Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|27 maggio 2024| n. 14788.

Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado

Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto; ne consegue che, qualora si giunga a stabilire, anche a mezzo di presunzioni semplici, che un fatto secondario è vero, ciò può costituire la premessa di un’ulteriore inferenza presuntiva, volta a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale o la verità di un altro fatto secondario.

 

Ordinanza|27 maggio 2024| n. 14788. Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado.

Data udienza 10 gennaio 2024

Integrale

Tag/parola chiave: Indebito arricchimento – Gravame – Amministratrice di sostegno – Contratto di donazione – Richiesta di rendimento del conto, ex art. 1713 cod. civ.

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente

Dott. RUBINO Lina – Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA

sul ricorso 11078-2020 proposto da:

As.Ma., Me.Vi., elettivamente domiciliati in Roma, via (…), presso lo studio legale dell’Avv. Ba.CU., rappresentati e difesi dall’Avvocato Ca.BE.;

– ricorrenti –

contro

Va.Ro., Me.Il., Me.Vi., gli ultimi due nella qualità di eredi di Or.Di. e Me.Il. anche in proprio;

– intimati –

Avverso la sentenza n. 2613/2019 della Corte d’appello di Bologna, depositata il 17/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 10/01/2024 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado

FATTI DI CAUSA

1. Me.Vi., nonché la di lui moglie As.Ma. , ricorrono, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 2613/19, del 17 settembre 2019, della Corte d’appello di Bologna, che – accogliendone solo parzialmente il gravame avverso la sentenza n. 1437/14, del 30 ottobre 2014, del Tribunale di Reggio Emilia – ha condannato gli stessi a pagare la somma di Euro 59.600,00 in favore dell’Avv. Br.Be., in qualità di amministratrice di sostegno di Or.Di. , poi deceduta nelle more del presente giudizio.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di essere stati convenuti in giudizio dall’Avv. Be., nella già indicata qualità, affinché fossero condannati alla restituzione, alla sua amministrata, degli importi di Euro 59.605,00 e di Euro 22.300,00, dei quali il Me.Vi. aveva in passato disposto, nella veste di (precedente) amministratore di sostegno della propria genitrice, Or.Di. In particolare, la prima (e maggiore) di tali somme, trasferita dal Me.Vi. da un conto corrente bancario intestato alla madre il 19 dicembre 2005, sarebbe stata oggetto – nella prospettazione attorea – di un contratto di donazione, in favore dei coniugi Me.Vi.- As.Ma. , da ritenersi nullo per difetto di forma solenne, non potendo ritenersi di “modico valore”. Quanto, invece, alla pretesa restitutoria relativa all’altro importo, essa riguardava l’incasso – dal medesimo conto corrente – di somme prelevate tra il 20 dicembre 2005 e il 16 giugno 2006.

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A tali domande restitutorie l’attrice affiancava la richiesta di rendimento del conto, ex art. 1713 cod. civ. , della gestione operata sul patrimonio della Or.Di. , nonché quella di risarcimento dei danni, quantificati in Euro 20.000,00.

Costituitisi in giudizio, i convenuti resistevano alle avversarie pretese, assumendo – quanto, in particolare, alla richiesta di restituzione di Euro 59.605,00 – che tale somma era stata trattenuta da Me.Vi. “quale importo minimale spettantegli per la sua quota di eredità” del patrimonio del padre, Me.Ig.. In ogni caso, parte convenuta chiedeva, eventualmente, compensarsi i crediti oggetto di domanda con quello di Euro 7.197,23, per somma anticipata da Me.Vi. per conto della madre, sia nel corso dell’incarico di amministratore di sostegno, sia prima che dopo l’espletamento dello stesso. In via di riconvenzione, infine, i convenuti domandavano – all’uopo chiedendo di essere autorizzati a chiamare in causa l’altra figlia della Or.Di. , Me.Il. , e il figlio di costei, Va.Ro. – la divisione di tutti i beni dell’eredità di Me.Ig. , con richiesta rivolta all’attrice, e ai terzi chiamati, di rendere il conto della gestione del patrimonio relitto di costui, con condanna al pagamento di ogni somma che fosse risultata dovuta, a titolo di mandato e/o gestione d’affari e/o d’indebito. Assumevano, infatti, che Me.Il. avesse trattenuto, dai conti della madre, somme pari a Lire. 226.315.797.

