Quando risulta realizzato un manufatto abusivo

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 4 ottobre 2019, n. 6720.

La massima estrapolata:

Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive.

Sentenza 4 ottobre 2019, n. 6720

Data udienza 26 settembre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5461 del 2016, proposto da
FR. DE LE., rappresentato e difeso dall’avvocato Fe. La., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
COMUNE DI NAPOLI, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., Fa. Ma. Fe., Br. Ri., con domicilio eletto presso lo studio Ni. La. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania n. 146 del 2016;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 settembre 2019 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Fe. La., Ni. La., in dichiarata sostituzione dell’avvocato Br. Ri.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.- L’appellante – premesso di essere proprietario dell’appartamento, sito in Napoli alla via (omissis), catastalmente individuato al foglio n. (omissis), part. n.(omissis), sub. (omissis), ricadente in Zona A, sottozona Aa del P.R.G. – deduce che:
– la predetta unità immobiliare era stata oggetto di opere di manutenzione straordinaria realizzati giusta SCIA prot. n. 8141, depositata in data 30 dicembre 2010;
– nel corso del sopralluogo effettuato dalla Polizia Municipale in data 19 ottobre 2012, veniva constatata, sia la realizzazione di un ampliamento del vano di accesso alla veranda in difformità dal progetto presentato con SCIA prot. n. 8141/2010, sia l’abusività della veranda stessa;
– con disposizione dirigenziale n. 288/1 del 27 maggio 2013, il Comune di Napoli ingiungeva quindi la demolizione del vano veranda di circa 3,10 mq (3,10 x 1,00) x m. 2,50 di H, presente sullo sporto prospettante il lato interno del cortile;
– la disposizione dirigenziale da ultimo citata (unitamente ai verbali della Polizia Municipale del 20 ottobre 2012 e del 6 dicembre 2012, ed alla nota comunale prot. n. 2013.613781 del 1 agosto 2013 in riscontro all’istanza di revoca presentata dal ricorrente) veniva impugnata dal ricorrente, sulla scorta delle seguenti censure:
i) la veranda in contestazione non sarebbe abusiva in quanto esistente sin dal 1929, quando non occorreva alcun titolo edilizio (l’epoca di realizzazione si evincerebbe da una foto aerea per l’appunto di quell’anno, da un grafico catastale del 1946, oltre che confermata dal Genio Civile di Napoli);
ii) l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento;
iii) la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo stato concesso un termine di 30 giorni e non di novanta;
iv) la carenza di motivazione, atteso il lungo tempo decorso dalla realizzazione del presunto abuso.
2.- Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza n. 146 del 2016, ha respinto il ricorso.
3.- Avverso la predetta sentenza, ha proposto appello il signor FR. DE LE., lamentando il travisamento degli atti processuali e riproponendo in sostanza le censure già proposte in primo grado, sia pure adattate all’impianto motivazionale della sentenza gravata;
4.- Si è costituito in giudizio il Comune di Napoli, insistendo per il rigetto del gravame.
5.- Con il primo motivo di appello, l’istante lamenta che il giudice di prime cure non avrebbe tenuto conto delle evidenze acquisite nel corso del giudizio in ordine alla preesistenza della veranda in questione sin dal 1929, soprattutto con riguardo all’efficacia probatoria della ripresa aerea dell’Istituto Geografico della Marina Militare del 1929 (volo del 5 dicembre 1929 Foglio (omissis) serie (omissis) Fotogramma (omissis): allegato 9 della perizia tecnica in atti), e del grafico catastale del 1946, nel quale la veranda è indicata come chiusa da muratura con una finestra centrale in facciata, e collegata ad un vano definito come “cucina”.
La censura non può essere accolta.
5.1.- Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi – i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni – trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
5.2.- Su queste basi, l’appellante nel corso del giudizio di primo grado non ha fornito elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto, nella sua attuale consistenza, non solo rispetto all’entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765, ma anche rispetto al Regolamento Edilizio del Comune di Napoli del 1935: quest’ultimo, per le costruzioni da realizzare nel territorio cittadino, aveva anzitempo introdotto l’obbligo dell’ottenimento di previo titolo edilizio in ipotesi di “costruzione di nuovi edifici, sopralzi od ampliamenti di quelli esistenti”.
In punto di apprezzamento del materiale istruttorio, il Collegio concorda con le valutazioni espresse dal giudice di primo grado: dalle fotografie aeree del 1929 emerge sì l’esistenza di un corpo sporgente, ma non è dato evincere se si tratti di un balcone o di una vera e propria veranda (corrispondente a quella oggetto di contestazione).
Anche il grafico catastale del 1946 – nel quale è indicata una veranda come chiusa da muratura con una finestra centrale in facciata, e collegata ad un vano definito come “cucina” – non è idoneo a supportare la censura di illegittimità, in quanto, anche a voler ritenere realizzato il manufatto entro il 1946, l’intervento edilizio in contestazione resterebbe comunque disciplinato dal regolamento edilizio comunale approvato nel 1935 che imponeva l’obbligo di dotarsi della licenza edilizia per procedere a nuove edificazioni.
Per i medesimi motivi sono irrilevanti i dati della visura storica da cui risulta che l’unità immobiliare alla data dell’8 gennaio 1990 aveva consistenza di 2.5 vani, e cioè di 2 vani più la veranda in oggetto, come pure la nota del Genio Civile del 28 gennaio 2013.
5.3.- Ciò detto con riguardo alla data di realizzazione dell’abuso, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico. In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20 ottobre 2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) “Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili”.
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una “pertinenza” in senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.
6.- L’appellante lamenta la violazione delle regole sulla partecipazione perché è mancato l’avviso di avvio del procedimento.
La censura è infondata.
6.1.- L’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, della legge 7 agosto 1990 n. 241, come è noto, dispone che il mancato avviso di avvio del procedimento non comporta l’illegittimità del provvedimento conclusivo ove l’Amministrazione sia in grado di comprovare, in giudizio, che il provvedimento non poteva avere un contenuto dispositivo diverso.
Nel caso in esame, alla luce di quanto detto sopra, le risultanze documentali addotte dall’appellante (per dimostrare che la veranda è presente sin dal 1929) non sarebbero state idonee ad incidere sul contenuto del provvedimento finale sulla scorta di una prognosi ex ante, dal momento che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo.
7.- Anche le ulteriori censure di illegittimità, per difetto di motivazione e violazione del legittimo affidamento, vanno respinte.
7.1.- Il Collegio fa proprie le considerazioni da ultimo espresse dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2017, relativa proprio alla ipotesi di edificazione avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante, in cui l’amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria. Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può – al contrario – rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21 marzo 2017, n. 1267; Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11 luglio 2014, n. 3568; Sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955): quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione – a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore – abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21 marzo 2017, n. 1267; Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060, cit.).
8.- Da ultimo, l’intimazione del termine di trenta giorni per la demolizione – in luogo dei novanta previsti dal comma 3 dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 – non ha alcuna ripercussione sulla validità dell’ordine, tale profilo incidendo unicamente sull’effetto di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune (procrastinandone la realizzazione).
9.- La liquidazione delle spese del secondo grado di lite segue la soccombenza secondo la regola generale.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 5461 del 2016, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio in favore del Comune di Napoli, che si liquidano in Euro 2.500,00, oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 settembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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