Ordinanza di demolizione quale atto dovuto e vincolato

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 5 novembre 2018, n. 6246.

La massima estrapolata:

L’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato; pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.

Sentenza 5 novembre 2018, n. 6246

Data udienza 18 ottobre 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale

Sezione Quarta

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4279 del 2017, proposto dal Signor An. Sc., rappresentato e difeso dall’avvocato Er. St. Da., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza (…);
contro
An. Ma. Zu., rappresentata e difesa dall’avvocato Pa. Ga., con domicilio eletto presso lo studio Paolo Avv. Ga. in Roma, via (…);
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Fe. Qu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Al. Pl. in Roma, via (…);
nei confronti
Regione Puglia non costituitasi in giudizio;

sul ricorso numero di registro generale 1715 del 2018, proposto dal Signor An. Sc., rappresentato e difeso dall’avvocato Er. St. Da., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Er. St. Da. in Roma, p.zza (…);
contro
Comune di (omissis) non costituitosi in giudizio;
nei confronti
An. Ma. Zu., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Pa. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Paolo Avv. Ga. in (…), via (…);
quanto al ricorso n. 4279 del 2017, per la revocazione della sentenza del Consiglio Di Stato – Sez. IV n. 02086/2017;
quanto al ricorso n. 1715 del 2018 per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Sezione Staccata di Lecce (sezione Prima)- n. 318/2018.
Visti i ricorsi e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Signora An. Ma. Zu. e del Comune di (omissis) ;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 ottobre 2018 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti l’avvocato Sa. St. Da. su delega dichiarata di Er. St. Da., Ba. Re. su delega di Pa. Ga. e Fe. Qu.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Ricorso r.g.n. 4279/2017, per la revocazione della sentenza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 2086 dell’8 maggio 2017;
1. Con la decisione impugnata per revocazione n. 2086 dell’8 maggio 2017 la Sezione ha accolto l’appello proposto dalla signora An. Ma. Zu., volto ad ottenere la riforma della sentenza del T.a.r. per la Puglia, Sede staccata di Lecce, Sezione III, n. 790 del 19 marzo 2014.
2. La complessa vicenda sottesa al giudizio sfociato nella revocanda sentenza può essere così ricostruita: con il ricorso presentato dinanzi al T.a.r. per la Puglia, Sede staccata di Lecce, la signora An. Ma. Zu. aveva chiesto l’annullamento del permesso di costruire n° 120 del 2 Aprile 2013 rilasciato dal Comune di (omissis) alla odierna parte impugnante in revocazione Signor Sc. An. ed al coniuge Ma. Bu..
3. Con la sentenza di primo grado suindicata il T.a.r. ha respinto il ricorso, in quanto la signora An. Ma. Zu. (preveniente, rispetto alla contestata sopraelevazione) aveva realizzato l’abitazione con la parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a metri 5 e ad una distanza inferiore a metri 3 dalla preesistente casa di abitazione a piano terra dei controinteressati ubicata (in virtù dell’originaria prevenzione) sul confine, sicchè i vicini controinteressati non erano tenuti nella sopraelevazione a rispettare la distanza di metri 10 da tale parete ai sensi dell’art. 9 primo comma n° 2 del D.M. 2 Aprile 1968 n° 1444.
La indicata sentenza di primo grado n. 790 del 19 marzo 2014 era stata impugnata con appello principale dalla originaria ricorrente di primo grado: con la sentenza impugnata in revocazione n. 2086 dell’8 maggio 2017 la Sezione ha accolto l’appello, rilevando il ricorrere dell’ipotesi di due pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata da cui si poteva vedere direttamente la proprietà dei signori Sc. e Bu. (e dunque proprio il caso testualmente disciplinato dall’art. 9 del DM 1444/1968) condividendo la prospettazione della predetta parte appellante che nel primo motivo di appello aveva rilevato la tassatività delle disposizioni dello stesso decreto e la loro operatività al momento del rilascio del titolo edilizio con riferimento alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici.
4. Con la impugnazione revocatoria che viene all’esame del Collegio, la odierna parte ricorrente ha impugnato la suindicata sentenza n. 2086 dell’8 maggio 2017 in quanto asseritamente affetta da errori di fatto incidenti su punti decisivi della controversia, e, dopo avere ripercorso l’iter infraprocedimentale e le principali tappe della risalente controversia giurisdizionale (pag 1-3 del ricorso in revocazione) ha dedotto che:
a) era stato obliato il contenuto analitico dell’art. 57 delle NN.TT.AA. del P.R.G. vigente nel Comune di (omissis) (ricognitivo della situazione in fatto dell’isolato interessato dal permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 e risultante dagli elaborati fotografici) che rendeva inapplicabile alla fattispecie le disposizioni dell’art. 9, comma 1, n. 2, del d.M. 1444/1968;
b) la soluzione progettuale assentita con il permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 non risultava in alcun modo penalizzante per la Sig.ra Zu. che già “subiva”, a m. 1,50 dalla propria finestra, se non l’occlusione, comunque la limitazione della visuale e, quindi, tra l’altro, come rilevato dal Giudice di prime cure, non godeva di un diritto di veduta tutelabile mercé il richiamo all’art. 907 del c.c..
5. In data 13.7.2017 la signora An. Ma. Zu. si è costituita con atto di stile chiedendo che l’impugnazione revocatoria venisse dichiarata inammissibile, o comunque infondata nel merito.
