Corte di Cassazione, penale, Sentenza|29 aprile 2021| n. 16346.
Per la punibilità della condotta di aver dato fuoco a un cumulo di rifiuti, anche pericolosi, come flaconi di plastica, contenitori di prodotti chimici ed altri residui di attività edilizia ai sensi del reato di combustione illecita di rifiuti; di cui all’articolo 256-bis del Dlgs n. 152 del 2006, cd Codice dell’Ambiente, che si configura con la condotta di appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata, non si richiede, per l’integrazione del reato, la dimostrazione del danno all’ambiente e del pericolo per la pubblica incolumità, essendo una fattispecie di reato di pericolo concreto, per la quale non rileva l’evento dannoso del danno all’ambiente, oltre a non richiedersi la concretizzazione del pericolo di incendio.
Sentenza|29 aprile 2021| n. 16346
Data udienza 11 gennaio 2021
Integrale
Tag – parola chiave: Ambiente – Tutela – Rifiuti – Art. 256 bis D.Lgs 152 del 2006 – Combustione illecita di rifiuti – Incendio di rifiuti pericolosi – Differenze
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca – Presidente
Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere
Dott. GAI Emanuela – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
Dott. ANDRONIO A. M. – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 18/06/2020 della Corte d’Appello di Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Alessandro Maria Andronio;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Molino Pietro, ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18 giugno 2020, la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Livorno del 9 marzo 2018, con la quale l’imputato era stato condannato, in ordine al reato di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256-bis per aver appiccato il fuoco ad un cumulo di rifiuti, anche di tipo pericoloso – quali flaconi di plastica, contenitori di prodotti chimici ed altri residui di attivita’ edilizia – depositati in maniera incontrollata sul fondo di sua proprieta’.
2. Avverso la sentenza l’imputato, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si deduce il vizio di motivazione relativo all’assenza di una valutazione autonoma circa la credibilita’ soggettiva del testimone (OMISSIS), sul rilievo che – posta la centralita’ delle sue dichiarazioni nella decisione di condanna – sarebbe stato opportuno un rinnovo dell’istruttoria dibattimentale affinche’ fosse vagliata, in modo rigoroso, la credibilita’ “del dichiarante, soprattutto in virtu’ dei forti contrasti sorti negli anni con l’imputato, suscettibili di minare l’attendibilita’ della testimonianza.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano l’erronea applicazione della legge penale, nonche’ il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui il giudice avrebbe pronunciato sentenza di condanna sulla base dell’unica deposizione del testimone, senza suffragare la responsabilita’ dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, violando l’articolo 530 c.p.p., comma 2 e articolo 533 c.p.p., comma 1.
2.3. In terzo luogo, si deduce l’erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256-bis sul rilievo che il giudice avrebbe erroneamente qualificato la condotta dell’imputato, la quale non avrebbe integrato il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui alla citata disposizione, quanto invece il delitto di incendio, ex articolo 423 c.p.; e cio’, perche’ non si sarebbe trattato di un abbruciamento di rifiuti pericolosi abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata, bensi’ di materiale prevalentemente legnoso, non nocivo per l’ambiente.
2.4. Con un quarto motivo di doglianza, si censurano l’inosservanza dell’articolo 131-bis c.p.p., ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte non avrebbe accolto la richiesta di applicazione della causa di non punibilita’, nonostante il rispetto del limite massimo dei cinque anni previsto dalla norma in esame, la particolare tenuita’ del fatto – sul rilievo che il fuoco era di modeste dimensioni e riguardava prevalentemente materiale naturale – e l’incensuratezza dell’imputato.
2.5. Con un quinto motivo di ricorso, si lamenta l’erronea applicazione dell’articolo 175 c.p., in relazione al diniego del beneficio della non menzione, poiche’ il giudice non avrebbe considerato tutti gli elementi necessari alla concessione dello stesso, ossia l’incensuratezza, l’eta’ dell’imputato, la non abitualita’ e la particolare tenuita’ del fatto, giustificando il diniego esclusivamente in relazione alla rilevanza del bene tutelato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza – con cui si lamenta la mancanza di una autonoma valutazione della credibilita’ soggettiva del testimone – e’ inammissibile perche’ basato su una sostanziale riproposizione di rilievi di merito gia’ esaminati e motivatamente disattesi dal giudice di secondo grado.
La sentenza impugnata risulta, sul punto, adeguatamente motivata, laddove la Corte ha specificato che la deposizione resa all’esito dell’accertamento della polizia giudiziaria – realizzatosi a seguito della segnalazione del testimone – ha ricevuto, in quella sede, una oggettiva conferma, tanto da non ritenere esistente alcuna ragione valida per procedere ad un nuovo esame, a fronte di una ricostruzione alternativa dei fatti del tutto congetturale e inverosimile da parte della difesa.
1.2. Il secondo motivo di ricorso – sostanzialmente riferito al mancato raggiungimento della prova della responsabilita’ penale dell’imputato – e’ inammissibile, perche’ articolato in fatto, attraverso la riproposizione degli stessi argomenti contenuti nell’atto di appello, in mancanza di critiche specifiche di legittimita’ alla decisione impugnata, richiedendosi alla Corte di cassazione una nuova valutazione del fatto.