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Istruita la causa anche mediante lo svolgimento di prova testimoniale, l’esito del primo grado di giudizio consisteva nell’accoglimento della domanda restitutoria di Euro 59.605,00, non avendo i convenuti provato l’esistenza del debito della Or.Di. , verso il figlio, in relazione all’eredità di Me.Ig. , mentre la domanda relativa all’importo di Euro 22.300,00 veniva accolta solo in parte, atteso che la somma richiesta veniva compensata con quella spettante a Me.Vi. per il mantenimento della madre e per altre spese in suo favore, così rideterminando l’ammontare di quanto dovuto a parte attrice – a tale titolo – in Euro 8.101.62. Quanto, infine, alle domande riconvenzionali, esse venivano dichiarate inammissibili, giacché ritenute prive di specifica connessione – ex art. 36 cod. proc. civ. – con quelle attoree.

Esperito gravame dai già convenuti, che in sede di comparsa conclusionale rinunciavano alle domande riconvenzionali, il giudice di appello – nella contumacia dell’Avv. Be. – accoglieva il gravame solo in parte, segnatamente dichiarando inammissibile, per difetto di autorizzazione del giudice tutelare, la domanda di restituzione dell’importo di Euro 22.300,00, confermando, per il resto, la decisione appellata.

3. Avverso la sentenza della Corte felsinea hanno proposto ricorso per cassazione il Me.Vi. e l’As.Ma. (indirizzandolo anche nei confronti di Me.Il. e Va.Ro. , nonché dello stesso Me.Vi. , quale erede di Or.Di. , stante il sopravvenuto decesso della stessa in data 11 maggio 2015), sulla base – come detto – di sei motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2697 e 2033 cod. civ.

Viene dedotta la violazione dei principi di diritto relativi sia alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di ripetizione di indebito oggettivo, sia all’accertamento dell’inesistenza della causa della dazione patrimoniale oggetto del giudizio.

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I ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la decisione del primo giudice, di accoglimento della domanda di ripetizione di indebito, sebbene sprovvista di prova – da fornirsi da parte attrice – della mancanza di causa della contestata dazione, ciò che costituisce, invece, presupposto indefettibile dell’azione di ripetizione. In particolare, è contestato quel passaggio della motivazione in cui si afferma che la prova dell’avvenuta dazione nsine causa” dell’importo di Euro 59.605,00 sarebbe stata “fornita dalla stessa parte convenuta”, essendo “rimasta priva di riscontro” la sua allegazione secondo cui “il trasferimento dei fondi sarebbe stato effettuato”, da parte di Me.Vi. , “a titolo di pagamento della quota di eredità del padre Me.Ig.”. Così argomentando, tuttavia, la Corte bolognese avrebbe operato un’inversione dell’onere della prova, a giustificare il quale non potrebbe richiamarsi neppure quell’orientamento secondo cui “l’attore in ripetizione che prospetti come ignoto lo specifico titolo sulla base del quale sia avvenuto il pagamento che si assume indebito non sarebbe tenuto a dimostrare l’assenza di qualunque causa astrattamente idonea a giustificare la “solutio”, potendo limitarsi a invocare e provare l’inidoneità del titolo ipotizzato e indicato, come “causa petendi”, nella propria domanda di ripetizione.

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Invero, nel caso in esame ricorrerebbe una fattispecie del tutto diversa, in quanto l’attrice in ripetizione “non si è affatto limitata a prospettare come ignota la causa della contestata dazione patrimoniale”, avendo “specificamente qualificato il trasferimento fondi di Euro 59.605,00” come “donazione, asseritamente nulla per difetto di forma”. In ogni caso, anche ad accedere all’interpretazione suddetta, l’attrice in ripetizione sarebbe stata onerata dalla dimostrazione della diversa “causa debendi” invocata dai convenuti (è citata, sul punto, Cass. Sez. 3, sent. 11 febbraio 1999, n. 1170).