6. In data 28.3.2018 il Comune di (omissis) si è costituito depositando una memoria, e deducendo che:
a) il permesso di costruire rilasciato odierno impugnante riguardava zona ubicata in zona (omissis) (come risultava dal P.r.g.) che consentiva in caso di sopraelevazione su un immobile esistente la conservazione dei medesimi fronti dell’edificio;
il detto permesso era stato impugnato vittoriosamente dalla controinteressata e confinante signora Zu. (proprietaria di un’abitazione, al piano primo, sita in (omissis) -località (omissis), assentita con la concessione edilizia in sanatoria n. 3987/2007, mai impugnata da alcuno, e men che mai dell’odierna parte ricorrente in revocazione);
b) la sentenza di appello, che in riforma della sentenza di primo grado aveva accolto il ricorso di primo grado proposto dalla controinteressata e confinante signora Zu. era errata, in quanto:
I) si fondava sulla asserita diretta applicabilità dell’art. 9 del dM 1444/68, ritenendo che la distanza minima tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti dovesse essere di I 0 metri;
II) tale perentoria prescrizione, tuttavia, poteva operare nei termini descritti dalla sentenza in appello unicamente laddove ci si fosse trovati in assenza dello strumento specificatamente analitico e dettagliato (il Piano Regolatore Generale);
III) considerato, invece, che il comune di (omissis) si era dotato del PRG, il regolamento edilizio era recessivo rispetto alle prescrizioni contenute nel PRG medesimo (le norme del regolamento edilizio, erano unicamente destinate ad operare in funzione suppletiva laddove fosse mancata del tutto o fosse in parte carente la disciplina sulle distanze: ma così non era, nel caso di specie);
7. In data 31.3.2018 la signora An. Ma. Zu. ha depositato una memoria chiedendo che il ricorso venisse dichiarato inammissibile, ricorrendo, al più, un errore di diritto; il motivo in ordine alla originaria irregolarità della condizione della Signora Zu. era inammissibile per tardività, non avendo alcuno mai impugnato la concessione in sanatoria alla stessa rilasciata.
Per altro verso, la tesi giuridica propugnata con il ricorso per revocazione era errata: la giurisprudenza (Consiglio di Stato Sez. IV n. 4992 del 30.10.2017 Sez. IV, n. 856 del 29.2.2016) aveva a più riprese anche di recente ribadito che alla deroga alla distanza di 10 mt. contemplata dal comma 3 dell’art. 9 del d.M. 1444/1968 potesse accedersi soltanto laddove ricorresse la compresenza di tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (non potendo invece affermarsi
che le stesse integrassero prescrizioni alternative)” e, cioè, che:
a) ci si trovasse al cospetto della realizzazione contestuale di “gruppi di edifici”
e cioè di una pluralità di nuovi edifici;
b) questi nuovi edifici fossero inseriti in piani particolareggiati o in
lottizzazioni convenzionate;
c) i suddetti strumenti urbanistici esecutivi contenessero previsioni
planovolumetriche relative ad un gruppo di edifici tra i quali sarebbe dovuto essere
ricompreso quello erigendo;
Alcuna di tali condizioni si rinveniva nel caso di specie.
8. Alla camera di consiglio del 5 aprile 2018 fissata per la delibazione della istanza di sospensione della provvisoria esecutività dell’impugnata decisione la Sezione, con la ordinanza cautelare r.g.n. 1548 del 6 aprile 2018 ha accolto l’istanza di sospensiva alla stregua della considerazione per cui “rilevato che non sussiste il requisito del danno irreparabile in quanto l’ordinanza di demolizione emessa medio tempore dal comune di (omissis) ed impugnata nell’ambito del ricorso in appello r.g.n. 1715/2018 del pari chiamato in decisione alla odierna camera di consiglio è stata sospesa dalla Sezione con separata ordinanza; rilevato che può sin d’ora fissarsi la pubblica udienza di definizione del merito alla data del 18 ottobre 2018; “; nella stessa ordinanza è stata fissata la pubblica udienza di definizione del merito alla data del 18 ottobre 2018.
9. In data 7.9.2018 la signora An. Ma. Zu. ha depositato documenti relativi ai fatti di causa.
10. In data 17.9.2018 l’appellante ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo e proprie difese e facendo presente che appariva condivisibile la posizione del comune di (omissis) che, costituendosi con memoria, aveva sostenuto che “l’immobile Sc….non può attenersi alla distanza di 10 metri di distanza dall’immobile confinante, proprio per impossibilità oggettiva…in particolare, nel caso di specie…vi è stato un pregresso abbassamento delle volte del manufatto a piano terra in fase di ristrutturazione e di una sopraelevazione minima che certamente non può essere realizzata alla distanza che la Sig.ra Zu. pretende sia osservata. Tanto viene esplicitamente previsto nel citato art. 57 del P.R.G. laddove si disciplinano gli allineamenti preesistenti che abbiano un confine inferiore a mt. 5,00.”.” .
11. In data 20.9.2018 l’appellante ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo e proprie difese.
12. In data 27.9.2018 la signora An. Ma. Zu. ha depositato una memoria di replica ribadendo le proprie tesi.
13. Alla odierna pubblica udienza del 18 ottobre 2018 la causa è stata trattenuta in decisione.
Ricorso in appello r.g.n. 1715/2018 per l’annullamento della sentenza n. 318 del 22 febbraio 2018 resa dal T.a.r. per la Puglia, Sezione staccata di Lecce;
1. Con la decisione in epigrafe n. 318 del 22 febbraio 2018 il T.a.r. per la Puglia, Sede staccata di Lecce, ha respinto il ricorso, corredato da motivi aggiunti proposto dalla odierna parte appellante Signor Sc. An. volto ad ottenere l’annullamento:
a) (con il ricorso introduttivo) dell’ordinanza di demolizione n. 496 del 5.9.2017 a firma del Dirigente dell’Area funzionale n. 1 del Comune di (omissis) ;
b) (con il ricorso per motivi aggiunti) della determinazione prot. n. 4249/11 – 54201 del 21.12.2017 a firma del Dirigente dell’Area funzionale n. 1 del Comune di (omissis), avente ad oggetto “Ricorso al Consiglio di Stato in S.G. Roma contro la Signora An. Ma. Zu. e il Comune di (omissis) – Determinazioni a seguito della nota prot. 48957/2017″e della nota prot. n. 46528 dell’8.11.2017 a firma del Dirigente dell’Area funzionale n. 1 del Comune di (omissis) .
2. Il comune di (omissis) e la Signora An. Ma. Zu., si erano costituiti chiedendo la reiezione del ricorso, in quanto infondato.
