Nel processo amministrativo l’errore di fatto per la revocazione

Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 25 gennaio 2019, n. 640.

La massima estrapolata:

Nel processo amministrativo l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, che abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso e inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; l’errore deve, inoltre, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”, configurandosi quindi “l’errore di fatto nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento.

Sentenza 25 gennaio 2019, n. 640

Data udienza 15 gennaio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4553 del 2017, proposto da:
Comune di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ge. Te., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza (…);
contro
IG. Co., in persona del legale rappresentante Fr. Ma., rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Pi., Ma. Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato De Fi. Sc. in Roma, alla Via (…);
per la riforma
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO – SEZ. VI, n. 238/2017, resa tra le parti.
Visti il ricorso in revocazione e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della IG. Co.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 gennaio 2019 il Consigliere Oswald Leitner e uditi, per le parti, gli avvocati Ge. Te. e Gi. Pi.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. per la Calabria, il Sig. Ma. Fr., in qualità di titolare della Società IG. Co. (di seguito, anche soltanto “IG.”) chiedeva l’annullamento delle ordinanze – diffida di demolizione ex art. 35 D.P.R. n. 380/2001, nn. 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19 del 31 marzo 2011, nonché dell’ordinanza – diffida di demolizione ex art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 n. 20 del 31 marzo 2011, con le quali il Comune di Vibo Valentia, Settore Pianificazione Territoriale ed Urbanistica, accertata l’assenza del permesso di costruire in relazione alle installazioni pubblicitarie realizzate da IG., ne ha disposto la demolizione.
In particolare, il ricorrente di primo grado deduceva, preliminarmente, la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento ex artt. 7 – 8 della Legge n. 241 del 1990; inoltre, ritenendo non applicabile la normativa edilizia alla fattispecie, contestava le ordinanze nella parte in cui, da un lato, non avrebbero tenuto conto dell’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione e, dall’altro, dell’affidamento ingenerato nella IG. in virtù del lasso di tempo trascorso dall’installazione dell’impianto.
In altri termini, in base alla prospettazione resa dalla IG., ai fini dell’installazione degli impianti pubblicitari, sarebbe stata sufficiente la sola autorizzazione comunale (rilasciabile anche tramite il meccanismo del silenzio-assenso) e non il permesso di costruire.
A corredo della propria domanda, la Società depositava, inter alia, l’asserito titolo autorizzativo all’installazione medesima, costituito dalla convenzione stipulata con il Comune di Vibo Valentia in data 12 luglio 2000, per la durata di anni sei.
Si costituiva l’Amministrazione Comunale, contestando tutto quanto da controparte dedotto ed affermando la piena legittimità delle predette ordinanze di demolizione; con riferimento a queste ultime, il Comune ha posto in evidenza, inter alia, l’erroneità delle argomentazioni rese con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, nella parte in cui individuava la normativa applicabile alla fattispecie nel solo D.Lgs. n. 507 del 1993, oltreché nella disciplina di cui al Codice della Strada e non anche nelle disposizioni urbanistico-edilizie.
In realtà, gli impianti (abusivi), per consistenza, dimensioni, modalità di ancoraggio al suolo e durevolezza della destinazione d’uso, sono atti a determinare una trasformazione urbanistica del territorio che necessita, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. n. 380 del 2001, del titolo edilizio.
Il Comune, con la propria memoria di costituzione e difesa, effettuava una ricostruzione delle disposizioni di riferimento, individuandole non soltanto nel D.Lgs. n. 507 del 1993, ma anche nel D.P.R. n. 380 del 2001. Si affermava, dunque, che, ai fini dell’installazione degli impianti pubblicitari, fosse necessaria non soltanto l’autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 507/1993 sopra citato, ma anche il c.d. “permesso di costruire” in base alla normativa urbanistica di cui al D.P.R. n. 380/2001.