Va ribadito, sul punto, che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimita’ la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita’ esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 11/02/2021, Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482). E nel ricorso per cassazione non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicita’, dalla sua contraddittorieta’; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che riguardano la persuasivita’, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualita’, la stessa illogicita’ quando non manifesta, cosi’ come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilita’, della credibilita’, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (ex plurimis, Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
Tanto premesso in termini generali, nel caso di specie la sentenza della Corte d’appello e’ adeguatamente motivata relativamente all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato, poiche’ basata, oltre che sulle dichiarazioni del testimone, anche su elementi palesati nel verbale di sopralluogo e nei rilievi fotografici, da cui si evincono con chiarezza le dimensioni del cumulo di rifiuti e la loro natura, trattandosi, oltre che di legna, anche di rifiuti pericolosi, quali materiali di plastica e cera.
1.3. Il terzo motivo – riferito essenzialmente all’erronea qualificazione della condotta dell’imputato che sarebbe da ritenersi integrativa, semmai, del delitto di incendio – e’ parimenti inammissibile, perche’ si fonda sulla mera riproposizione di doglianze di merito gia’ esaminate e motivatamente disattese dal giudice di secondo grado.
Occorre, preliminarmente, richiamare l’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimita’, da cui il collegio non intende discostarsi, secondo il quale il reato di combustione illecita di rifiuti; di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256-bis si configura con l’appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesti, per l’integrazione del reato, la dimostrazione del danno all’ambiente e il pericolo per la pubblica incolumita’. A fronte di una disciplina originariamente incentrata su illeciti contravvenzionali, salva l’ipotesi del reato di attivita’ organizzate per il traffico illecito di rifiuti, prevista dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 260 il “nuovo” articolo 256-bis, introdotto dal Decreto Legge n. 136 del 2013, articolo 3 come convertito con modifiche nella L. n. 6 del 2014, nel medesimo D.Lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti ai commi 1, 3 e comma 4, un’ipotesi di confisca al comma 5, ed un illecito amministrativo che costituisce un limite alla rilevanza penale delle condotte suindicate al comma 6. Il comma 1 cosi’ recita: “Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata e’ punito con la reclusione da due a cinque anni”. La circostanza che il legislatore abbia introdotto l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato” e l’avere utilizzato per la la locuzione “appicca il fuoco”, senza ulteriori specificazioni, a differenza della previsione dell’articolo 424 c.p. nella quale assume significato e rilevanza penale solo se da esso “sorge il pericolo di un incendio”, costituiscono elementi sulla base dei quali si deve ritenere la fattispecie quale reato di pericolo concreto per il quale non assume rilievo l’evento dannoso del danno all’ambiente (Sez. 3, n. 17069 del 24/01/2019, Rv. 275905; Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Rv. 271359). La soluzione interpretativa appena indicata, inoltre, appare in linea anche con le indicazioni esposte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del Decreto Legge in esame, laddove si evidenzia che la previsione delle nuove fattispecie e’ stata determinata dall’inadeguatezza del (pre)vigente sistema sanzionatorio, e, in particolare, (anche) della fattispecie prevista dall’articolo 423 c.p., ad assicurare una sufficiente tutela per l’ambiente e per la salute collettiva.
Tutto cio’ premesso, la sentenza impugnata ha dato atto che il ricorrente era stato sorpreso nell’appiccare il fuoco, nel fondo di sua proprieta’, a diverso materiale (legno, falconi di plastica, contenitori di prodotti chimici, cera), oggetti certamente qualificabili in larga parte come rifiuti pericolosi ai sensi della normativa vigente; ha inoltre escluso la necessita’ di verifica del danno all’ambiente, sicche’ correttamente ha confermato l’affermazione della responsabilita’ penale dell’imputato per il reato di combustione illecita di rifiuti Decreto Legislativo n. 152 del 2006, ex articolo 256-bis non essendo pertinente al caso in esame il richiamo difensivo alla diversa ipotesi di incendio ex articolo 423 c.p..
1.4. Il quarto motivo di doglianza – con cui ci si duole della mancata applicazione della causa di non punibilita’, di cui all’articolo 131-bis c.p.p. e’ inammissibile, poiche’ anch’esso riproduttivo di rilievi di merito gia’ esaminati e motivatamente disattesi dalla Corte territoriale. La sentenza impugnata ha correttamente motivato sul punto, non rinvenendo la particolare tenuita’ dell’offesa, trattandosi, anzi, di un abbruciamento di rifiuti di tipo anche pericoloso, a fronte di mere asserzioni difensive di segno contrario.
1.5. Il quinto motivo di ricorso – riferito al diniego del beneficio della non menzione – e’ inammissibile, per analoghe ragioni.
Il provvedimento impugnato risulta, in ogni caso, adeguatamente motivato sul punto: la Corte d’appello ritiene che “la natura particolarmente sensibile del bene tutelato, l’ambiente, precluda nella specie il riconoscimento di siffatto beneficio”, riferendosi, evidentemente, alla specificita’ del fatto concreto per cui si procede, cosi’ come descritto nell’imputazione e nella sentenza, al quale e’ riconosciuta una certa gravita’, essendo state coinvolte categorie di rifiuti eterogenee, anche di tipo pericoloso.
2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, alla declaratoria dell’inammissibilita’ medesima consegue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonche’ quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Si da’ atto che, ai sensi dell’articolo 546 c.p.p., comma 2, conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 – recante “Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del Decreto Legge n. 137 del 2020” – la presente ordinanza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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