3. Il Tar, con la impugnata sentenza, ha:
a) dichiarato l’improcedibilità del ricorso originario, in quanto l’atto originariamente impugnato era stato sostituito e confermato con la nota impugnata con i motivi aggiunti;
b) fatto presente che:
I) con un ricorso presentato dinanzi al T.a.r. per la Puglia, Sede staccata di Lecce, la signora An. Ma. Zu. aveva chiesto l’annullamento del permesso di costruire n° 120 del 2 Aprile 2013 rilasciato dal Comune di (omissis) alla odierna parte appellante Signor Sc. An. ed al coniuge Ma. Bu.;
II) con la sentenza di primo grado n. 790 del 19 marzo 2014 il T.a.r. aveva respinto il ricorso;
III) la indicata sentenza di primo grado n. 790 del 19 marzo 2014 era stata impugnata con appello principale dalla originaria ricorrente di primo grado e con la sentenza n. 2086 dell’8 maggio 2017 il Consiglio di Stato aveva accolto l’appello ed annullato il titolo abilitativo;
c) a questo punto, il comune aveva emesso gli atti repressivi impugnati in primo grado;
d) era ben vero che la sentenza n. 2086 dell’8 maggio 2017 del Consiglio di Stato era stata impugnata in revocazione dal Signor Sc. An. ma era altresì vero che posto che la sentenza d’appello era provvisoriamente esecutiva, doveva ritenersi che il ricorrente fosse sfornito di titolo, in quanto il permesso di costruire era stato travolto dalla suddetta pronuncia del Consiglio di Stato.
3.1. Nella seconda parte della sentenza, il T.a.r. ha scrutinato le ulteriori censure proposte con il ricorso per motivi aggiunti, e le ha respinte, deducendo che:
a) non rilevava l’ulteriore dedotta circostanza che, qualora si fosse cristallizzata la situazione determinatasi in virtù della citata sentenza del Consiglio di Stato, il Comune avrebbe dovuto assumere provvedimenti di diniego di pratiche edilizie presentate ai sensi dell’art. 57 NTA del PRG, adottando altresì provvedimenti di riesame dei precedenti titoli edilizi nel frattempo rilasciati: con riferimento alla prima censura (il citato contrasto con il citato art. 57 NTA del PRG), trattavasi di questione astratto-ipotetica, non tradottasi in alcun atto amministrativo, sicché difettava, allo stato, qualsivoglia tipo di legittimazione ad agire da parte dell’origina)rio ricorrente;
b) quanto all’adozione di provvedimenti di riesame, parimenti l’originario ricorrente doveva ritenersi privo di legittimazione sul punto, in quanto l’autotutela era attività discrezionale dell’ente, ad iniziativa officiosa, e soggetta ai limiti previsti dall’art. 21-nonies l. n. 241/90, tra i quali quello della stabilità delle decisioni, una volta che fosse decorso il termine di diciotto mesi dall’emanazione dell’atto originario;
c) del pari era infondato il secondo motivo di gravame, fondato sull’insussistenza dei presupposti per la revoca, in quanto, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n. 241/90, quest’ultima era ammissibile, ex alia, in caso di rivalutazione dell’interesse pubblico originario, e nel caso di specie, l’Amministrazione, all’esito della nota della controinteressata, aveva effettuato nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, affermando che: “… il manufatto realizzato… in violazione della distanza di 10 metri crea una intercapedine insalubre e malsana, incidendo altresì sulla idoneità del vano cucina dell’unità immobiliare della sig.ra Zu. An. Ma. ad essere utilizzato, stante la significativa riduzione di luce determinata dalla prossimità del suddetto manufatto”;
d) trattavasi di argomentazioni plausibili, fondate su ragioni di tutela della salute pubblica, su cui il sindacato del g.a. doveva ritenersi precluso;
e) nessun rilievo, infine, assumeva la mancata corresponsione dell’indennizzo, in quanto tale omissione non determinava illegittimità dell’atto di revoca, ma al più avrebbe potuto abilitare il richiedente ad agire giudizialmente in vista del suo conseguimento.
4. La originaria parte ricorrente, rimasta soccombente ha impugnato la suindicata sentenza e, dopo avere ripercorso l’iter infraprocedimentale e le principali tappe della risalente controversia giurisdizionale (pag 1-7 del ricorso in appello) ha riproposto le censure contenute nel ricorso di primo grado, attualizzandole rispetto alla motivazione della sentenza, ed in particolare ha:
I) fatto presente che era stato obliato il contenuto analitico dell’art. 57 delle NN.TT.AA. del P.R.G. vigente nel Comune di (omissis) (ricognitivo della situazioni in fatto dell’isolato interessato dal permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 e risultante dagli elaborati fotografici) che rendeva inapplicabile alla fattispecie le disposizioni dell’art. 9, comma 1, n. 2, del d.M. 1444/1968;
II) sostenuto che la soluzione progettuale assentita con il permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 non risultava in alcun modo penalizzante per la Sig.ra Zu. che già “subiva”, a m. 1,50 dalla propria finestra, se non l’occlusione, comunque la limitazione della visuale e, quindi, tra l’altro, come rilevato dal Giudice di prime cure, non godeva di un diritto di veduta tutelabile mercé il richiamo all’art. 907 del c.c..;
III) sostenuto altresì che il comune non avrebbe dovuto emettere la determinazione prot. n. 4249/11 – 54201 del 21.12.2017 di la revoca della nota prot. n. 43314 del 17.10.2017, con cui era stata comunicata la sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione n. 496/2017, in quanto non v’erano esigenze di interesse pubblico sottese alla “revisione” di un primo orientamento, “possibilista” circa il mantenimento dell’edificio per cui è causa.
5. In data 31.3.2018 la signora An. Ma. Zu. si è costituita depositando una memoria e chiedendo che il ricorso venisse respinto, in quanto l’iniziativa comunale si appalesava quale atto dovuto a fronte della sentenza n. 2086 dell’8 maggio 2017 con cui il Consiglio di Statoaveva accolto l’appello da essa proposto ed aveva annullato il titolo abilitativo rilasciato alla parte odierna appellante; il motivo in ordine alla originaria irregolarità della condizione della Signora Zu. era inammissibile per tardività, non avendo alcuno mai impugnato la concessione in sanatoria alla stessa rilasciata.
