Omessa pronuncia su un vizio denunciato

Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 11 dicembre 2018, n. 7006.

La massima estrapolata:

L’omessa pronuncia su un vizio denunciato, che deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso e senza privilegiare aspetti formali, può ritenersi sussistente solo nell’ipotesi in cui non risulti essere stato esaminato il punto controverso e non anche quando la decisione sul motivo (o sull’eccezione) risulti implicitamente, o quando la pronuncia su di esso c’è stata, anche se non ha preso specificamente in esame alcune argomentazioni a sostegno della doglianza.

Sentenza 11 dicembre 2018, n. 7006

Data udienza 29 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionaleSezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1142 del 2018, proposto da
Ig. Co. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ro. Ba., con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Ga., in Roma, via (…);
contro
Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pi. Ba., con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio Al. Pl., in Roma, via (…);
nei confronti
Po. Ga. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fa. Pa. e Lu. Ma., con domicilio digitale pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via (…);
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato – Sezione V, n. 03502/2017, resa tra le parti, concernente l’esclusione da una procedura per l’affidamento di una concessione demaniale marittima.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Puglia e della Po. Ga. s.r.l.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 novembre 2018 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Ro. Ba., Fa. Pa., in proprio e su delega di Lu. Ma., e Pi. Ba.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con provvedimento 21/4/2016 n. AOO_108/Prot 0005411 la Regione Puglia ha disposto l’archiviazione dell’istanza presentata dall’Ig. Co. s.p.a. nell’ambito del procedimento finalizzato all’affidamento di una concessione demaniale marittima in località (omissis) per il superamento dei termini concessi per provvedere all’integrazione documentale richiesta.
La concorrente aveva, infatti, omesso di produrre l’autodichiarazione relativa al possesso dei prescritti requisiti rilasciata dall’ausiliaria di cui la medesima concorrente aveva dichiarato di volersi avvalere per l’esecuzione dei lavori previsti e il contratto di avvalimento all’uopo stipulato.
Il provvedimento di archiviazione è stato impugnato dall’istante con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce, il quale con sentenza 21/7/2016 n. 1168 lo ha respinto.
La decisione del Tribunale è stata confermata da questa Sezione con sentenza 17/7/2017, n. 3502.
Avverso quest’ultima pronuncia la Ig. Co. ha proposto ricorso per revocazione.
Per resistere al gravame si sono costituite in giudizio la Regione Puglia e la Po. Ga. s.r.l.
Con successive memorie le parti resistenti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive.
Alla pubblica udienza del 29/11/2018 la causa è passata in decisione
Con un’unica articolata censura la ricorrente deduce le seguenti censure.
a) Il giudice d’appello avrebbe fondato la propria decisione su un’errata percezione della disciplina di autoregolamentazione dettata dalla Regione con atto dirigenziale 25/11/2015 n. 440.
Diversamente da quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, tale atto avrebbe, infatti, previsto che la documentazione relativa all’avvalimento non dovesse essere prodotta nella fase di presentazione della domanda di partecipazione, ma in quella successiva di perfezionamento della progettazione definitiva.
L’errore di fatto commesso dal giudice si sostanzierebbe nel non aver considerato che le fasi della procedura erano due, che il procedimento era ancora nella prima fase e che la documentazione concernente l’avvalimento doveva essere presentata solo nella fase successiva.
b) Risulterebbe viziata da errore di fatto anche l’affermazione secondo cui la “Ig. non ha proposto motivi relativi ad un’eventuale violazione del criterio di proporzionalità da parte dell’Amministrazione procedente nell’imporre alle concorrenti la produzione di documentazione attestante il possesso di determinati requisiti di qualificazione in proprio o tramite ausiliarie.
Pertanto, la relativa censura proposta solo con l’atto di appello, è inammissibile per violazione dell’art. 104 c.p.a.”.
In primo grado la Ig. aveva, infatti, dedotto che la discrezionalità “incontra i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza (oltre a quelli della par condicio, trasparenza e non discriminazione)” censurando il mancato rispetto dei detti canoni.
c) Il giudice di appello avrebbe, infine, omesso di pronunciarsi sui motivi con cui l’impugnata sentenza era stata censurata deducendo:
c1) l’inapplicabilità del codice degli appalti ai casi in cui l’opera debba essere realizzata dal privato con fondi propri;
c2) la sussumibilità della concessione da affidare nell’ambito delle concessioni di servizio pubblico di rilevanza economica con conseguente inapplicabilità delle norme del codice dei contratti pubblici;
