Consiglio di Stato, Sezione terza, Sentenza 6 luglio 2020, n. 4336.
La massima estrapolata:
Per ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l’illegittimo esercizio (o, come nel caso di specie, ritardato esercizio) dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti; se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e quando il soggetto onerato della allegazione e della prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito.
Sentenza 6 luglio 2020, n. 4336
Data udienza 28 maggio 2020
Tag – parola chiave: Attività amministrativa – Profili di illegittimità – Azione di risarcimento danni – Responsabilità della PA – Processo amministrativo – Onere della prova
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7813 del 2019, proposto da
Gl. Se. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ar. Po., Al. An. e Ug. Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ar. Po. in Roma, via (…);
contro
Ufficio Territoriale del Governo di Firenze, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Toscana n. 271/2019, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 28 maggio 2020 il Cons. Giovanni Tulumello, e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il 28 aprile 2010 il sig. Em. De Le. presentava alla Prefettura di Firenze istanza per poter svolgere attività di vigilanza ex art. 134 T.U.L.P.S. nella provincia di Firenze per conto della società “Gl. Se. S.r.l.”.
Il 31 maggio 2011 la richiesta era respinta con decreto prefettizio n. 0030576, poiché, a seguito dell’istruttoria di rito svolta secondo i parametri ante D.M. 269/2010, la suddetta istanza risultava inaccoglibile “per carenza del progetto tecnico – organizzativo dell’istituto, mancata dimostrazione della capacità tecnica ed esercizio delle attività dell’art. 134 T.U.L.P.S. in assenza della prescritta licenza, ai sensi dell’art. 257 quater regolamento T.U.L.P.S.”.
Impugnato tale provvedimento davanti al T.A.R. Toscana, con ordinanza cautelare n. 1039 del 20 ottobre 2011 veniva ordinato all’amministrazione il riesame dell’istanza.
Il riesame veniva esitato con provvedimento prot. n. 0086658 del 5 dicembre 2012, anch’esso reiettivo, impugnato con ricorso per motivi aggiunti.
La sentenza del T.A.R. Toscana n. 1111/2013 dichiarava improcedibile il ricorso introduttivo e i primi motivi aggiunti (rivolti contro alcuni pareri endoprocedimentali), e rigettava i secondi motivi aggiunti, relativi al provvedimento di riesame.
La sentenza n. 3886/2014 di questa Sezione accoglieva l’appello proposto contro la sentenza n. 1111/2013, ed annullava il diniego reso all’esito del riesame.
A seguito di diffida della Gl., la Prefettura U.T.G. di Firenze con nota dell’11 agosto 2014, confermata con atto del successivo 25 settembre, comunicava di non poter procedere al rilascio dell’autorizzazione in quanto a suo dire la sentenza di annullamento in grado di appello non era autoesecutiva, ma doveva farsi luogo alla presentazione di una nuova domanda di autorizzazione.
Adita in sede di ottemperanza, questa Sezione, con sentenza n. 913/2015, pubblicata il 23 febbraio 2015, accoglieva il ricorso, dichiarando la nullità per elusione del giudicato dei provvedimenti sopra richiamati, e ordinava il rilascio dell’autorizzazione.
L’autorizzazione era infine rilasciata il 16 marzo 2015.
La società Gl. ha quindi proposto ricorso al T.A.R. Toscana per il risarcimento dei danni causati dal ritardato rilascio dell’autorizzazione.
Con sentenza n. 1490/2016 il T.A.R. rigettava la domanda ritenendo non dimostrato il danno patrimoniale, e ritenendo infondata la domanda nella parte relativa al danno non patrimoniale.
Con sentenza n. 3280/2018 questa Sezione annullava tale sentenza con rinvio al primo giudice, per violazione del diritto di difesa in ordine alla prova del danno (patrimoniale) lamentato, in relazione alla mancata considerazione da parte del T.A.R. di documentazione probatoria prodotta nel giudizio di primo grado.
All’esito del giudizio di rinvio, con sentenza n. 217/2019, impugnata nel presente giudizio di appello, il T.A.R. Toscana respingeva nuovamente la domanda risarcitoria.
2. Con ricorso in appello notificato l’11 settembre 2019, e depositato il successivo 26 settembre, la società Gl. ha impugnato tale ultima sentenza del T.A.R. Toscana.
I motivi del ricorso in appello investono, in prima battuta, il profilo della quantificazione del danno patrimoniale; quindi ripropongono le questioni concernenti gli altri elementi della fattispecie d’illecito su cui non si è pronunciato il primo giudice (che ha ritenuto assorbente la mancata prova del danno), relativi all’an debeatur (in primis, la colpa dell’amministrazione).