Per altro verso, la tesi giuridica propugnata con il ricorso in appello era errata: la giurisprudenza (Consiglio di Stato Sez. IV n. 4992 del 30.10.2017 Sez. IV, n. 856 del 29.2.2016) aveva a più riprese anche di i recente ribadito che alla deroga alla distanza di 10 mt. contemplata dal comma 3 dell’art. 9 del D.M. 1444/1968 potesse accedersi soltanto laddove ricorresse la compresenza di
tutte e tre le condizioni contenute nel detto comma (non potendo invece affermarsi
che le stesse integrassero prescrizioni alternative)” e, cioè, che:
a) ci si trovasse al cospetto della realizzazione contestuale di “gruppi di edifici”
e cioè di una pluralità di nuovi edifici;
b) questi nuovi edifici fossero inseriti in piani particolareggiati o in
lottizzazioni convenzionate;
c) i suddetti strumenti urbanistici esecutivi contenessero previsioni planovolumetriche relative ad un gruppo di edifici tra i quali fosse ricompreso quello erigendo;
Alcuna di tali condizioni si rinveniva nel caso di specie.
6. Alla camera di consiglio del 5 aprile 2018 fissata per la delibazione della istanza di sospensione della provvisoria esecutività dell’impugnata decisione la Sezione, con la ordinanza cautelare r.g.n. 1556/2018 ha accolto l’istanza di sospensiva, alla stregua delle seguenti considerazioni: “Rilevato che, sotto l’esclusivo profilo del periculum in mora, l’interesse dell’appellante è senz’altro prevalente tenuto conto degli effetti irreversibili che discenderebbero dalla esecuzione della demolizione, e tenuto conto che pende una impugnazione per revocazione (r.g.n. 4229/2017) avverso la sentenza cognitoria della Sezione n. 2086/2017, in esecuzione della quale è stato emesso il provvedimento impugnato in primo grado; ” nella stessa ordinanza l’udienza di definizione del merito è stata fissata alla data del 18 ottobre 2018.
7. In data 7.9.2018 la signora An. Ma. Zu. ha depositato documenti relativi ai fatti di causa.
8. In data 17.9.2018 l’appellante ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo e proprie difese.
9. In data 27.9.2018 la signora An. Ma. Zu. ha depositato una memoria puntualizzando e ribadendo e proprie difese.
10. Alla odierna pubblica udienza del 18 ottobre 2018 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Entrambi i suindicati ricorsi -sebbene rivolti ad impugnare differenti sentenze attraverso distinte tipologie di impugnazione- devono essere riuniti, in quanto all’evidenza connessi oggettivamente e soggettivamente.
1.1. Evidenti ragioni di priorità logica inducono il Collegio ad esaminare immediatamente l’impugnazione revocatoria: ed a tale proposito, si evidenzia immediatamente che il ricorso per revocazione è inammissibile.
2. Il Collegio ritiene opportuno far precedere la partita disamina delle tematiche come sopra individuate da una breve esposizione di quali siano gli orientamenti giurisprudenziali in materia: ciò costituirà utile coordinata in sede di partita disamina delle censure, e, insieme, modo per evitare di indulgere in superflue ripetizioni.
2. Sotto un profilo più generale, si rammenta che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che l’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395 n. 4 c.p.c., deve consistere in un “travisamento di fatto costitutivo di “quell’abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa.” (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 07 settembre 2006, n. 5196).
La ratio di tale condivisibile orientamento riposa nella necessità di evitare che detta forma di impugnazione si trasformi (soprattutto, ovviamente, il problema si pone con riferimento alle sentenze pronunciate nell’ultimo grado di giudizio di merito, ovvero, per ciò che attiene ai procedimenti innanzi al giudice ordinario, in sede di legittimità ) in una forma di gravame idonea a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale (ex multis Cassazione civile, sez. I, 19 giugno 2007, n. 14267).
Il rimedio in esame non è pertanto praticabile, allorchè incida su un aspetto della controversia che ha formato oggetto di valutazione giudiziale (tra le tante, Cassazione civile, sez. II, 22 giugno 2007, n. 14608) e men che meno allorchè l’errore segnalato verta nella interpretazione od applicazione di norme giuridiche.
Il Consiglio di Stato ha in passato condiviso pienamente tale orientamento ed ha affermato che “ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., sono soggette a revocazione per errore di fatto le sentenze pronunciate in grado di appello, quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” (Consiglio Stato, sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3721, Consiglio Stato, sez. VI, 05 giugno 2006, n. 3343, Consiglio Stato, sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2278).
Inoltre, è stato chiarito dalla giurisprudenza che “l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revocazione. Il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto.”
(Cassazione civile, sez. I, 29 novembre 2006, n. 25376).
2.1. Inoltre, si è condivisibilmente affermato, in passato “che rileva come errore di fatto ex art. 395 n. 4, c.p.c. l’omessa pronuncia su un profilo della controversia devoluta in appello, qualora la ragione di siffatta omissione risulti causalmente riconducibile alla mancata percezione dell’esistenza e del contenuto di atti processuali.”(Consiglio Stato, sez. V, 17 settembre 2009, n. 5552),con ciò definitivamente superandosi il più restrittivo, pregresso, orientamento, secondo cui
l’omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, pertanto, non è deducibile in sede di revocazione. (Consiglio Stato, sez. V, 20 ottobre 2004, n. 6865).
Si è detto poi, che “l’omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte è riconducibile all’errore di fatto idoneo a fondare il giudizio revocatorio ogni qualvolta esso risulti evidente dalla lettura della sentenza e sia chiaro che in nessun modo il giudice abbia preso in esame la censura medesima.”(Consiglio Stato, sez. VI, 04 settembre 2007, n. 4629,Consiglio Stato, sez. V, 19 marzo 2007, n. 1300).
