dell’indennizzo da ingiusta detenzione, suscettibile, in un’ottica equitativa, di variazioni in relazione alla valutazione di circostanze accessorie sia di carattere oggettivo che soggettivo, purché inerenti a valori socialmente apprezzabili, riferite alle caratteristiche proprie del singolo caso, fermo restando che, pur in assenza di rigidi parametri valutativi, stante l’ampio margine di discrezionalità lasciato al giudice della riparazione, è tuttavia necessario, affinché l’equità non tracimi in arbitrio incontrollabile, che vengano individuati in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di riferimento, la valorizzazione dei quali imponga di rilevare un surplus di effetto lesivo derivato dall’applicazione della misura cautelare rispetto alle conseguenze fisiologiche, e perciò ordinarie, conseguenti alla privazione della libertà personale, già considerate nei parametri aritmetici giornalieri.

Oltre a ciò, la giurisprudenza penale ha affermato che, in caso di liquidazione di un importo minore, il giudice deve motivare sul perché abbia ritenuto di decurtare l’importo, posto che, nel procedimento di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice deve valutare anche la condotta colposa lieve, rilevante non quale causa ostativa per il riconoscimento dell’indennizzo, bensì per l’eventuale riduzione della sua entità (Sez. 4, n. 21575 del 29/1/2014; conf. Sez. 4, n. 2430 del 13/12/2011).

Quindi, il giudice, ai fini della determinazione dell’indennizzo, deve fondare il suo calcolo sul parametro aritmetico, costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo, fissato in Euro 516.456,90 dall’art. 315, comma secondo, cod. proc. pen. , e il termine massimo della custodia cautelare, pari a sei anni ex art. 303, comma quarto, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita, e può poi aumentare o ridurre il risultato di tale calcolo numerico, sempre nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, tenendo conto anche delle eventuali specificità positive o negative del caso concreto nell’ambito di una valutazione che prenda in considerazione non solo la durata della custodia cautelare, ma anche i pregiudizi di carattere personale e familiare legati alla privazione della libertà (Sez. 4, n. 30649 del 27/06/2019) (in applicazione di questi criteri, la recente Cass. pen. n. 25339 del 2023 ha cassato la sentenza impugnata, perché il giudice della riparazione, dopo aver illustrato i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul tema, aveva poi abbattuto l’indennizzo liquidato nel caso concreto nella misura di 80 Euro al giorno senza alcuna motivazione circa i criteri e le ragioni della decurtazione). La giurisprudenza penale, quindi, indica al giudice della riparazione di prendere come parametro di base il valore medio, con facoltà di discostarsene motivatamente in difetto o in eccesso, pur sempre nei limiti del tetto massimo complessivo, a fronte delle particolarità della vicenda umana e carceraria del destinatario della misura riparatoria.

Responsabilità professionale dell’avvocato tradottasi nell’impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata

La valutazione del giudice del giudizio risarcitorio, che ha preso come parametro di riferimento la misura di base dell’indennizzo giornaliero per la privazione della libertà personale e lo ha adottato a base di quantificazione, moltiplicandolo per i giorni di ingiusta detenzione, non ravvisando nessun dato particolare per discostarsene è corretta, e comunque non è adeguatamente censurata. La censura lamenta la mancanza di una valutazione in concreto da parte del giudice che ha liquidato il risarcimento dovuto al Mo.Ma., senza però indicare alcun parametro caratterizzante la situazione del Mo.Ma. che sia stato indebitamente trascurato dalla Corte d’Appello e che avrebbe potuto portare ad una quantificazione differente.

Il ricorso è complessivamente rigettato.

Nulla sulle spese, in difetto di attività difensiva da parte degli intimati.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dell’art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 28 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2024.

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