L’appello contesta infine il rigetto della domanda relativa al danno non patrimoniale.
3. Preliminarmente è necessario qualificare correttamente la domanda: nel ricorso in appello l’oggetto viene indicato come “risarcimento del danno per illiceità dell’azione amministrativa esercitata”: in realtà, avendo poi l’appellante ottenuto (a seguito del contenzioso) il bene della vita, si tratta di un risarcimento del danno da ritardo nel rilascio di tale titolo (come ben chiarito dalla sentenza di questa Sezione n. 3280/2018 nelle premesse in fatto).
Occorre tuttavia distinguere, quanto meno ai fini di una corretta ricostruzione fattuale, il ritardo da (mera) violazione del termine procedimentale, dal ritardo conseguente ad un diniego poi annullato (fattispecie qui dedotta).
In altre parole, la domanda ha ad oggetto il risarcimento del danno da ritardato (a seguito dell’accertamento giurisdizionale della spettanza del bene della vita) rilascio dell’autorizzazione.
4. La sentenza n. 3280/2018 non ha alcun contenuto di accertamento, essendosi limitata a pronunciare su di un profilo in rito.
Ad avviso del Collegio alla luce del descritto contenuto del ricorso in appello in sede di scrutinio dei motivi di gravame occorre muovere dall’indagine – propedeutica rispetto a quella relativa alla prova del danno – sulla sussistenza degli elementi della fattispecie d’illecito, e in particolare della colpa.
Sul punto vanno distinte due fasi:
4.1. quella che va dalla presentazione dell’istanza amministrativa alla sentenza di annullamento in grado di appello;
4.2. quella che va da tale ultima sentenza al rilascio del titolo.
Nel primo caso la colpa va parametrata in relazione alle ragioni del diniego, nel secondo caso va indagata con riferimento alle cause del diniego di esecuzione della pronuncia caducatoria.
5. Quanto al primo segmento dell’indagine, il mancato rilascio è dipeso da una questione giuridica non pacifica: tanto che c’è stato esito difforme del giudizio di annullamento fra primo e secondo grado.
Peraltro la questione riguardava l’applicabilità alla domanda di autorizzazione del regime vigente al momento della sua presentazione (tesi del ricorrente), ovvero al momento dell’adozione del provvedimento (tesi dell’amministrazione, poi riconosciuta infondata in appello).
Il nuovo regolamento, intervenuto dopo la presentazione dell’istanza (e dunque – secondo il principio tempus regit actum posto dalla sentenza n. 3886/2014 a base della propria decisione – in tesi regolante l’esercizio del potere da tradurre nel provvedimento finale), era più penalizzante per il richiedente: se non fosse per la norma transitoria la cui applicazione, ad avviso della stessa sentenza, andava però valutata con riferimento alla data di presentazione della domanda amministrativa.
La questione giuridica propedeutica all’esame dell’istanza non si presentava dunque piana ed univoca.
La sentenza n. 3886/2014, non spontaneamente adempiuta dall’amministrazione, contiene in proposito due elementi che in modo evidente dimostrano come non possa imputarsi all’amministrazione alcuna negligenza, imprudenza o imperizia nell’adozione del provvedimento poi annullato perché illegittimo:
5.1. la sentenza dà atto di una successione di norme, regolata da un regime transitorio la cui applicazione ha richiesto una non immediata operazione esegetica da parte del giudice d’appello;
5.2. in sede di motivazione della compensazione delle spese, la sentenza stessa afferma che si tratta di “contenzioso che coinvolge disposizioni in prima applicazione”.
6. Gli elementi appena esaminati portano ad escludere l’esistenza di una rimproverabilità – rilevante in termini di colpa – della condotta dell’amministrazione in sede di (illegittimo) diniego del provvedimento, avuto riguardo ai princì pi giurisprudenziali in materia e da ultimo richiamati da questa Sezione nella sentenza n. 2882/2018: “Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità . E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV., 31 marzo 2015, n. 1683; 28/07/2015, n. 3707)”.
È di palese evidenza come, nel caso in esame, in ragione dei segnalati caratteri del parametro normativo regolante l’esercizio del potere de quo si sia al di sotto della soglia minima di rimproverabilità della condotta descritta dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato.
La domanda dell’appellante va dunque rigettata, per difetto dell’elemento soggettivo, con riferimento all’esaminato segmento temporale.
