Corte di Cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 6 maggio 2019, n. 11777.
La massima estrapolata:
La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subìto un danno alla salute l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze, l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
Ordinanza 6 maggio 2019, n. 11777
Data udienza 2 ottobre 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13254/2014 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A. (gia’ (OMISSIS) S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
e contro
(OMISSIS) S.P.A., (OMISSIS) S.P.A., (OMISSIS) S.P.A. SUN INSURANCE OFFICE LDT;
– intimate –
avverso la sentenza n. 219/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 02/07/2013 R.G.N. 435/2010;
LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore.
OSSERVA IN FATTO
Con sentenza numero 264 del 9 aprile 7 giugno 2010 il giudice del lavoro di Ascoli Piceno rigettava la domanda dell’attore (OMISSIS), il quale con ricorso del 13 maggio 2004 aveva lamentato tra l’altro svuotamento di mansioni con decorrenza dal 1998, a seguito di unificazione del reparto elettrico con quello di manutenzione, per mancata adibizione alle mansioni strumentista, considerata altresi’ la carenza del mobbing e quindi del danno alla salute.
L’anzidetta pronuncia veniva appellata dal (OMISSIS), che lamentava l’errata interpretazione delle risultanze istruttorie, sebbene testimoni avessero sostanzialmente confermato le proprie lamentele, in relazione sia alla mancata dotazione dell’apparecchio dosimetro, in occasione degli interventi su apparecchiature radioattive, sia all’assegnazione di mansioni deteriori e dequalificanti (come lo spazzare il pavimento ed eseguire compiti di pulizia, secondo quanto riferito dal teste (OMISSIS)), sia con riferimento alla condizione di sostanziale isolamento in fabbrica in cui egli era stato relegato, tant’e’ che lo stesso (OMISSIS) era stato diffidato dal superiore dal frequentare il collega (OMISSIS). Inoltre, l’appellante aveva lamentato il mancato rilievo dell’obbligo gravante a carico di parte datoriale circa il dovere di porre in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrita’ psicofisica del dipendente, sebbene costui avesse dimostrato le sue vicissitudini in ambiente di lavoro, con dequalificazione e violazione dell’articolo 2103 c.c., iniziata nel lontano 1986, ed avesse comunque dimostrato la sostanziale inattivita’, alla quale era stato costretto dalla condotta datoriale.
La Corte d’Appello di Ancona con sentenza n. 219 in data 7 marzo / 2 luglio 2013 rigettava l’interposto gravame, dichiarando compensate tra le parti le spese di secondo grado, poiche’ le circostanze di fatto addotte a sostegno sia del lamentato mobbing che del demansionamento (dedotto anche nella forma dello svuotamento di mansioni) non avevano trovato riscontro nelle risultanze istruttorie.
Avverso l’anzidetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. (OMISSIS) con atto notificato l’11 aprile 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito (OMISSIS) S.p.a. (gia’ (OMISSIS) S.p.a.) mediante controricorso in data 21/22 maggio 2014, con il quale peraltro e’ stata eccepita la tardivita’ dell’impugnazione avversaria, per violazione del termine breve di giorni 60, essendo stata la sentenza de qua notificata in cancelleria il 16 ottobre del 2013, poiche’ il procuratore costituito dell’appellante (avv. (OMISSIS), iscritta all’ordine degli avvocati di Ascoli Piceno, con domicili professionali sia in (OMISSIS) che in (OMISSIS)), non aveva eletto rituale domicilio in Ancona, laddove si era limitata a dichiarare elezione di domicilio presso studio avv. (OMISSIS), donde il difetto di chiara e valida indicazione di un procuratore domiciliatario, il cui nominativo non era stato indicato per esteso, parimenti mancante di indirizzo. Sono rimaste intimate le altre parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che
con il primo motivo il ricorrente ha denunciato violazione e / o falsa applicazione degli articoli 1218 e 2087 c.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, poiche’ il mobbing va inteso come fonte di responsabilita’ contrattuale, con conseguente obbligo per il datore di lavoro di provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrita’ psicofisica del dipendente, prova che nel caso di specie non era stata fornita, avendo l’impugnata sentenza omesso completamente di tener conto dell’obbligo, a carico di parte datoriale, di dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari a scongiurare il verificarsi di pregiudizio per il dipendente. Nel caso di specie addirittura la Corte distrettuale aveva definito il dosimetro come mero strumento di misurazione, non necessario al (OMISSIS), dimenticando pero’ ogni riferimento alle radiazioni. In corso di causa esso (OMISSIS) aveva dimostrato le sue vicissitudini lavorative, iniziate nel lontano 1986, e l’inattivita’ cui era stato costretto. Aveva, inoltre, allegato idonea certificazione medica attestante il nesso di causalita’ tra la sua condizione psico-fisica e la sua attivita’ lavorativa in conseguenza delle mortificazioni indotte da parte datoriale, da cui era derivato un rilevante danno biologico. In tale ambito si era insistito per l’ammissione di c.t.u. medico-legale, assumendo il ricorrente di aver dimostrato gli elementi caratterizzanti di norma la condotta del mobbing, quale la durata, la reiterazione, la discrezionalita’, la pretestuosita’ e le conseguenze dannose. Nessuna prova in senso contrario era stata, invece, offerta dalla convenuta societa’, la quale non aveva infatti provato, ne’ chiesto di provare che il proprio reiterato comportamento non era costitutivo di molestia morale e che le proprie decisioni erano state giustificate da ragioni obiettive.