Al condivisibile fine di evitare la proposizione di azioni revocatorie certamente inutili, quanto a tale aspetto si è puntualizzato però ” che il vizio di omessa pronuncia su un vizio deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile.”(Consiglio Stato, sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).
Tale condivisibile affermazione, che costituisce jus receptum, costituisce corollario di quel più ampio principio che privilegia la “decisività ” dell’errore, secondo il quale “l’errore di fatto revocatorio (così come per il motivo di revocazione previsto al n. 4 dell’art. 395) deve essere “decisivo”, nel senso che se non vi fosse stato la decisione sarebbe stata diversa.”
(Consiglio Stato, sez. III, 29 novembre 2010, n. 4466).
E’ necessario quindi – in tema di revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c, – che l’errore di fatto rappresenti elemento decisivo, rilevante ed ineliminabile ai fini di pervenire ad una decisione differente rispetto a quella che si sarebbe dovuta (asseritamente) adottare. Allorché la giurisprudenza parla di nesso causale tra errore e decisione, si riferisce non alla causalità storica, ma ad un nesso logico-giuridico, nel senso che la diversa soluzione della lite deve imporsi come inevitabile sul piano, appunto, della logica e del diritto, non degli accadimenti concreti. Non si tratta, in altri termini, di stabilire come si sarebbe, nei fatti, determinato il giudice se non avesse commesso l’errore; si tratta, invece, di stabilire quale sarebbe dovuta essere, per necessità logico-giuridica, la decisione una volta emendatene le premesse dall’errore. L’errore di fatto ex art. 395, n. 4, cit. deve essere essenziale e decisivo (nel senso che tra l’erronea percezione del giudice e la pronuncia da lui emessa deve sussistere un rapporto causale tale che senza l’errore la pronuncia medesima sarebbe stata diversa).
La pacifica giurisprudenza di legittimità, inoltre, perimetra il suddetto rimedio straordinario evidenziando che “l’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c., idoneo a costituire motivo di revocazione, si configura come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività ; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico.” (Cassazione civile, sez. lav., 03 aprile 2009, n. 8180).
2.2. I principi sinora rassegnati sono stati a più riprese ribaditi dalla più recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (ex aliis Consiglio di Stato sez. VI 14/11/2014 n. 5599, ma anche Consiglio di Stato sez. VI 22/09/2014 n. 4774).
In particolare, nell’ultima decisione della Sezione citata (n. 4774/2014) è stato affermato il seguente principio di diritto: “L’art. 106 cod. proc. amm. stabilisce che “le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile”. In particolare, avendo riguardo a quanto rileva in questa sede, l’art. 395, comma 1, numero 4, cod. proc. civ.dispone che la revocazione è ammissibile “se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”, specificando che “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
3.Ciò premesso, sotto il profilo di impostazione generale, ritiene il Collegio (prima di richiamare i “passaggi” della motivazione della sentenza dai quali l’odierna parte impugnante ha tratto il convincimento della sussistenza di errori revocatori) di anticipare il proprio convincimento secondo cui il proposto ricorso per revocazione è inammissibile, in quanto:
a) tutti i profili segnalati costituirono “punto controverso”;
b) tutte le indicazioni motivazionali che ad avviso dell’impugnate integrano “errore di fatto revocatorio” integrano invece questione giuridica vagliata dalla Sezione, il che, al più, potrebbe integrare errore di diritto, incensurabile in questa sede.
3.1. Più in dettaglio, il nucleo centrale dell”impugnazione revocatoria riposerebbe nella circostanza che la Sezione non avrebbe approfonditamente vagliato:
I) la circostanza che l’art. 57 delle NN.TT.AA. del P.R.G. vigente nel comune di (omissis), in riferimento agli “isolati degli insediamenti costieri di (omissis), quasi completamente edificati, costituiti prevalentemente da tipologie marginali continui a filo stradale con destinazioni residenziali”, prevede, al comma 5, che “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” è derogabile nel caso di “nuove costruzioni in confine con lotti edificati dove la distanza tra costruzione esistente e relativo confine risulti inferiore a m. 5”;
II) il dato di fatto (documentato dalla odierna parte ricorrente in revocazione mediante il deposito di elaborati fotografici già in primo grado) dai quali era dato desumere la circostanza (peraltro, giammai negata dalla Sig.ra Zu. ) per cui l’isolato interessato dal permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 si configurava quale agglomerato “compatto” di fabbricati costruiti a filo stradale ed in aderenza sui confini laterali e posteriori dei lotti cui pertenevano.
3.2. Si osserva in proposito che:
a) la sentenza censurata in revocazione, al capo 12.6. così ha statuito: “L’intervento assentito con permesso di costruire n. 120 del 2 aprile 2013 consiste nella soprelevazione di un primo e secondo piano su un fabbricato preesistente posto sul confine. Tali opere sono da considerarsi pertanto come una “nuova costruzione” ai fini del rispetto della distanza di 10 metri imposta dal DM n. 1444/1969, dall’art. 5 del Regolamento edilizio e dall’art. 57 delle NTA al PRG”;
b) la censura secondo cui sarebbe stato obliato il contenuto dell’art. 57 delle NN.TT.AA. del P.R.G. vigente nel comune di (omissis) collide, quindi, con le resultanze evincibili dalla motivazione della sentenza;
c) nel prosieguo della motivazione, l’impugnata sentenza ha poi così espressamente disposto (capo 12.9): “può dunque essere condivisa la prospettazione di parte appellante che nel primo motivo di appello ha rilevato la tassatività delle disposizioni dello stesso decreto e la loro operatività al momento del rilascio del titolo edilizio con riferimento alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici”;
d) l’affermazione in ultimo riportata, si “salda” a quella, enunciata nell’incipit della motivazione (capo 12.2.) secondo cui le disposizioni “di cui all’art. 9 del DM 2 aprile 1968 n. 1444, recante “limiti di distanza tra i fabbricati”, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esse successivi, si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti”.