7. Quanto alla successiva fase da prendere in considerazione (vale a dire quella che segue la pubblicazione della sentenza n. 913/2015, resa in sede di ottemperanza), va detto che la circostanza che la tesi dell’amministrazione sia risultata soccombente nel giudizio di ottemperanza non è evidentemente prova della colpa della stessa.
Va però considerato che, a fronte di una sufficientemente chiara ricostruzione della fattispecie operata dalla sentenza di annullamento in grado di appello, che dal regime della domanda faceva derivare evidenti conseguenze applicative, l’amministrazione non ha adempiuto l’onere di provare le ragioni per le quali ha ritenuto di non procedere spontaneamente all’esecuzione della sentenza, richiedendo – in contrasto con la struttura logica della decisione stessa – la presentazione di una nuova istanza (sull’onere gravante sull’amministrazione in simili casi si veda la sentenza di questa Sezione n. 7192/2019).
Il mancato assolvimento di tale onere, in una con la mancanza di elementi nella motivazione della sentenza che ha annullato il diniego che potessero farne ragionevolmente e legittimamente predicarne la natura non autoesecutiva rispetto alla successiva riedizione del potere connotata dal chiaro effetto conformativo di tale caducazione, conduce dunque all’affermazione della sussistenza di un comportamento colposo dell’amministrazione in sede di mancata ottemperanza spontanea a tale pronuncia.
8. Occorre dunque esaminare i profili di censura relativi ai capi della sentenza impugnata che hanno ritenuto non dimostrato il pregiudizio lamentato, con riferimento al periodo che va dalla pubblicazione della sentenza resa in sede di ottemperanza fino all’adozione del provvedimento di accoglimento dell’istanza.
In argomento occorre preliminarmente richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale, da ultimo ribadito dalla sentenza della II Sezione di questo Consiglio di Stato, n. 3269/2020, che ha affermato che “Per ogni ipotesi di responsabilità della p.a. per i danni causati per l’illegittimo esercizio (o, come nel caso di specie, ritardato esercizio) dell’attività amministrativa, spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti; se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise e quando il soggetto onerato della allegazione e della prova dei fatti non vi adempie non può darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito (Cons. Stato Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271).”
9. Quanto al danno non patrimoniale, la sentenza appellata si limita invero ad affermare: “di dover confermare quanto già puntualizzato nella sentenza n. 1490/2016”.
In tale sentenza la domanda era stata respinta con le seguenti motivazioni: “Per quello che riguarda la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, la Sezione non può mancare di rilevare come, anche non volendo aderire all’impostazione più restrittiva che applica i principi in materia di onere della prova del pregiudizio anche ai danni caratterizzati dal carattere non patrimoniale (Cons. Stato, sez. IV, 7 gennaio 2013 n. 23; sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143), l’azione risarcitoria non possa trovare accoglimento. La giurisprudenza ha, infatti, esattamente rilevato come il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, sia “risarcibile -sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., anche quando non sussist(a) un fatto-reato né ricorr(a) alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali – a tre condizioni: a) che l’interesse leso, e non il pregiudizio sofferto, abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza; c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità ” (Cons. Stato sez. IV, 5 settembre 2013 n. 4464; 2 aprile 2012 nn. 1957 e 1958). Nel caso di specie, il ricorrente neanche individua l’interesse costituzionalmente rilevante leso dal presunto comportamento illegittimo dell’Amministrazione, limitandosi a prospettare genericamente un danno biologico o all’immagine; anche a prescindere dall’evidente improprietà del riferimento al danno biologico di una società commerciale (non apparendo tra i ricorrenti, persone fisiche), siamo pertanto in un contesto in cui il generico riferimento al danno non patrimoniale si esaurisce in “una pura, apodittica affermazione sprovvista di fondamento probatorio, che non può costituire ex se nemmeno mera indicazione di un “fatto” tale da suscitare la considerazione del giudice e la sua valutazione equitativa” (Cons. Stato sez. IV, 5 settembre 2013 n. 4464)”.