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2033 e 2697 cod. civ. e all’art. 167 cod. proc. civ.

La sentenza impugnata è censurata là dove ha ritenuto provata la domanda di ripetizione unicamente sulla base della contestazione, da parte dei convenuti, in ordine alla reale causa del versamento, contestazione, per contro, inidonea a integrare gli estremi dell’eccezione in senso sostanziale e a comportare alcuna inversione dell’onere probatorio.

Secondo i ricorrenti il giudice d’appello avrebbe erroneamente riversato su di essi le carenze probatorie sottese alle difese dell’attrice.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2727 e 2729 cod. civ.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che il patrimonio mobiliare di Me.Ig. , al momento della morte, ammontava “presuntivamente” a Lire 84.917.766, secondo le risultanze del conto cointestato al medesimo e alla moglie Or.Di. . Orbene, poiché sulla metà di tale somma – ovvero, Lire 42.458.883 (pari a Euro 21.928,18) – si era aperta la successione “mortis causa” della moglie e dei due figli del “de cuius”, risultava, per Me.Vi. , una quota pari a Euro 7.309,39, “del tutto incongrua” rispetto a quanto si assume essere stato al medesimo versato, dalla genitrice, a titolo di quota ereditaria, ciò che, pertanto, confermerebbe come il trasferimento fosse rimasto privo di causa.

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Così argomentando, tuttavia, il giudice di appello avrebbe violato il divieto di ricorrere alla “praesumptio de praesumptio”, ricavando da una presunzione – quella relativa all’ammontare del patrimonio mobiliare di Me.Ig. – un’altra presunzione.

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 2697 cod. civ. e agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.

Si addebita alla sentenza impugnata di aver ritenuto non provato il titolo giustificativo dedotto dai convenuti quale causa della contestata dazione patrimoniale, giungendo a motivare l’accoglimento della domanda di ripetizione di parte attrice unicamente sulla base di tale presunto difetto di prova.

3.5. Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.

Si censura la sentenza impugnata per aver condannato gli odierni ricorrenti al pagamento integrale delle spese di lite relative al giudizio di appello, nonostante il parziale accoglimento dell’impugnazione dagli stessi proposta.

3.6. Il sesto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 4 del d.m. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal d.m. 8 marzo 2018, n. 37 e alle c.d. “Tabelle parametri forensi” allegate al medesimo decreto.

Si assume che la Corte territoriale avrebbe violato le norme che disciplinano la liquidazione delle spese di lite, quantificando quelle relative al giudizio di appello in manifesto contrasto con i criteri di calcolo enunciati in parte motiva, dal momento che essa non si sarebbe attenuta al prescelto criterio di liquidazioni tra valori minimi e medi.

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Si dolgono, inoltre, i ricorrenti del fatto che non sia stata applicata la riduzione del 50% dei valori medi, di cui all’art. 4, terzo periodo, del d.m. n. 55 del 2014.

4. Sono rimasti solo intimati Me.Il. e Va.Ro. . Inoltre, sebbene Me.Il. e Me.Vi. (quali eredi della defunta Or.Di.) risultino indicati, in ricorso, quali parti del presente giudizio, gli stessi non sono stati destinatari – in tale qualità – di notificazione del presente atto di impugnazione.

5. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

6. I ricorrenti hanno presentato memoria.

7. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. In via preliminare va rilevato che la (singolare) circostanza per cui Me.Il. – già convenuta nella fase di merito del presente giudizio – e lo stesso ricorrente Me.Vi. abbiano assunto, in corso di causa, la qualità eredi di Or.Di. non comportava che il presente ricorso dovesse essere loro notificato.

Invero, la prima è stata resa edotta della proposizione della presente impugnazione mediante notifica della stessa “in proprio”, mentre, quanto al secondo, l’adempimento non si rendeva necessario, essendo stato egli stesso a ricorrere per Cassazione.