3.3. Resta quindi smentita la tesi secondo la quale la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di un dato centrale (le N.t.a. al P.r.g. comunale): semmai, è da rilevare che la sentenza ha tenuto conto del contenuto dell’art. 57 delle NN.TT.AA. del P.R.G. vigente nel Comune di (omissis) (in tesi ricognitivo della situazioni in fatto dell’isolato interessato dal permesso di costruire n. 120 del 2.4.2012 e risultante dagli elaborati fotografici) ed ha ritenuto che:
I) quest’ultima, norma, interpretata nel senso preteso dalla parte odierna impugnante collidesse con le disposizioni di cui all’art. 9 del DM 2 aprile 1968 n. 1444, recante “limiti di distanza tra i fabbricati”;
II) non fosse ravvisabile – né rilevasse- alcuna condizione di disparità di trattamento, trattandosi di disposizioni inderogabili e cogenti (cfr sul punto Consiglio di Stato, sez. IV, 14/09/2017, n. 4337 Cassazione civile, sez. II, 02/03/2018, n. 5017 “La distanza inderogabile che deve sussistere tra edifici antistanti prevista dal d.m. 1444/1968 non riguarda edifici preesistenti
La disposizione dell’articolo 9 n. 2 del Dm n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, riguarda “nuovi edifici” intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse; del resto, ai sensi dell’articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942 n. 1150, “i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (quelli di cui al successivo Dm n. 1444 del 1968), sono imposti “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”. Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica.”).
3.2. Se per quanto si è prima rilevato si è al cospetto di una interpretazione giuridica (che peraltro questo Collegio condivide appieno) certamente insuscettibile di essere censurata in revocazione, ad analoghe conclusioni deve giungersi con riferimento agli altri profili, in quanto:
3.3.1. Anche in questo caso,:
a) non c’è alcun errore di fatto;
b) tutte le censure sono state esaminate;
c) la Sezione è pervenuta ad una tesi giuridica certo non conforme a quella propugnata dall’odierno impugnante, ma incensurabile in questa sede.
3.4. Non miglior sorte, infatti meritano le altre censure revocatorie, in quanto:
a) la problematica di cui all’applicabilità dell’art. dell’art 21 octies, co. 2, legge n. 241/1990è stata approfonditamente vagliata: la sentenza impugnata ha affermato che “il procedimento in questione ha natura vincolata” e che “la mancata partecipazione al procedimento del soggetto interessato non avrebbe potuto apportare alcun contributo utile a modificare il contenuto dispositivo della comunicazione.”;
b) si è nel campo, quindi di una valutazione giuridica, opinabile ovviamente, ma non certo attinta da errori di fatto: per altro verso, l’odierno impugnante non prospettava elementi fattuali difformi da quelli rappresentati dall’Amministrazione, (mai neppure esternati nell’odierno procedimento giurisdizionale, per il vero ma) complesse tesi giuridiche: la deduzione contenuta nella impugnata sentenza della Sezione, quindi, non solo è immune da qualsivoglia errore fattuale, ma si appalesa anche esatta, una volta che è stata smentita la conducenza ed esattezza degli argomenti giuridici propugnati dall’originario ricorrente di primo grado.
c)per altro verso, seppure sinteticamente è stata presa in esame la situazione “pregressa” del fondo, in quanto la impugnata sentenza ha fatto riferimento al capo 12.9 alla giurisprudenza che considera ininfluenti le situazioni preesistenti e l’asserito abuso in passato perpetrato dalla Signora Zu. (così, testualmente, la sentenza impugnata: “In sostanza, può dunque essere condivisa la prospettazione di parte appellante che nel primo motivo di appello ha rilevato la tassatività delle disposizioni dello stesso decreto e la loro operatività al momento del rilascio del titolo edilizio con riferimento alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici -cfr. Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2006, n. 7563.”)
3.5. Il riunito ricorso per revocazione va quindi dichiarato inammissibile.
4. Venendo adesso all’esame del riunito appello, proposto avverso la sentenza del T.a.r. che ha riconosciuto legittima l’ordinanza di demolizione emessa dal comune, ritiene il Collegio che l’appello sia infondato, e vada respinto, per le assorbenti considerazioni di cui alla motivazione che segue.
4.1. Esso – contrariamente a quanto sostenuto dalla parte privata appellata- è ammissibile, in quanto ivi sono enucleate in termini chiari e specifici censure tese a criticare la sentenza impugnata e, insieme, volte a chiarire la supposta illegittimità dell’azione amministrativa intrapresa dall’amministrazione comunale: la circostanza che gran parte delle argomentazioni giuridiche sottese alle censure proposte integri una rivisitazione di argomenti che hanno costituito oggetto della sentenza di merito impugnata con il riunito ricorso per revocazione non ridonda sull’ammissibilità dell’appello, ma semmai depone per la sua infondatezza (ed infatti il Collegio ritiene che il detto appello non sia persuasivo come meglio si illustrerà di seguito).
4.2. Passando adesso all’esame delle censure contenute nel riunito appello, tutte le considerazioni fondate su una asserita carenza di potere del comune, ovvero su una “semplice” inopportunità della emissione dell’ordinanza di demolizione a cagione della circostanza che la sentenza n. 2086 dell’8 maggio 2017 del Consiglio di Stato era stata impugnata in revocazione dal Signor Sc. An. sono palesemente infondate, in quanto:
a) la sentenza d’appello (sebbene impugnata ex art. 395 del cpa) era provvisoriamente esecutiva, al momento in cui il comune adottò il provvedimento impugnato;
b) da essa si evince che il ricorrente fosse sfornito di titolo in quanto il p.d.c. rilasciatogli era stato travolto dalla suddetta pronuncia del Consiglio di Stato;
c) l’ordinanza di demolizione integrava atto dovuto rappresentando modalità attraverso la quale si ottemperava alla suddetta sentenza.
4.2.1. La censura appare quindi infondata, e comunque la circostanza che il riunito ricorso per revocazione sia stato dichiarato inammissibile, ai sensi delle argomentazioni prima esposte, depone vieppiù per la non accoglibilità di tale parte dell’appello.