10. Obietta l’appellante che “la violazione del precetto costituzionale è quello riferibile all’art. 41 della Carta Costituzionale, secondo il quale la libera iniziativa economica privata non può essere limitata dall’espletamento di un comportamento punitivo della Pubblica Amministrazione, soprattutto laddove sussiste un potere di quest’ultima di valutare tutti gli elementi necessari per rimuovere gli ostacoli alla libera esplicazione di un’attività imprenditoriale come quella di vigilanza privata. Sul punto, è la stessa giurisprudenza di codesto Ecc.mo Consiglio che, proprio con riguardo ad un cattivo uso del potere esercitato da una Prefettura nei confronti di un titolare di detta tipologia di autorizzazione di polizia ha avuto modo di evidenziare che ” L’illegittima revoca dell’autorizzazione di Polizia per la gestione di un istituto di vigilanza privata, con conseguente cessazione dell’azienda, cagiona all’im-prenditore un danno esistenziale risarcibile, identificabile in una compromissione dell’autostima, del benessere e della sfera relaziona-le del danneggiato, in termini suscettibili di apprezzamento presunti-vo e di liquidazione in via equitativa. In particolare, la lunga interruzione subita dall’azienda, sulla quale il professionista ha concentrato i propri interessi professionali e la propria posizione, in termini economici e sociali, determina la lesione di diritti della persona costituzionalmente garantiti, con particolare riguardo agli art. 2, 4, 36 e 41 cost.” (Consiglio di Stato, sez. VI, 08/09/2009, n. 5266) [In senso con-forme Cons. Stato, Sez. VI, 16 marzo 2005, n. 1096; TAR Sardegna, Sez. II, 30 gennaio 2006, n. 95]. Nel caso di specie, oggetto del presente giudizio, l’odierna appellante ha evidenziato proprio la sussistenza del predetto danno che risulta es-sere risarcibile proprio in termini di danno esistenziale a nulla rilevando, come fa in modo incomprensibile il Tar Toscana, che il danno è stato avanzato dalla società Gl., in considerazione del rilevante fatto che la caratteristica peculiare dell’attività imprenditoriale di vigilanza privata è data dal fatto che l’autorizzazione è sempre ri-lasciata ad una persona fisica – rientra ancora nell’ambito delle cd. autorizzazioni intuitu personae – che agisce in nome e per conto della società che rappresenta. Pertanto, la mancata valutazione del danno non patrimoniale così come esposto dall’odierno appellante è palesemente in contrasto con la disciplina che caratterizza tale tipo di attività imprenditoriale e le conseguenze direttamente connesse al non corretto esercizio del potere concretizzatosi nell’eccessivo ed ingiustificato ritardo nel rilascio del titolo di polizia, anche e soprattutto a fronte di sentenze di codesto Ecc.mo Consiglio di Stato non eseguite correttamente tanto da dover intraprendere ed ottenere apposita sentenza di ottemperanza”.
11. Ad avviso del Collegio le censure proposte dall’appellante non superano le richiamate motivazioni del rigetto di questo capo di domanda.
Va peraltro osservato, in aggiunta a quanto ritenuto dai primi giudici, che nel senso – dirimente – del rigetto della domanda per mancata dimostrazione di tale voce di danno milita il consolidato orientamento della giurisprudenza che nega, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa: superata infatti la teorica del c.d. “danno evento” (elaborata dalla sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, ma oggetto di revirement, da parte dello stesso giudice delle leggi, con la sentenza n. 372/1994), il danno risarcibile, “nella sua attuale ontologia giuridica… non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione” (così Cass. 15/7/2014, n. 16133).
Il danno non patrimoniale non è dunque risarcibile in re ipsa né se deriva da reato (Cass. 12/4/2011, n. 8421); né se è tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass. 26/9/2013, n. 22100; Cass. 15/7/2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass. 26/5/2009, n. 12242); né se, come nel caso che ci occupa, trova fonte in un’asserita lesione di diritti costituzionalmente garantiti, come il diritto alla libertà di iniziativa economica o alla reputazione professionale: sul punto, in termini chiarissimi, si veda, tra le tante, la recente Cass. 6/12/2018, n. 31537, secondo la quale “In tema di responsabilità civile derivante da pregiudizio all’onore ed alla reputazione, il danno risarcibile non è “in re ipsa” e va pertanto individuato, non nella lesione del diritto inviolabile, ma nelle conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di tale danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato”.
Né la circostanza per cui il danno non patrimoniale sia liquidato in via equitativa dal giudice può supplire al difetto di prova, atteso che l’art. 1226 c.c. si riferisce al solo quantum debeatur, aprendo alla valutazione equitativa “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare”; non certo all’an debeatur, ovverosia alla prova della sussistenza del danno, che resta ovviamente a carico del ricorrente, ma che nel presente giudizio non è stata offerta, né prospettata in concreto.