9. Ciò premesso, il ricorso va accolto, limitatamente al suo sesto motivo.

9.1. I motivi primo e secondo – suscettibili di scrutinio unitario, giacché addebitano alla sentenza impugnata un’erronea ripartizione dell’onere della prova, in relazione all’esperita azione di ripetizione dell’indebito (primo motivo), con l’effetto di imputare alla parte convenuta gli effetti del “fallimento probatorio” in cui sarebbe incorso, invece, l’attore (secondo motivo) – non sono fondati.

Invero, come attesta lo stesso ricorso, parte attrice ebbe a denunciare il carattere “sine causa” dell’operazione, compiuta il 19 dicembre 2005 e consistita nel trasferimento di Euro 59.600,00 a Me.Vi. e As.Ma. , assumendo che stessa configurava una donazione nulla, in quanto priva di forma solenne e non ascrivibile, data la rilevanza dell’importo, a quella di “modico valore”, esentata dalla necessità dell’osservanza di tale requisito formale. A fronte di tale impostazione, i convenuti ebbero ad eccepire che Me.Vi. aveva compiuto tale operazione, trattenendo la somma suddetta “quale importo minimale spettantegli per la sua quota di eredità” del patrimonio del padre, Me.Ig.. Nondimeno, essendosi accertato che tale quota ereditaria ammontava ad Euro 7.309,39, si è ritenuta la suddetta operazione priva (pure) di tale causa giustificativa.

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Tale “iter” argomentativo appare immune dai vizi denunciati con i primi due motivi della presente impugnazione: e ciò proprio alla stregua del precedente invocato in ricorso, relativo ad una fattispecie (qual è, appunto, pure quella presente) in cui l’attore in ripetizione, erede del “solvens”, a fronte di trasferimenti di denaro compiuti dal proprio dante causa in favore del convenuto, aveva allegato l’esistenza di una donazione nulla, appunto, per difetto di forma solenne (si tratta di Cass. Sez. 3, sent. 11 febbraio 1999, n. 1170, Rv. 523147 – 01).

Al riguardo, questa Corte ha osservato come “il fatto giustificativo della pretesa restitutoria del solvens” fosse, nella specie, “costituito dalla invalidità del titolo ipotizzato”, sicché “l’onere probatorio” gravante sull’attore in ripetizione si sostanziava “nella dimostrazione di quella invalidità”, peraltro ritenuta “superflua, posto che la nullità per vizio di forma della donazione di non modico valore (secondo l’effettuato apprezzamento del giudice del merito) che non sia fatta per atto pubblico direttamente discende dal disposto di cui all’art. 782 cod. civ.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 1170 del 1999, cit.). Ricorrendo, dunque, una simile evenienza “il problema” -secondo questa Corte – “resta quello di rendere compatibile l’inversione dell’onere della prova circa la causa del pagamento effettuato con l’impossibilità della prova, da parte di chi invochi la condictio indebiti ex art. 2033 cod. civ. , di qualunque titolo che lo giustifichi”, sicché “quando il titolo giustificativo del pagamento sia prospettato come ignoto dal solvens (o, come nella specie, dal suo erede), questi può limitarsi ad invocare ed a provare l’inidoneità del titolo ipotizzato, fermo il suo onere di dimostrare l’inidoneità della diversa causa dell’attribuzione eventualmente indicata dal convenuto” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 1170 del 1999, cit.).

Orbene, nella specie, tale ultima dimostrazione è stata ritenuta raggiunta sulla scorta della CTU espletata, che ha, per l’appunto, evidenziato come la pretesa di Me.Vi. di “trattenere” Euro 59.600,00, quale anticipo della liquidazione di una quota ereditaria, quella del patrimonio paterno, minore di otto volte (Euro 7.309,39), rendesse l’operazione del tutto ingiustificata.

E, difatti, non è un caso se – in particolare, con il terzo motivo di ricorso – i ricorrenti contestino proprio tale accertamento fattuale, ipotizzando la violazione delle norme sulle presunzioni.

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9.2. Anche il terzo motivo non è fondato.