Con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato insufficiente e contraddittoria motivazione per erronea valutazione delle risultanze istruttorie, relativamente al fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5.
Nessuna rilevanza potevano avere in sede processuale le conclusioni cui era pervenuta la Direzione Provinciale del Lavoro, poiche’ l’istruttoria acquisita nel corso di questo procedimento non poteva superare le preclusioni e le decadenze di cui all’articolo 416 c.p.c.. Il procedimento amministrativo, inoltre, non poteva avere alcuna influenza e/o interferenza nel procedimento civile. I giudici di primo e secondo grado avevano, sostanzialmente, sposato le tesi di parte resistente, senza addurre alcunche’ sulle risultanze testimoniali, ma anzi dando rilievo esclusivo ai fini di rigetto della domanda sulla proposizione in corso di causa di un ricorso cautelare, peraltro definito per cessazione del contendere, per essere stato il ricorrente assegnato a mansioni diverse che non contemplassero il movimento carichi, che neppure poteva essere affrontato da esso ricorrente. Dunque, e’ stata eccepita la inopponibilita’ e la ininfluenza della procedura incidentale (peraltro definita a seguito di riconoscimento della parte datoriale della fondatezza delle lagnanze del dipendente), laddove inoltre il lavoratore aveva legittimamente chiesto la modifica delle mansioni in conseguenza del suo precario stato di salute, compromesso da un infarto, sicche’ egli non poteva movimentare pesi eccessivi, sebbene in occasione degli sporadici episodi in cui gli veniva richiesto. Del resto, secondo il ricorrente, l’ipotesi di mobbing giuridicamente tutelato contempla oltre all’impossibilita’ di soddisfazione professionale per il dipendente anche le continue vessazioni, cui lo stesso viene ripetutamente sottoposto. Era ovvio che ai sensi dell’articolo 2087 c.c., il datore di lavoro aveva l’obbligo di inquadrare il dipendente con mansioni consone al suo stato fisico e appariva troppo comodo addurre ora la contraddittorieta’ di tale comportamento del (OMISSIS) nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato ultraventennale.
Tanto premesso, il ricorso si appalesa inammissibile, non gia’ per la tardivita’ erroneamente eccepita da parte controricorrente (laddove in effetti le indicazioni contenute nell’atto di appello erano in effetti sufficienti per individuare il procuratore domiciliatario in Ancona dove notificare, quindi, la sentenza ai fine della decorrenza del termine breve ex articolo 325 c.p.c.), ma per carenza di esaurienti allegazioni ex articolo 366 c.p.c., comma 1, tra cui specifici e pertinenti motivi idonei a confutare il percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito a sostegno della decisione di rigetto del gravame. Inoltre, con le anzidette censure” peraltro come detto irrituali, parte ricorrente inammissibilmente in questa sede di legittimita’ pretende di sovvertire quanto accertato ed apprezzato, mediante sufficienti corrette e logiche motivazioni dalla Corte di merito, di modo che non ricorrono nemmeno i presupposti dell’articolo 360, nn. 3 e 5, del codice di rito in ordine ai vizi denunciati.
Infatti, secondo la Corte distrettuale, gli elementi sintomatici del mobbing, allegati dall’appellante, erano stati essenzialmente smentiti dalle risultanze istruttorie, di guisa che dovevano escludersi nella fattispecie gli estremi del demansionamento e la violazione da parte della datrice di lavoro del suo obbligo di tutela delle condizioni di lavoro del dipendente. In base alla deposizione, giudicata qualificata, disinteressata e circostanziata, resa dal teste (OMISSIS), risultava smentita l’assegnazione del (OMISSIS) a mansioni di ordinaria pulizia, fermo restando che la pulizia, preventiva successiva a fine lavoro, dei macchinari era senz’altro pertinente alle mansioni inerenti alla qualifica, tanto piu’ che detto compito veniva svolto anche da altri colleghi di pari qualifica dell’appellante. Parimenti, veniva osservato circa la pretesa mancata dotazione degli apparecchi dosimetrici delle radiazioni, che tra l’altro essendo meri strumenti di misurazione non ricadevano nel novero di dispositivi di protezione individuale, a tale scopo richiamandosi ancora la deposizione del teste (OMISSIS).