5. Le ulteriori censure “di merito” che di seguito si esaminano, cercano abilmente di sovvertire il costante orientamento della giurisprudenza – dal quale, invece, il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi- secondo cui “l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio”. (tra le tante, in passato Consiglio di Stato sez. VI 06 settembre 2017 n. 4243 condivisa da avveduta giurisprudenza di primo grado, si veda T.A.R. Napoli, (Campania), sez. VII, 07/02/2018, n. 793T.A.R. Campania Napoli, Sez. III, 27 settembre 2006, n. 8331; Sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 617).
Infatti, dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume, che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico – edilizia che si svolge nel territorio comunale; pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse: da ciò, il corollario secondo il quale alcun rilievo potrebbe, essere riconnesso alla mera intenzione dichiarata da parte ricorrente di procedere alla presentazione di una domanda di sanatoria ordinaria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
5.1. E’ bene inoltre avvertire, che l’orientamento giurisprudenziale sinora esposto -e che, come detto, il Collegio ribadisce e fa proprio- non trova applicazione soltanto nell’ipotesi di opere realizzate in assenza assoluta del titolo abilitativo, ovvero difformi rispetto al titolo abiliativo rilasciato dall’Amministrazione.
Invero il consolidato insegnamento della giurisprudenza (Consiglio di Stato ad. plen., 17/10/2017, n. 9) secondo il quale Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” deve trovare applicazione anche nella differente ipotesi in cui l’opera realizzata risulti conforme al titolo abilitativo, ma sia quest’ultimo ad essere illegittimo.
Invero, stante la retroattività della pronuncia giudiziale che accerta l’illegittimità del permesso di costruire e lo elimina dal mondo del diritto, quoad effectum la situazione che ne consegue è in tutto analoga a quella della inesistenza ab origine del titolo.
Il punto, è stato ben colto dalla giurisprudenza penale, che in queste ipotesi (ed in quelle assimilabili, in cui l’illegittimità del titolo abilitativo venga accertata parenteticamente dal Giudice senza che sia intervenuto il preventivo annullamento da parte del giudice amministrativo) ritiene che neppure si debba fare riferimento al concetto di “disapplicazione”.
E’ stato acutamente affermato, infatti, dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (a partire da Sez. Unite 21.12.1993, ric. Borgia) che il giudice penale nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria. Il giudice, quindi, non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica del provvedimento amministrativo autorizzatorio, ma deve verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale “in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela” (nella specie tutela del territorio). E’ la stessa descrizione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l’atto amministrativo (cfr. Cass. pen. sez. 3 21.1.1997-Volpe ed altri). Non sarebbe infatti soggetto soltanto alla legge (art. 101 Cost.) un giudice penale che arrestasse il proprio esame all’aspetto esistenziale e formale di un atto sostanzialmente contrastante con i presupposti legali (Cass. pen. sez. 3 2.5.1996 n. 4421 – Oberto ed altri). Il giudice deve quindi accertare la conformità dell’intervento ai parametri di legalità (Cass. sez. 3 n. 11716 del 29.1.2001).
Il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza di concessione può, quindi, ravvisarsi anche in presenza di una concessione illegittima senza che occorra fare ricorso alla procedura di disapplicazione dell’atto amministrativo, essendo sufficiente la sola valutazione della sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie, atteso che la conformità della costruzione e della concessione alla normazione urbanistica è elemento costitutivo o normativo dei reati contemplati dalla normativa urbanistica, stante l’individuazione del parametro di legalità urbanistica e edilizia quale ulteriore interesse protetto dalle disposizioni in questione” (cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 4877/2002; Cass. sez. 3 n. 41629/2007, Rv237995; Cass. sez. 3 n. 25144/2008, Rv. 240728; Cass. sez. 3 n. 21487/2006, Rv. 234469 Cass. sez. 3 n. 3872 del 22.10.2010 21.3.2006, ric. Di Mauro Cass. pen. Sez. III, 23-10-2012, n. 41318).
Ciò laddove non possa utilmente invocarsi la buona fede per avere il contravventore fatto affidamento sulla legittimità della concessione edilizia e sulle difficoltà interpretative della normativa. L’errore di diritto scusabile, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 24.3.1998, è configuratale solo se incolpevole a cagione della sua inevitabilità . Secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione “Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qual volta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto dovere di informazione, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto” (cfr. Cass. pen. sez. un. 18.7.1994 n. 8154). Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che “la esclusione della colpevolezza nelle contravvenzioni non può essere determinata dall’errore di diritto dipendente da ignoranza non inevitabile della legge penale, quindi da mero errore di interpretazione che diviene scusabile quando è determinato da un atto della p.a. o da un orientamento giurisprudenziale univoco e costante da cui l’agente tragga la convinzione della correttezza dell’interpretazione normativa e, di conseguenza, della liceità della propria condotta”. (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 4951 del 17.12.1999; conf. Cass. pen. sez. 3 n. 28397 del 16.4.2004; sez. 3 n. 4991 del 4.11.2009; sez. 6 n. 6991 del 25.1.2011).
5.1.1. Il tema in ultimo accennato, risulta utile proprio al fine di esaminare le ulteriori doglianze prospettate dall’appellante.
5.2. Invero, deve riconoscersi (non sul piano oggettivo, si ripete, ma sul piano soggettivo) che esiste una ontologica diversità tra la condizione del privato che costruisce senza alcun titolo abilitativo, od in difformità rispetto a quest’ultimo, e quella del privato che edifica un manufatto in conformità ad un titolo che, poi, venga riconosciuto illegittimo.
5.2.1. In questa ultima ipotesi, in particolari condizioni (accertata buona fede) il privato potrebbe andare esente dalla pena irrogabile invece a chi consapevolmente edifica un manufatto abusivo.
Ma le differenze – tradotte poi dal Legislatore nell’art. 38 del dPR n. 380/2011-si fermano qua.