9.2.1. Assumono i ricorrenti che la Corte felsinea, partendo da un dato non certo o, meglio, determinato presuntivamente (ovvero, la consistenza in Lire 84.917.766 del patrimonio mobiliare di Me.Ig.), stimando in appena Euro 7.309,39 la quota ereditaria spettante a Me.Vi. , avrebbe operato una “praesumptio de praesumpto”.

Orbene, sul punto, va osservato – sulla scorta di una delle più autorevoli dottrine in materia – che, in realtà, il divieto della c.d. “doppia presunzione”, non ha base né normativa, né vieppiù dommatica.

Tale dottrina, infatti, in ragione della natura “inferenziale” del ragionamento presuntivo (e cioè muovendo dalla constatazione che esso “non è un risalire all’indietro ma un muovere dalla premessa, ossia dal fatto noto, “in avanti” verso la conclusione sul fatto ignorato”, che si pone, pertanto, “come ipotesi da verificare”, ovvero che “è prefigurato come possibile conclusione dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo”), ha messo in discussione il principio secondo cui “praesumptio de presumpto non admittitur”. E ciò almeno “nella situazione in cui esiste una serie lineare di inferenze, ognuna delle quali configura, nella sua conclusione, la premessa dell’inferenza successiva”, poiché, in “questa situazione bisogna ragionare diversamente, considerando che in ogni singola inferenza il giudice deve stabilire, secondo i criteri di precisione e di gravità (…), se il fatto noto è in grado di attribuire – in base ad idonei criteri di inferenza – un grado adeguato di attendibilità al fatto ignorato”, sicché “se ciò accade, questo fatto cessa di essere “ignorato” e diventa “noto” in quanto la verità dell’enunciato che lo riguarda risulta confermata sulla base dell’inferenza presuntiva tratta da un altro fatto noto”. In altri termini, si sottolinea che se “questo ragionamento è efficace al fine di stabilire la verità del fatto ignorato quando questo è un fatto principale della causa, non vi è nessuna ragione per escludere che ciò accada anche quando il fatto prima ignorato è in realtà un fatto secondario”, sicché, qualora si giunga “a stabilire – anche per mezzo di presunzioni semplici – che un fatto secondario è vero, non vi è nessuna ragione per escludere che il relativo enunciato possa costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva, questa volta destinata a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale, oppure a confermare l’ipotesi relativa alla verità di un altro fatto secondario”.

Considerazioni analoghe, per vero, si ritrovano anche nella giurisprudenza di questa Corte (si veda Cass. Sez. 3, sent. 22 giugno 2020, n. 1218, non massimata), soprattutto della Sezione Tributaria. Essa, infatti, ha osservato come “il divieto di praesumptum de praesumpto (che limiterebbe l’impiego delle presunzioni semplici ai casi nei quali il fatto noto è dimostrato con prove diverse dalle presunzioni o è percepito direttamente dal giudice ed escludendo le presunzioni di secondo grado), sembra scontare un approccio più teso a limitare, in via generale, l’inferenza presuntiva che non a cogliere la logica che in ogni caso deve caratterizzare il ragionamento presuntivo”; difatti, qualora “la prova inferenziale sia caratterizzata da una serie “lineare” di inferenze, ove cioè per ogni singola inferenza il giudice apprezza, secondo i criteri di gravità, precisione e concordanza, che il fatto “noto” sia in grado di attribuire un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, quest’ultimo – secondo logica – cessa di essere fatto “ignorato” divenendo un fatto “noto”, smontando così l’equivoco logico che si cela dietro il divieto di doppia presunzione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. 7 dicembre 2020, n. 27982, Rv. 659820 – 01; nello stesso senso, tra le altre, già Cass. Sez. 5. , sent. 3 marzo 2020, n. 5798, in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. 1° agosto 2019, n. 20748, Rv. 655040 – 01; Cass. Sez. 5, sent. 16 giugno 2017, n. 15003, Rv. 644693 – 01).