12. Anche in punto di risarcimento del danno patrimoniale le censure proposte dall’appellante non superano le considerazioni svolte nella sentenza appellata, secondo le quali “anche in costanza della prova delle dette spese, ritiene il Collegio che le stesse non siano comunque risarcibili, rientrando anch’esse nelle categorie di spese già analizzate nella detta sentenza e ritenute non integranti inutili “costi a vuoto”; Quanto all’asserito lucro cessante, ritiene il Collegio che anche sotto tale profilo debba trovare conferma la sentenza n. 1490/2016, non essendovi, nei documenti oggetto d’integrazione, riferimenti a quella che potrebbe essere la redditività media dell’attività svolta dalla ricorrente, bensì solo a bilanci di altre imprese operanti nel medesimo ambito territoriale, le quali potrebbero ovviamente presentare delle rilevanti differenze quanto a organizzazione, dimensioni e capacità di penetrazione del mercato; tenuto conto anche del fatto che la ricorrente non ha dimostrato direttamente quale sia la redditività concreta dell’attività ormai iniziata a decorrere dal marzo 2015 (dato che avrebbe potuto fornire utile elemento per la dimostrazione presuntiva della capacità di produzione reddituale della struttura nel periodo precedente)”.
13. Per quanto riguarda il c.d. danno emergente, il costo sostenuto per l’acquisto delle risorse necessarie per l’attività economica non è di per sé un pregiudizio, perché come chiarito dai primi giudici quelle risorse sono state comunque impiegate dopo il rilascio dell’autorizzazione.
L’appellante avrebbe dovuto provare semmai non un danno collegato alle spese infrastrutturali affrontate, ma un danno da ritardato impiego dei relativi beni (immobile, centrale operativa, automobili), che però non è stato oggetto di puntuale dimostrazione in giudizio.
Va poi considerato, nell’ottica degli artt. 2056 e 1227 cod. civ., un dato assorbente (incidente, prima ancora che sulla prova dei danni lamentati, sul nesso di causalità nel verificarsi del non dimostrato evento dannoso).
Dalla relazione di consulenza tecnica di parte redatta dal dott. Ma. Ba., depositata nel giudizio di primo grado, risulta che le spese in questione sono state sostenute, in gran parte, immediatamente dopo la presentazione della domanda amministrativa (si lamenta, ad esempio, che il motociclo targato CD88845 sarebbe “rimasto dal 2011 inutilizzato”).
Il che, a fronte di un provvedimento connotato da ampia discrezionalità, appare quanto meno incauto, in assenza di un affidamento qualificato (si veda, in argomento, la sentenza della V Sezione di questo Consiglio di Stato, n. 4508/2015).
Sia il mezzo in esame, che la relazione di consulenza su cui esso poggia, si limitano in sostanza ad allegare l’avvenuto acquisto (ed il mancato, temporaneo utilizzo) di beni strumentali, senza fornire però la rigorosa dimostrazione che il loro mancato utilizzo fino al rilascio dell’autorizzazione ne ha irrimediabilmente precluso il successivo impiego nell’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Il che, unitamente ai segnalati profili connessi al concorso di colpa del danneggiato nella causazione dell’evento dannoso, impedisce l’accoglimento di questo capo di domanda.
14. In materia di c.d. lucro cessante, la citata relazione del consulente, su cui si fonda la domanda dell’appellante, allega un possibile danno da perdita di chances parametrato ai bilanci di imprese concorrenti.
In realtà, come chiarito dalle sentenze di questa Sezione n. 2882/2018 e n. 3130/2018, le due fattispecie non sono sovrapponibili: “i due tipi di danno sono alternativi: il danno da perdita di chance è alternativo rispetto al danno da lucro cessante futuro da perdita del reddito in quanto o la vittima dimostra di avere perduto un reddito che verosimilmente avrebbe realizzato, ed allora le spetterà il risarcimento del lucro cessante, ovvero la vittima non dà quella prova, ed allora le può spettare il risarcimento del danno da perdita di chance. (Cass. Sez. III, 13.10.2016 n. 20630)”.
Nel ricorso di primo grado si domanda (e si argomenta) in realtà un danno da lucro cessante: che però non appare provato, se non nelle forme giustamente ritenute approssimative dal primo giudice.