Non può invece affermarsi – come sembra prospettare l’appellante – che in simile fattispecie l’autotutela amministrativa (rectius: l’attività consequenziale concernente l’eliminazione “fisica” dell’immobile in origine assistito da un titolo abilitativo successivamente annullato con effetto retroattivo) da obbligatoria divenga facoltativa e necessiti perciò di penetrante motivazione.
5.2.2. La prospettiva va rovesciata: potrebbe al più ipotizzarsi che, in via eccezionale, l’amministrazione in simile ipotesi possa tutelare l’affidamento del privato: e l’ordinamento giuridico si è fatto carico di tale circostanza, appunto introducendo nel sistema l’art. 38 del dPR n. 380/2001 (“1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 1, in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo “), per cui neanche sotto tale profilo sembra al Collegio che l’appellante possa dolersi di alcunchè (Consiglio di Stato sez. VI 06 settembre 2017 n. 4243: “L’attività sanzionatoria della p.a. concernente l’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.”).
5.2.3. L’appellante insomma, trascura un dato: l’interesse tutelato dalle norme edilizie, urbanistiche, ed in particolare da quelle sulle distanze, non coincide con quello soggettivo del titolare dell’area ad ivi edificare un manufatto, ma è quello, pubblicistico, sul corretto assetto del territorio e della programmazione urbanistica (Consiglio di Stato, sez. VI, 24 aprile 2017, n. 1909).
E’ del tutto fuor di luogo ipotizzare che a dispetto della incompatibilità di un manufatto con dette esigenze pubblicistiche queste ultime possano divenire recessive rispetto alla posizione soggettiva (anche, in tesi, di buona fede) del privato, ovvero che tale condizione soggettiva sia tale da far venire meno il carattere di indefettibilità dell’ordine demolitorio.
6.V’è infine da considerare che il provvedimento impugnato si pone in diretta correlazione con la sentenza del Consiglio di Stato cui il comune ha ottemperato: la stessa si inserisce nel consolidato filone intepretativo secondo cui (Consiglio di stato, sez. 4, sentenza dell’08/05/2017, n. 2086) “Le norme del DM 1444/1968, poste a tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo dell’edilizia nonché alla salute dei cittadini al fine di evitare il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili, sono tassative ed operano al momento del rilascio del titolo edilizio a prescindere dalla distanza tra abitazioni già esistenti. In tema di illegittimo rilascio di permesso di costruire va dunque verificato se il provvedimento risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell’interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata”).
7. Sembra infine al Collegio che anche con riferimento alle ulteriori sfaccettature delle censure l’appello non tenga conto di alcune decisive circostanze fattuali e giuridiche, e segnatamente:
a) il permesso di costruire annullato n. n° 120 del 2 Aprile 2013 deriva e “proviene” già da un permesso in sanatoria (n. 164/2011) ex ‘art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 per la sola demolizione e ricostruzione del solaio;
b) l’ottemperanza alle decisioni giurisdizionali è atto dovuto, e per le già chiarite ragioni tale sarebbe, a prescindere, l’emanazione di ordinanza di demolizione per permesso di costruire annullato per la violazione di disposizioni pubblicistiche non procedimentali;
c)ogni questione concernente un supposto diritto ad un indennizzo in capo alla parte appellante non condiziona la legittimità dell’atto amministrativo: e ciò, è tanto più vero che ancora di recente la giurisprudenza della Corte regolatrice della giurisdizione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza, 24 settembre 2018, n. 22435) ha ribadito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda di risarcimento dei danni derivanti da una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole : tenuto conto che proprio sull’asserito affidamento nella legittimità dell’azione amministrativa poi venuta meno l’appellante ricava il proprio asserito diritto, sembra evidente che anche riguardo a tale profilo la motivazione del T.a.r. (“infine, nessun rilievo assume la mancata corresponsione dell’indennizzo, in quanto tale omissione non determina illegittimità dell’atto di revoca, ma al più abilita il ricorrente ad agire giudizialmente in vista del suo conseguimento.”).
7.1. In ultimo, con specifico riferimento alla parte della motivazione della sentenza che ha esaminato le censure concernenti la asserita insussistenza dei presupposti per la revoca ben poco il Collegio può aggiungere a quello che ha rilevato il T.a.r. che ha fatto riferimento a:
a) consolidati principi in punto di facoltatività dell’autotutela dell’amministrazione e di carenza di legittimazione della parte privata a sollecitarne l’adozione (ancora di recente T.A.R. Milano (Lombardia) sez. II 10 maggio 2018 n. 1251) ;
b) granitica giurisprudenza amministrativa quanto alla asserita insussistenza dei presupposti per la revoca (Consiglio di Stato sez. V 08 marzo 2017 n. 1100; arg anche ai sensi di: Consiglio di Stato sez. V 28 aprile 2014 n. 2183).
7.2. Può concludersi l’esame delle censure dedotte, richiamando un recente arresto dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato (sentenza n. 9 del 17.10.2017) che, sembra al Collegio chiarisca in termini univoci l’inaccoglibilità delle censure, laddove ribadisce la doverosità dell’emanazione dell’ordine di demolizione: “si osserva comunque al riguardo che non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica o praeter legem.
Una chiara conferma di quanto appena rappresentato si desume dal terzo periodo del comma 4-bis dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001 (per come introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell’articolo 17 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133), secondo cui “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La disposizione appena richiamata chiarisce che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l’amministrazione del potere di adottare l’ordine di demolizione, configurando piuttosto specifiche – e diverse – conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell’omissione o del ritardo nell’adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il decorso del tempo.”.
8. Conclusivamente, il proposto ricorso per revocazione è inammissibile, mentre il riunito appello, seppure ammissibile è infondato.
9. Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione e sul riunito appello, come in epigrafe proposti, dichiara inammissibile il ricorso per revocazione e respinge l’appello.
Condanna il Signor An. Sc. al pagamento di Euro duemilacinquecento (Euro 2500//00) in favore di ciascuna parte costituita (Comune di (omissis) e Signora Zu. ), oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 ottobre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Taormina – Presidente FF, Estensore
Daniela Di Carlo – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere
Giuseppa Carluccio – Consigliere

Avv. Renato D’Isa