c3) l’errata applicazione da parte della Regione della disciplina contenuta nell’atto di autoregolamentazione di cui al citato atto dirigenziale n. 440/2015, con la conseguente illegittimità della richiesta di documentare sin dalla prima fase i requisiti relativi alla fase successiva;
c4) l’inconferenza del richiamo operato dal giudice di prime cure sia al precedente di cui alla sentenza della VI Sezione di questo Consiglio di Stato n. 914/2007, sia all’art. 153 del D.Lgs n. 163/2006;
c5) l’inconfigurabilità, nel caso di specie, di un’ipotesi di avvalimento, avendo la Ig. Co., in possesso di tutti i requisiti occorrenti per ottenere la concessione e per eseguire i lavori, manifestato unicamente la volontà di affidare a terzi, ove fosse risultata aggiudicataria, l’esecuzione delle previste opere;
c6) il carattere meramente eventuale dell’acquisizione allo stato delle opere inamovibili.
Le doglianze così sinteticamente riassunte non meritano accoglimento.
In punto di diritto occorre premettere che l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: 1) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; 2) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; 3) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 14/5/2015 n. 2431).
L’errore deve, inoltre, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. Stato, Sez. IV, 13/12/2013, n. 6006).
Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale – senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo (Cons. Stato, Sez. III, 24/5/2012, n. 3053) – esso, invece, non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo semmai ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez. V, 20/2/2018, n. 1078; 11/12/2015 n. 5657; Sez. IV, 5/1/2017, n. 13; 26/8/2015 n. 3993; Sez. III, 8/10/2012, n. 5212; Sez. IV, 28/10/2013, n. 5187; Sez. V, 11/6/2013, n. 3210; Sez. VI, 2/2/2012, n. 587; Cass. Civ., Sez. I, 23/1/2012, n. 836; Sez. II, 31/3/2011, n. 7488).
L’errore revocatorio è, inoltre, configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dalla parte istante o su un’eccezione prospettata dalla controparte, purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima o l’eccezione; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo o dell’eccezione e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 5/4/2016, n. 1331; 22/1/2015, n. 264; Sez. IV, 1/9/2015, n. 4099).
Per consolidata giurisprudenza, l’omessa pronuncia su un vizio denunciato, che deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso e senza privilegiare aspetti formali, può ritenersi sussistente solo nell’ipotesi in cui non risulti essere stato esaminato il punto controverso e non anche quando la decisione sul motivo (o sull’eccezione) risulti implicitamente, o quando la pronuncia su di esso c’è stata, anche se non ha preso specificamente in esame alcune argomentazioni a sostegno della doglianza (Cons. Stato, A.P., 27/7/2016, n. 21; Sez. III, 20/11/2015, n. 5301; Sez. IV, 31/5/2018, n. 3256; 17/12/2012, n. 6455; Sez. VI, 5/12/2016, n. 5108; 21/4/2009, n. 2414).
Occorre, infatti, distinguere tra motivo di ricorso e argomentazione a sostegno del medesimo.
Il motivo di ricorso delimita e identifica la domanda spiegata nei confronti del giudice, e in relazione ad esso si pone l’obbligo di corrispondere, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato, nel senso che il giudice deve pronunciarsi su ciascuno dei mezzi di gravame proposti e non soltanto su alcuni di essi.
A sostegno del motivo – che identifica la domanda prospettata al giudice -la parte può addurre, poi, un complesso di argomentazioni, volte a illustrarne e chiarirne i contorni, ma che non sono idonee, di per sé stesse, ad ampliare o restringere la portata della censura, e con essa della domanda.
Rispetto a tali argomentazioni non sussiste un obbligo di specifica pronunzia da parte del giudice, il quale è tenuto a motivare la decisione assunta esclusivamente con riferimento ai motivi di ricorso come sopra identificati.
Esula poi dal perimetro dell’errore revocatorio quello che si sostanzia nell’erronea interpretazione delle norme di diritto disciplinanti la fattispecie controversa (Cons. Stato, Sez. V, 25/9/2014, n. 4828; Sez. VI, 11/9/2013, n. 4505).
Alle luce dei consolidati principi poc’anzi illustrati, deve escludersi che nel caso di specie sussistano gli elementi tipici dell’errore di fatto che giustificano e legittimano la proposizione del ricorso per revocazione.
E valga il vero.
Con la censura elencata sub a) si denuncia non un errore di fatto, ma l’inesatta interpretazione del contenuto di un atto del processo (l’atto dirigenziale n. 440/2015), con conseguente inammissibilità della doglianza.