La motivazione della sentenza di primo grado, in relazione alla insufficienza degli elementi addotti (che non tengono conto delle “rilevanti differenze quanto a organizzazione, dimensioni e capacità di penetrazione del mercato”), risulta ancor più immune dalle censure che le sono state rivolte se si pone mente al fatto che la giurisprudenza formatasi sul danno da lucro cessante e da perdita di chance è stata elaborata in materia di appalti, vale a dire in un contesto normativo e fattuale caratterizzato da un criterio certo di commisurazione della redditività della mancata attività (il corrispettivo del contratto di appalto), laddove nel caso di specie invece difetta un qualsiasi parametro obiettivo di riferimento che possa analogamente agevolare l’onere probatorio incombente sul danneggiante, dal momento che la redditività dell’utilitas è viceversa condizionata da numerose variabili (fra le quali la capacità di penetrazione nel mercato di riferimento, non scontata per le imprese che vi fanno ingresso ex novo).
Ancor più convincente è la sentenza di primo grado dove rileva il difetto di prova di questa voce di danno, per mancata allegazione della documentazione contabile dell’impresa successiva al rilascio dell’autorizzazione (il che avrebbe consentito una comparazione con elementi concreti e non astratti o generici): dal momento che il parametro di riferimento è dato proprio da ciò che l’impresa in concreto non ha lucrato a causa del suo ritardato accesso al mercato (e non da ciò che avrebbe potuto ipoteticamente lucrare assumendo come riferimento i ricavi di altri imprenditori del settore).
Tale carenza impinge sul difetto di prova (non solo del danno, ma anche) del nesso di causalità, come condivisibilmente chiarito dalla sentenza della V Sezione di questo Consiglio di Stato, n. 4508/2015: “non si evince dalla fattispecie in esame nemmeno il nesso di causalità tra l’asserito comportamento colposo dell’amministrazione e il danno patito dal ricorrente, quale dal medesimo rappresentato. L’articolo 1223 del codice civile, richiamato dall’articolo 2056 in materia di valutazione del danno stabilisce, infatti, che “Il risarcimento del danno per inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Non basta, quindi, il comportamento colpevole dell’amministrazione, essendo necessario il nesso di stretta consequenzialità tra detto comportamento e il danno rivendicato dall’interessato nel senso che il comportamento deve essere antecedente necessario dell’evento che deve rientrare tra le conseguenza normali e ordinarie del fatto colposo”.
15. Nella memoria finale l’appellante cita una circolare del Ministero dell’Interno che spiegherebbe come, contrariamente a quanto assunto dalla sentenza appellata (che sul punto aveva argomentato un uso delle risorse acquistate per attività di portierato e guardiania già in precedenza svolte), la società, in assenza dell’autorizzazione, non avrebbe potuto svolgere tali attività .
L’appellante non smentisce in fatto di avere svolto tali attività in assenza (fino al momento del rilascio) dell’autorizzazione, ma allega un asserito impedimentum iuris.
Quest’ultimo tuttavia, oltre ad essere irrilevante sul piano della prova dei fatti costitutivi, rimonta neppure ad una fonte normativa, ma ad una circolare ministeriale, comunque del 2019 (laddove il danno in questione sarebbe relativo al periodo 2010/2015), sicché – ferma restando l’assorbente carenza di allegazione probatoria della voce di danno in esame – il documento prodotto non ha un rilievo, neppure argomentativo, sul punto.
La domanda risulta dunque, anche per questa parte, carente di idonea dimostrazione: né soccorre, sul punto, la domanda istruttoria dell’appellante di voler disporre “apposita consulenza tecnica d’ufficio ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 c.p.a. in ordine alla quantificazione del danno cagionato alla società Gl. Srl dalla Prefettura di Firenze sulla base delle indicazioni e delle allegazioni effettuate dalla scrivente difesa con il presente atto ed ogni altra attività istruttoria ritenuta necessaria ai sensi di legge”: per costante giurisprudenza, infatti, “la C.T.U. non può essere invocata per supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del privato (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 26 marzo 2020, n. 2121; Sez. IV, 15 dicembre 2011 n. 6598). La consulenza tecnica non esonera, infatti, la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova posti dall’art. 2697 c.c., avendo la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute, anche in relazione alle modalità di quantificazione di un danno già provato, al fine di verificare i criteri di quantificazione forniti dalle parti (Cons. Stato Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271)” (Consiglio di Stato, sez. II, sentenza n. 3269/2020, cit.).
16. Il ricorso in appello deve essere pertanto rigettato perché infondato.
Sussistono le condizioni di legge, avuto riguardo alla complessità delle questioni dedotte, per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza (ai sensi dell’art. 84, comma 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), con l’intervento dei magistrati:
Marco Lipari – Presidente
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Raffaello Sestini – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere
Giovanni Tulumello – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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