Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|6 marzo 2024| n. 5986.

Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

La causa petendi nelle azioni a difesa del diritto di proprietà e degli altri diritti reali di godimento, individuandosi questi solo in base al loro contenuto (cioè, il bene che ne costituisce l’oggetto), si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione e altro), la cui deduzione, necessaria ai fini della prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda; conseguentemente, l’allegazione, nel corso del giudizio o in appello, di un titolo di acquisto diverso, quale l’usucapione, rispetto a quello inizialmente dedotto, non importa mutamento della domanda e della situazione giuridica con essa fatta valere.

Sentenza|6 marzo 2024| n. 5986. Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

Data udienza 27 febbraio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: PROPRIETÀ – Azioni di difesa – Allegazione di un diverso titolo di acquisto – Mutamento della domanda – Esclusione. (Cc, articolo 1146)

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere

Dott. OLIVA Stefano – Rel. Consigliere

Dott. TRAPUZZANO Cesare – Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso 1552 – 2022 proposto da:

Go. IMMOBILIARE Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. SA.CA. e domiciliata presso la cancelleria della Corte di Cassazione

– ricorrente –

contro

Fi.Al. e Ca.St., elettivamente domiciliati in ROMA, nello studio della dott.ssa ME.CO., rappresentata e difesa dagli avv.ti AL.TO. CO. e EU.AN.C.

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3209/2021 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/11/2021;

udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere Oliva;

udito il P.G., nella persona del dott. ROBERTO MUCCI;

uditi l’avv. Sara Calzi per la parte ricorrente e l’avv. Eu.An.Co. per la parte controricorrente

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FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 1.6.2012 Go. Immobiliare Srl evocava in giudizio Fi.Al. e Ca.St. innanzi il Tribunale di Milano, invocandone la condanna a restituire nella disponibilità della società attrice la porzione del lastrico solare di copertura del locale di proprietà della predetta, che i convenuti avevano occupato, nonché al risarcimento del danno derivante dalla denunziata occupazione.

Si costituivano in giudizio i convenuti, resistendo alla domanda e chiedendo di estendere il contraddittorio nei confronti di Mo.An., Mo.Gl. e Mo.So., eredi di Zo.Em., a sua volta figlia ed erede di Zo.Re., dante causa dei convenuti, per essere da loro garantiti dal pregiudizio derivante dall’eventuale accoglimento della domanda attorea. Invocavano inoltre, in via riconvenzionale, l’accertamento dell’usucapione del diritto di proprietà del lastrico contestato, ovvero in subordine del diritto di uso esclusivo dello stesso.

In esito alla chiamata in causa si costituivano i terzi, resistendo alla domanda spiegata nei loro riguardi. Nel corso del giudizio, poi, tra gli stessi ed i convenuti interveniva una transazione.

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Con sentenza n. 8176/2019 il Tribunale, preso atto della transazione di cui anzidetto, dichiarava estinto il rapporto processuale tra convenuti e terzi chiamati; rigettava invece la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale, dichiarando l’acquisto per usucapione, in favore del convenuto Ca.St., della proprietà della porzione di lastrico oggetto di causa.

Con la sentenza impugnata, n. 3209/2021, la Corte di Appello di Milano rigettava il gravame proposto dall’odierna ricorrente avverso la decisione di prime cure, confermandola.

Propone ricorso per la cassazione della sentenza di primo grado Go. Immobiliare Srl, affidandosi a sei motivi.

Resistono con controricorso Ca.St. e Fi.Al..

Con istanza datata 28.6.2023 la società ricorrente ha invocato la sollecita fissazione dell’udienza di trattazione del ricorso.

Ambo le parti hanno depositato memoria.

Sono comparsi all’udienza pubblica del 27.2.2024 l’avv. Sara Calzi per la parte ricorrente, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, l’avv. Eugenio Antonio Correale per la parte controricorrente, che ha concluso per il rigetto, ed il P.G., che ha concluso per l’inammissibilità.