Ugualmente inammissibile è la censura sub b), atteso che il giudice d’appello, dopo aver affermato che l’odierna ricorrente non aveva proposto davanti al Tribunale “motivi relativi all’eventuale violazione del principio di proporzionalità da parte dell’amministrazione procedente nell’imporre alle concorrenti la produzione di documentazione attestante il possesso di determinati requisiti di qualificazione in proprio o tramite ausiliarie” e che quindi “la relativa censura proposta solo con l’atto di appello, è inammissibile per violazione dell’art. 104 c.p.a.”, si è comunque pronunciato nel merito della doglianza ritenendola infondata “poiché il procedimento volto al rilascio di una concessione demaniale è unico e, quindi, ove la concessione preveda la realizzazione di opere, la stessa Amministrazione concedente deve avere la possibilità di verificare la sussistenza di tutti i requisiti in capo al richiedente, sia per ottenere la concessione, sia per realizzare le opere, in proprio o tramite soggetti terzi.
Pertanto, in tale prospettiva, l’Amministrazione concedente ha certamente la facoltà di strutturare il relativo procedimento, nel rispetto dei principi di par condicio, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità, attraverso l’imposizione di regole che garantiscano che l’aspirante concessionario abbia ogni necessario requisito per svolgere l’attività oggetto della concessione, che consentano la preventiva individuazione del soggetto che effettuerà i lavori (ove diverso dal concessionario), con attestazione sul possesso dei requisiti idoneativi tecnico-professionali per il completamento delle stesse, che al termine della concessione, trattandosi di realizzare un porto turistico, resteranno in proprietà del demanio”.
Non colgono nel segno nemmeno le diverse censure prospettate sub c).
Nel caso di specie il giudice d’appello ha respinto il gravame attraverso una valutazione complessiva e unitaria dei motivi di doglianza idonea a confutarli tutti.
Nell’impugnata sentenza si legge, infatti, oltre a quanto più sopra riportato, che “4. In ogni caso, stante la prevalenza del diritto comunitario su quello interno, appare quindi evidente come il procedimento settoriale delineato dal citato d.P.R. n. 509-1997, debba essere coordinato con la normativa comunitaria in tema di lavori pubblici (tra i quali rientra anche al realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto), tutte le volte in cui la concessione sia anche preordinata alla esecuzione di opere di importo superiore alla soglia comunitaria.
In tale prospettiva, la documentazione con cui l’Ente gestore provvede all’accertamento dei predetti requisiti, assume la natura di lex specialis della procedura di rilascio della concessione demaniale marittima, a ciò consegue la vincolatività della stessa, sia nei confronti della PA, sia nei confronti dell’aspirante concessionario e, all’atto della stipula della concessione, del concessionario.
Peraltro, la stessa D.D. del Dirigente Servizio Demanio n. 440-2015, pubblicata nel BURP n. 161 del 17.12.2015, contempla e specifica tali anzidetti principi, ormai da ritenersi immanenti nell’ordinamento.
Infatti, la presente procedura è volta ad individuare un concessionario di un bene demaniale, al quale non competerà solo la gestione del bene concesso, ma anche la realizzazione delle strutture progettate, connesse e funzionali rispetto alla concessione, di rilevante importo superiore alla soglia comunitaria in materia di lavori pubblici, opere che al termine del rapporto rimarranno in proprietà del demanio.
Pertanto, del tutto legittimamente, trattandosi di concessione demaniale con le opere suddette, destinate ad un pubblico servizio, la Regione Puglia ha inteso richiedere agli aspiranti, anche ai sensi dell’art. 95 d.P.R. n. 207-2010):
– a chi intendesse realizzare “in proprio” le predette opere, il possesso dei requisiti tecnico-organizzativi (oltre che quelli economico-finanziari);
– a chi non intendesse realizzare le opere, la specifica indicazione del/i soggetto/i che avrebbero eseguito i lavori, dimostrando il possesso dei relativi requisiti”.
La trascritta motivazione è quindi idonea a dare risposta a tutte le censure dedotte: sia quella concernente l’inapplicabilità della disciplina degli appalti, sia quella relativa all’asserito errare della Regione nell’applicare la disciplina contenuta nell’atto di autoregolamentazione, sia infine quella riguardante l’inconfigurabilità nella specie di un’ipotesi di avvalimento.
E’ invece irrilevante l’eventuale omissione di pronuncia sulle censure sub c4) e c6), atteso che le stesse riguardano asseriti vizi della motivazione della sentenza appellata, sempre emendabili in secondo grado e nella specie comunque superati dalle argomentazioni addotte dal giudice a sostegno della sentenza d’appello qui impugnata per revocazione.
Il ricorso va, in definitiva, dichiarato inammissibile.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della Regione Puglia e della Po. Ga., liquidandole forfettariamente in complessivi Euro 5.000/00 (cinquemila), pro parte, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 novembre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Fabio Franconiero – Presidente FF
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Valerio Perotti – Consigliere
Federico Di Matteo – Consigliere
Stefano Fantini – Consigliere

Avv. Renato D’Isa

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