Richiamata, inoltre, tra le altre, pure la testimonianza (OMISSIS), secondo la Corte marchigiana gli interventi eseguiti dal (OMISSIS) su apparecchiature radioattive erano saltuari ed essenzialmente marginali, il che spiegava la sostanziale superfluita’ della misurazione per consimili posizioni lavorative. In definitiva, la mancata dotazione di dosimetri per il (OMISSIS) e piu’ in generale per lavoratori cosiddetti giornalieri era una misura organizzativa, non integrando una discriminazione consumata in danno del ricorrente. La valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, compresi gli atti dell’indagine amministrativa svolta dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Ascoli Piceno, smentiva, ad avviso della Corte di merito, la prospettazione del demansionamento per svuotamento delle mansioni, essendo piu’ credibili i precisi riferimenti forniti dai testimoni qualificati come (OMISSIS) e (OMISSIS), tenuto altresi’ conto di quanto verificato in sede di audizione ispettiva, atteso il reciproco riscontro logico circa il normale svolgimento delle mansioni da parte del (OMISSIS), per di piu’ coerenti con le stesse iniziative a tutela intraprese dal lavoratore. Ne’ andava trascurato che in sede di inchiesta sul luogo di lavoro – giusta il processo verbale del 12 aprile 2007, redatto all’esito dell’inchiesta amministrativa – erano stati acquisiti tabulati con l’elenco dei lavori affidati al (OMISSIS) (registrati in ordine cronologico dal luglio 2004 in avanti) dal suo caporeparto (OMISSIS), atteso che detta documentazione obiettivamente smentiva la prospettata inopia sul posto di lavoro. Pertanto, non poteva dubitarsi che il (OMISSIS), dopo aver iniziato in cartiera con le mansioni di elettricista nel reparto di manutenzione elettrica, avesse svolto le mansioni di strumentista – nel reparto di manutenzione strumenti – fino al termine del 1993, per poi passare nel reparto di nuova costituzione di elettrostrumentistica, occupandosi come operaio cartotecnico specializzato sia di lavori di manutenzione e aggiustaggio delle parti elettriche ed elettroniche dei macchinari, sia della strumentazione con mansioni di elettrostrumentista. Di scarsa attendibilita’ risultava, per contro, a giudizio della Corte d’Appello, la deposizione del teste (OMISSIS), andata ben oltre le stesse deduzioni delle circostanze enunciate nel ricorso introduttivo del giudizio. Del resto, la scarsa attendibilita’ del (OMISSIS) emergeva dalla incoerenza logica della asserita permanente inopia con l’iniziativa del (OMISSIS), il quale nel 2006 si era rivolto al giudice del lavoro di Ancona per chiedere tutela in via di urgenza sul presupposto della incompatibilita’ delle mansioni strumentista con il suo stato di salute (procedimento poi definito per cessazione della materia del contendere, avendo le parti accettato la valutazione di idoneita’ alle mansioni, sia pure con qualche prescrizione, espressa dalla Commissione sanitaria unica regionale all’esito della visita medica collegiale disposta ai sensi della L. n. 300 del 1970, articolo 5). L’enfasi del teste (OMISSIS), poi, mal si conciliava con la stessa posizione processuale del (OMISSIS), il quale non solo nel procedimento ex articolo 700 c.p.c., ma anche in altri atti processuali, aveva segnalato situazioni di lavoro attive, ben differenti quindi dalla generale inopia raccontata dal (OMISSIS).
In definitiva, secondo la Corte d’Appello, la sentenza impugnata non meritava censura, posto che in ogni caso l’attore non aveva assolto l’onere probatorio del mobbing e del demansionamento, all’uopo richiamando i principi di diritto affermati da questa Corte con la sentenza n. 3788 del 17 febbraio 2009 circa la portata della responsabilita’ contrattuale ex articolo 2087 c.c., per cui incombe al lavoratore, il quale lamenti un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale nocumento, come pure la nocivita’ dell’ambiente di lavoro, nonche’ il nesso tra l’uno nell’altro elemento, mentre spetta al datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le anzidette circostanze – l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
Quanto, poi, al bossing o mobbing doveva escludersi una responsabilita’ per danni di inosservanza degli obblighi di sicurezza ex articolo 2087 c.c., nel caso di specie, in assenza di atti obiettivamente vessatori nel corso del rapporto di lavoro. A tal proposito, inoltre, la Corte distrettuale rilevava come non fosse superfluo ricordare che non possono ricadere nella fattispecie di mobbing i normali conflitti in ambiente di lavoro, tali da restare confinati nella fisiologica prassi quotidiana della generalita’ dei luoghi di lavoro, fermo restando che la reciprocita’ degli attacchi e la reazione del dipendente colpito da un atto arbitrario o illegittimo del datore di lavoro caratterizza soltanto il conflitto lavorativo, inidoneo come tale a cagionare danno ingiusto alla salute.