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RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto della non usucapibilità del lastrico, alla luce della sua peculiare conformazione e funzione. In particolare, su di esso si aprirebbero le uniche aperture, realizzate mediante finestre su strutture sopraelevate rispetto al piano del lastrico, atte a garantire luce ed areazione del sottostante locale di proprietà della società ricorrente, che tuttavia i convenuti, odierni controricorrenti, avrebbero ostruito con numerose piante, in guisa tale da impedire il passaggio di aria, rendendo impossibile l’apertura delle finestre, e limitare gravemente il passaggio della luce. Ad avviso della società ricorrente, poiché le strutture esistenti sul lastrico di cui è causa assolverebbero alla funzione di dare aria e luce al sottostante locale di sua proprietà, altrimenti privo di qualsiasi apertura, esse non potrebbero essere oggetto di usucapione, poiché la piena esplicazione del diritto di proprietà, derivante dal riconoscimento del predetto acquisto a titolo originario in favore del Ca.St., renderebbe impossibile assicurare la funzione di areazione e fonte di luce a vantaggio del fondo sottostante.

Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

La censura è infondata.

Va premesso che la deduzione del vizio di omesso esame è preclusa, ope legis, dalla presenza di una ipotesi di cd. doppia conforme.

Ciò nondimeno, anche riqualificando la censura in termini di violazione di legge, è necessario affermare che il diritto di proprietà acquisito a titolo originario, mediante l’istituto dell’usucapione, è soggetto, come qualsiasi diritto di proprietà, da un lato alle limitazioni derivanti dalla eventuale insistenza, sul bene usucapito, di diritti reali a favore di terzi, e dall’altro al limite generale del divieto degli atti emulativi. L’assicurazione della funzione di fonte di aria e luce assolta dalle finestre oggetto del motivo in esame non è dunque impedita, né limitata, dal fatto che la proprietà del lastrico sia stata usucapita dal Ca.St., poiché l’odierna ricorrente conserva il diritto di far accertare l’esistenza di una eventuale servitù a favore del fondo sottostante, di sua proprietà, ed a carico di quello usucapito dal predetto Ca.St., ovvero di chiederne la costituzione in via coattiva mediante la dimostrazione della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, nonché l’ulteriore diritto di agire per far cessare eventuale condotte emulative poste in essere dal proprietario del lastrico a suo danno.

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Né può sostenersi che l’usucapione possa essere impedita in funzione della peculiare conformazione del bene che ne forma oggetto. L’usucapione, infatti, come qualsiasi altro modo di acquisto della proprietà, incide soltanto sul regime giuridico del bene, ma non è idonea, in sé, a modificarne la concreta e specifica consistenza. Il cespite usucapito, in altri termini, continua a rimanere uguale a sé stesso, poiché l’usucapione non incide sulle caratteristiche ontologiche del cespite, ma regola soltanto il suo statuto proprietario.

Non sussiste, dunque, né incompatibilità tra l’esistenza di aperture di aria e luce sul lastrico ed il riconoscimento della sua usucapione in favore del Ca.St., né preclusione, derivante dal predetto riconoscimento, delle azioni che la società ricorrente può esperire a tutela della sua proprietà, sottostante al lastrico oggetto di causa.

Con il secondo motivo, la società ricorrente denunzia l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe considerato l’esistenza della dichiarazione a contenuto confessorio, asseritamente contenuta nell’atto di vendita con il quale gli odierni controricorrenti avevano acquistato il cespite di loro proprietà, contiguo al lastrico oggetto di causa; né avrebbe adeguatamente valutato il contesto in cui si collocherebbe la missiva del dicembre 1978, con la quale la società odierna ricorrente aveva diffidato il dante causa degli odierni controricorrenti ad eliminare i vasi posti sul lastrico de quo; né avrebbe, infine, apprezzato correttamente il contenuto del contratto preliminare a suo tempo intercorso tra gli eredi Zo. e gli odierni controricorrenti, nel quale alcuna menzione del lastrico solare in questione veniva fatta.