Nella specie, peraltro, neppure può propriamente parlarsi di una presunzione “di secondo grado”, giacché – a tutto voler concedere – il solo dato “presuntivo” è quello relativo alla consistenza del patrimonio mobiliare di Me.Ig. .

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9.3. Il quarto motivo è anch’esso non fondato, sulla base delle stesse considerazioni svolte in relazione ai primi due motivi.

9.4. Il quinto motivo è, del pari, non fondato.

9.4.1. Invero, il parziale accoglimento dell’appello poteva, al più, costituire motivo di (discrezionale) compensazione parziale delle spese del grado, ma, di certo, non integra alcuna situazione di reciproca soccombenza.

Difatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, di recente, chiarito – ponendo fine ad un contrasto di giurisprudenza – che “l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza”, tale evenienza essendo, invece, configurabile o “in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti, ovvero nell’ipotesi di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi” (così Cass. Sez. Un. , sent. 31 ottobre 2022, n. 32061, Rv. 666063 – 01).

Più in generale, deve ribadirsi il principio secondo cui, in materia di compensazione delle spese, “il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. , è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa” (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 17 aprile 2019, n. 10685, Rv. 653541 – 01), “per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335 – 01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01), giusti motivi ” la cui insussistenza il giudice del merito non è tenuto a motivare” (Cass. Sez. 6 – 3, ord. 26 novembre 2020, n. 26912, Rv. 65992501).

9.5. Infine, il sesto motivo – diversamente dai precedenti – è fondato.

9.5.1. Il giudice di appello afferma, in motivazione, di voler liquidare le spese del secondo grado di giudizio “sulla base di parametri compresi tra i minimi e i medi previsti dal d.m. 55/14 come modificato dal d.m. 37/2018, per lo scaglione di riferimento (cause di valore indeterminabile di bassa complessità)”, tuttavia, “applicando per la fase decisoria i parametri minimi, considerata la ridotta attività difensiva svolta”. In dispositivo, però, esso ha liquidato, per compensi, complessivi Euro 8.599,50, dei quali Euro 2.548,00 per la fase di studio, Euro 1.755,00 per quella introduttiva e Euro 4.296,50 per quella decisionale. Per contro, i valori medi ammontavano a Euro 1.960,00 per la fase di studio ed Euro 1.350,00 per la fase introduttiva, mentre i valori minimi per la fase decisionale erano pari Euro 1.653,00, per un importo complessivo Euro 4.693,00. Sicché, tenendo conto della maggiorazione ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014 (visto che le parti appellate, costituite, erano due) si giungeva all’importo di Euro 6.451,90.

Quanto, invece, alla mancata riduzione “fino al 50%”, essa costituiva espressione di una scelta discrezionale, come tale non censurabile in questa sede.

10. Ne consegue, pertanto, che il presente ricorso va accolto solo quanto al suo sesto motivo, sicché la sentenza va cassata in relazione e, cioè, esclusivamente quanto alla liquidazione delle spese del grado di appello.

Sussistono, tuttavia, le condizioni perché questa Corte possa decidere nel merito, dovendo essa solo riliquidare le spese del giudizio di appello.

Le stesse vanno riconosciute a parte appellata, liquidandole in favore dell’Avv. An.Ro., dichiaratosi antistatario, nella misura, quanto ai compensi, di Euro 1.960,00 per la fase di studio, di Euro 1.350,00 per la fase introduttiva, e di Euro 1.653,00 per quella decisionale, per un importo complessivo Euro 4.693,00, sicché, tenendo conto della maggiorazione ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014 (dato che le parti appellate, costituite, erano due) si giunge all’importo di Euro 6.451,90, ai quali vanno aggiunte le spese forfettarie e gli accessori di legge.

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11. Le spese del presente giudizio vanno compensate integralmente, in ragione del parziale accoglimento del ricorso.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigettando lo stesso per il resto; per l’effetto, cassa in relazione la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida le spese del giudizio di appello in favore di parte appellata in Euro 6.541,90 per compensi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, liquidate in favore dell’Avv. An.Ro., dichiaratosi antistatario, compensando integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di cassazione, svoltasi il 10 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2024.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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