Pertanto, alla stregua di quanto accertato e valutato dalla Corte di merito, non e’ ravvisabile in punto di diritto alcuna violazione degli articoli 1218 e 2087 c.c..
Invero, quanto al primo motivo, va ricordato, in particolare, come la responsabilita’ contrattuale, ex articolo 2087 c.c., non sia di natura oggettiva, sicche’ il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attivita’ lavorativa non determina di per se’ l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro, della nocivita’ dell’ambiente di lavoro, nella specie mancata, cosi’ come d’altro canto nemmeno risulta dimostrato alcun particolare inadempimento rilevante ex articolo 2103 c.c. (cfr., tra le altre, Cass. lav. n. 2038 del 29/01/2013: l’articolo 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilita’ oggettiva, in quanto la responsabilita’ del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attivita’ lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocivita’ dell’ambiente di lavoro, nonche’ il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non e’ ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. L’ambito dell’articolo 2087 c.c., riguarda una responsabilita’ contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. In senso analogo v. altresi’ Cass. lav. n. 3786 del 17/02/2009.
Allo stesso modo si e’ pronunciata, in motivazione, la sentenza di Cass. lav. n. 2251 in data 17/11/2011 – 16/02/2012: “…La responsabilita’ del datore di lavoro di cui all’articolo 2087 e’ di natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell’attivita’ lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza del danno e la nocivita’ dell’ambiente di lavoro, nonche’ il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 17.02.09 n. 3788)….”).
Inoltre, (v. Cass. lav. n. 26684 del 10/11/2017) l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimita’ o illegittimita’ dei singoli atti, bensi’ nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. A tal fine la legittimita’ dei provvedimenti puo’ rilevare, ma solo indirettamente, perche’, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, puo’ essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. Parimenti, la conflittualita’ delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenita’ necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, puo’ essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalita’ e la dignita’ del lavoratore.
Del tutto corretta, anche sotto il profilo sostanziale, in punto di diritto, appare dunque la decisione qui impugnata, siccome aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimita’, condiviso da questo collegio, secondo cui per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui puo’ conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalita’. Ai fini della configurabilita’ della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicita’ di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalita’ del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrita’ psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioe’ dell’intento persecutorio (Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009. Conformi Cass. lav. n. 898 del 17/01/2014. In senso analogo, Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014. V. altresi’ Cass. lav. n. 18836 del 07/08/2013: costituisce mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entita’ – al dipendente medesimo. Piu’ recentemente, nei sensi secondo i quali e’ elemento costitutivo del mobbing, unitamente agli altri occorrenti, anche quello soggettivo, connotato dall’intento persecutorio, cfr. ancora Cass. lav., sentenza n. 9380 del 02/11/2016 – 12/04/2017, nonche’ Sez. 6 – L, ordinanza n. 14485 depositata il 9/6/2017).
Analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilita’, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti la ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell’attrice, che pero’ irritualmente in questa sede di legittimita’ tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto piu’ nella specie inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da’ luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, ne’ in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’articolo 132 c.p.c., n. 4, – da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex articolo 360, n. 5, v. altresi’ Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014).
Come e’ noto (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016), in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicita’ del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che cio’ si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimita’ (v. altresi’ Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non puo’ procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, ne’ porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresi’ Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui e’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e piu’ appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalita’ di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e percio’ in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalita’ del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007.
Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., e’ apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non gia’ dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimita’. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’articolo 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben puo’ apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e cosi’ escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.
Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’articolo 115 c.p.c., puo’ essere dedotta come vizio di legittimita’ solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
Cfr. altresi’ Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – articolo 2697 ss. – poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneita’ di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che e’ viceversa disciplinata dagli articoli 115 e 116 c.p.c., e la cui erroneita’ ridonda quale vizio ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Pertanto, si appalesa l’inammissibilita’ delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente, di modo che il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese.
Stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono, infine, i presupposti di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato (non risulta in atti alcun provvedimento di ammissione al beneficio, per questo ricorso, del patrocinio a spese dello Stato, sul punto essendo irrilevante l’autocertificazione in ordine al requisito reddituale, che di per se’ non esonera dall’obbligo di pagamento del suddetto contributo in relazione al giudizio di legittimita’).
P.Q.M.
La Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della sola parte controricorrente in Euro 4500,00 (quattromilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
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