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La censura è inammissibile, sia perché formulata in termini di omesso esame, in presenza di una ipotesi di cd. doppia conforme, sia perché in realtà non si lamenta la mancata considerazione di un fatto storico, ma piuttosto l’omessa, o scorretta, valutazione di diversi elementi di prova. Sul punto, va ribadito, da un lato, che l’omesso esame denunziabile in sede di legittimità deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, “… dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016, Rv. 641174; cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2805 del 05/02/2011, Rv. 616733). Non sono quindi “fatti” nel senso indicato dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio. Mentre, dall’altro lato, va considerato che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

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Con il terzo motivo, la società ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe considerato che il Ca.St. aveva asserito di aver avuto il godimento esclusivo, pubblico ed indisturbato del lastrico oggetto di causa tra il 1950 ed il 1970. La Corte distrettuale avrebbe dunque dovuto limitare la sua indagine solo al predetto periodo, ed avrebbe erroneamente affermato che l’interversione del possesso si era realizzata nel 1978; in tal modo, il giudice di merito avrebbe fondato la sua decisione su una causa petendi diversa da quella proposta dagli attori in riconvenzionale.

La censura è inammissibile, sia in relazione alla impossibilità di introdurre il vizio di omesso esame nel caso di specie, sia per carenza di specificità, poiché la società ricorrente non riporta in modo preciso i passaggi delle difese degli odierni controricorrenti dai quali si ricaverebbe l’assunto proposto con la doglianza in esame.

Inoltre, va ribadito il principio secondo cui “La causa petendi nelle azioni a difesa del diritto di proprietà e degli altri diritti reali di godimento, individuandosi questi solo in base al loro contenuto (cioè, il bene che ne costituisce l’oggetto), si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.), la cui deduzione, necessaria ai fini della prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda; conseguentemente, l’allegazione, nel corso del giudizio o in appello, di un titolo di acquisto diverso, quale l’usucapione, rispetto a quello inizialmente dedotto, non importa mutamento della domanda e della situazione giuridica con essa fatta valere” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7033 del 21/06/1995, Rv. 492998). Infatti, secondo l’insegnamento di questa Corte, “I diritti assoluti – reali o di status – si identificano in sè e non in base alla loro fonte (amplius quam semel res mea esse non potest), come invece accade per i diritti obbligatori; pertanto l’ attore può mutare il titolo – atto o fatto, derivativo o costitutivo – in base al quale chiede la tutela del diritto assoluto senza incorrere nelle preclusioni (artt. 183, 189 e 345 c.p.c.) e oneri (art. 292 c.p.c.) della modifica della causa petendi; ne’ sussiste violazione del principio della domanda (art. 112 c.p.c.) se il giudice accoglie il petitum in base ad un titolo diverso da quello invocato” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4460 del 20/05/1997, Rv. 504515; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9851 del 10/10/1997, Rv. 508713; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3749 del 15/04/1999, Rv. 525414; nonché Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15907 del 18/12/2000, Rv. 542705, la quale ultima fa riferimento al concetto di “contenuto sostanziale della domanda”).

In definitiva, dunque, “La causa petendi delle azioni a difesa della proprietà o della comproprietà, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, è lo stesso diritto vantato dall’attore e non il titolo che ne costituisce la fonte; sicché, la specificazione del modo di acquisto del diritto reale a difesa del quale si agisce non comporta, in quanto rivolta a determinare più compiutamente la causa petendi, mutamento della domanda e della situazione giuridica con essa fatta valere e non dà luogo in appello alla proposizione di una domanda nuova, preclusa dall’art. 345 c.p.c.” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5894 del 20/04/2001, Rv. 546134).

Anche in materia di diritti eterodeterminati, peraltro, il più recente orientamento di questa Corte è rivolto nella medesima direzione: si è infatti affermato che “In tema di azione per il risarcimento dei danni, nel suo nucleo immodificabile la domanda non va identificata in relazione al diritto sostanziale eventualmente indicato dalla parte e considerato alla stregua dei fatti costitutivi della fattispecie normativa (che costituisce oggetto della qualificazione del giudice), bensì esclusivamente in base al bene della vita e ai fatti storici – materiali che delineano la fattispecie concreta; ne consegue che, se i fatti materiali ritualmente allegati rimangono immutati, è compito del giudice individuare quali tra essi assumano rilevanza giuridica, in relazione alla individuazione della fattispecie normativa astratta in cui tali fatti debbono essere sussunti ed indipendentemente dal tipo di diritto indicato dalla parte” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 10049 del 29/03/2022, Rv. 664475).

Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

Ciò che rileva, ai fini della individuazione dell’oggetto della domanda, è quindi il cd. bene della vita del quale la parte invoca la tutela. Nel caso di specie, il Ca.St. e la Fi.Al. avevano chiesto, in via riconvenzionale, accertarsi l’intervenuta usucapione del lastrico di cui è causa, allegando, a fondamento di tale pretesa, la sussistenza di un possesso esclusivo ultraventennale esercitato uti dominus sul bene. L’accertamento condotto dal giudice di merito non è affatto andato oltre i termini della domanda riconvenzionale, in quanto la Corte di Appello si è limitata, del tutto correttamente, a valutare le risultanze istruttorie acquisite agli atti del giudizio di merito e a verificare se, sulla base di esse, si potesse configurare, o meno, la sussistenza dei presupposti per l’invocato acquisto della proprietà del lastrico per usucapione.

Con il quarto motivo, la società ricorrente si duole dell’omesso esame di una serie di fatti decisivi, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., costituiti, in particolare, dalle trattative intercorse tra le parti per l’acquisto del lastrico, dall’esistenza di una ipoteca costituita sullo stesso dalla odierna ricorrente, nonché dalle spese sostenute da quest’ultima per la sua manutenzione.

Anche questa censura è inammissibile, per le medesime ragioni già esposte in relazione al secondo motivo, in quanto essa nasconde, in realtà, una richiesta di revisione del giudizio di fatto e della valutazione delle prove operati dalla Corte distrettuale.

Inoltre, va considerato che l’esistenza di trattative per l’acquisto, pur costituendo un elemento di fatto significativo nell’ambito della valutazione delle rispettive condotte delle parti, e dunque del proprietario del bene, da un lato, e del soggetto che intenda usucapirlo, dall’altro lato, non implica di per sé rinuncia al diritto di far valere l’usucapione del bene che ne forma oggetto, in caso di loro fallimento, ben potendosi configurare ipotesi in cui le predette trattative, indipendentemente dal grado del loro approfondimento, siano state ispirate allo scopo di prevenire o abbreviare i tempi di una lite. In termini, cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27170 del 26/10/2018, Rv. 651019 secondo cui l’intavolazione di trattative con i titolari del diritto di proprietà ai fini dell’acquisto in via derivativa dello stesso può far presumere la c.d. volontà “attributiva” del diritto e dunque il riconoscimento dell’altruità della proprietà del bene, cosa che resta invece esclusa quando tali iniziative siano ispirate dalla diversa volontà di evitare lungaggini giudiziarie per l’accertamento dell’usucapione, ovvero di prevenire in via conciliativa la relativa lite. L’accertamento della rilevanza e della valenza delle trattative predette compete, ai fini della prova della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’usucapione, si risolve in un accertamento di fatto, devoluto al giudice di merito.

Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

Con il quinto motivo, la società ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 189 c.p.c. o in subordine il vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per omessa ammissione della prova testimoniale che la società aveva articolato nel corso del giudizio di merito.

La censura è inammissibile, sia perché non riproduce i capitoli di prova dei quali lamenta la mancata ammissione, con conseguente carenza di specificità della doglianza ed impossibilità del collegio di apprezzarne l’eventuale rilevanza e decisività, sia perché in ogni caso non considera che, alla luce dei precedenti di questa Corte già richiamati in relazione allo scrutinio della seconda censura, il giudizio sulla ammissibilità, decisività e rilevanza dei singoli mezzi di prova, come del resto il loro apprezzamento, e quindi la scelta di quelli, tra essi, ritenuti più probanti, appartiene al giudice di merito.

Peraltro, la sentenza impugnata dà atto che le istanze istruttorie alle quali si riferisce la censura in esame non erano state riproposte da Go. Immobiliare Srl in sede di precisazione delle conclusioni in prime cure, e dunque il Tribunale le aveva ritenute rinunciate (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata). La società odierna ricorrente non contesta tale circostanza, ma anzi la conferma espressamente, riconoscendo di non aver provveduto all’incombente per un mero errore materiale (cfr. pag. 26 del ricorso).

La statuizione del giudice di merito, inoltre, è del tutto conforme all’insegnamento di questa Corte, poiché va ribadito che “Nel caso in cui il giudice di primo grado non accolga alcune richieste istruttorie, la parte che le ha formulate ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello, neppure ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c. (testo previgente alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012), in quanto il giudizio d’indispensabilità, operato dal giudice del gravame, riguarda le nuove prove e non quelle dichiarate inammissibili o tacitamente rinunciate” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15029 del 31/05/2019, Rv. 654190; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11752 del 15/05/2018, Rv. 648705; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5741 del 27/02/2019, Rv. 652770). La sola eccezione alla presunzione di rinuncia insita nella mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, delle istanze istruttorie non ammesse nel corso del giudizio, è costituita dal caso in cui “… dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33103 del 10/11/2021, Rv. 662750). In tale eventualità, tuttavia, la parte che ricorra in cassazione avverso la statuizione del giudice di merito, ritenendola non coerente con il principio da ultimo richiamato, è onerata di riproporre puntualmente, nel motivo di censura, sia le conclusioni rassegnate nel giudizio di merito, sia le istanze non ammesse, al fine di consentire al collegio la verifica della sussistenza della connessione necessaria tra queste ultime e le domande proposte, e di poter apprezzare la sussistenza della volontà inequivoca di insistere sulla richiesta di prova. Nel caso di specie, tale onere non è stato totalmente adempiuto, poiché la società ricorrente ha riprodotto le conclusioni rassegnate in prime cure, nelle quali si faceva genericamente riferimento a tutte le richieste precedentemente formulate, ma non i capitoli di prova (riprodotti, questi ultimi, parzialmente soltanto a pag. 30 del ricorso, ma in relazione al contenuto del sesto ed ultimo motivo di impugnazione, per la cui trattazione si rinvia infra).

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Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico – argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Infine, con il sesto ed ultimo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1146 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato l’elemento dell’animus possidendi in capo agli eredi Zo., senza considerare che il possesso esercitato dal loro remoto dante causa sul lastrico di cui è causa si era interrotto con la sua morte e non si era trasferito agli eredi, in assenza di prova, da parte di questi ultimi, di aver proseguito nella medesima relazione con la res già propria del de cuius.

La censura è infondata.

La Corte di Appello, sul punto, ha ritenuto che la prova del fatto che gli eredi dello Zo. abbiano continuato a possedere il lastrico di cui è causa, in termini analoghi a quello del loro dante causa, si ricava dalla circostanza che l’esistenza della situazione di possesso del bene è stata espressamente prevista, e disciplinata, da apposita clausola contenuta nel contratto di vendita dal quale gli odierni controricorrenti traggono il loro dritto. Con detta clausola, secondo il giudice di merito, gli eredi Zo. avrebbero implicitamente confermato, ai loro aventi causa, la sussistenza dei presupposti – possesso pacifico, in buona fede, ininterrotto, pubblico ed ultraventennale – per l’usucapione del lastrico di cui è causa (cfr. pag. 16 della sentenza impugnata). Inoltre, la Corte territoriale ha anche evidenziato che “… sia la successione nel possesso fra Mo.Re. e Zo.Em. che l’accessione di Ca.St. hanno riguardato una situazione di possesso già esercitato per il tempo utile ad usucapirlo, di talché appaiono irrilevanti le dedotte diverse manifestazioni di volontà asserite (e genericamente) tutte intervenute successivamente al 1999, da parte sia della moglie che della figlia di Zo.Re., che hanno continuato a possedere un bene in relazione al quale era già maturato il termine per la declaratoria di intervenuto acquisto per usucapione” (cfr. pag. 17 della sentenza). La Corte distrettuale, dunque, ha esaminato anche le circostanze alle quali si riferisce il capitolato istruttorio riportato dalla società ricorrente a pag. 30 del ricorso ed ha considerato che le circostanze di fatto alle quali esso faceva riferimento – tutte evidentemente successive alla morte di Zo.Re. – fossero irrilevanti ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della invocata usucapione, essendosi quest’ultima già maturata in epoca anteriore al suindicato decesso.

Trattasi di valutazione di fatto, non implausibile, alla quale la parte ricorrente contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

Proprietà le azioni a difesa ed il mutamento della domanda

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 27 febbraio 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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