In esito al giudizio, il T.A.R. rigettava il ricorso presentato dalla Società, con sentenza n. 1689//11, ritenendo infondate tutte le censure formulate dalla IG.; in particolare, per quanto qui di interesse, in relazione all’asserita inapplicabilità della normativa edilizia alla fattispecie de quo, affermava che: “come emerge dall’analisi della disposizione riportata – art. 3 del D.Lgs. n. 507/1993 – la normativa di settore non prevede che l’Amministrazione comunale, nel rilasciare l’autorizzazione all’installazione degli impianti svolga anche valutazioni edilizie relative all’impatto della struttura sul territorio. E’, pertanto, necessario che il procedimento autorizzatorio sia „ doppiato? dal procedimento volto ad ottenere il titolo edilizio prescritto in relazione alla natura e alle caratteristiche delle strutture” […] “In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, deve ritenersi che ai fini dell’installazione degli impianti pubblicitari, il procedimento di autorizzazione contemplato dal D.Lgs. 507 del 1993 sia accompagnato dal diverso, per finalità e oggetto, procedimento disciplinato dal D.lgs. – rectius D.P.R. – n. 380 del 2001”.
Avverso la pronuncia di primo grado, il Sig. Ma., in qualità di titolare della Società IG. Co., proponeva appello innanzi a Codesto Consiglio di Stato. Con il menzionato appello venivano proposte le medesime censure presentate in primo grado.
Si costituiva in giudizio l’Amministrazione comunale, la quale, respingeva le avverse censure e ribadiva quanto già eccepito sul punto in primo grado.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza n. 238/2017, depositata in data 19 gennaio 2017, accoglieva l’appello proposto dalla Società IG. Co..
In particolare, il Consiglio di Stato esponeva:
“9. Il Collegio è consapevole che una parte della giurisprudenza amministrativa in passato (cfr. Cons. St., sez. V, 17 maggio 2007 n. 2497) ha accolto una tesi contraria, che non esclude in assoluto la necessità del titolo edilizio per l’installazione degli impianti pubblicitari, ma richiede anche il permesso di costruire allorché vi sia un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio (in tal senso anche la prevalente giurisprudenza penale: cfr., da ultimo Cass. Pen. Sez. III, 8 maggio 2015, n. 19185).
10. Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni.
10.1. In primo luogo, essa non sembra tenere conto della “specialità ” della disciplina di settore (codice della strada e decreto legislativo n. 507 del 1993) la quale, come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare, anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di viabilità “. Di conseguenza, prescrivere in aggiunta all’autorizzazione di settore, anche il rilascio del permesso di costruire si tradurrebbe in una duplicazione del sistema autorizzatorio e sanzionatorio che risulterebbe sproporzionata, perché non giustificata dall’esigenza, già salvaguardata in base alla disciplina speciale (cfr. art. 3 d.lgs. n. 507 del 1993), di tutelare l’interesse al corretto assetto del territorio.
10.2. L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta, peraltro, in netta controtendenza rispetto all’esigenza, fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30 giugno 2016, n. 126), di semplificare i procedimenti amministrativi, convogliando i titoli abilitativi necessari allo svolgimento di un’attività privata all’interno di un procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto, devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al contrario, valutati, nel rispetto del principio di semplificazione e unicità del procedimento amministrativo, all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile con le esigenze urbanistico-edilizie.
10.3. Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 e successive modificazioni”. In tal modo, come evidenziato da parte appellante, la norma ha sottratto i cartelli pubblicitari alla disciplina generale prevista per le costruzioni e le opere in genere, assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla osta paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste dal codice della strada e non già alle sanzioni penali previste per le costruzioni abusive.
10.4. Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in materia di determinazioni di rimozione di impianti pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri nella categoria degli ” atti e provvedimenti ” in materia di urbanistica ed edilizia – la cui cognizione, com’è noto, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, affermando espressamente che non si verte “in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore detta una disciplina specifica” (cfr. Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 563; 18 novembre 2008 n. 27334, 6 giugno 2007 n. 13230, 17 luglio 2006 n. 16129 e 19 novembre 1998 n. 11721)”.
Avverso tale sentenza interponeva ricorso per revocazione il Comune di Vibo Valentia, articolando un unico motivo di ricorso.
Si costituiva la IG. Co., per resistere al ricorso.
All’udienza del 15 gennaio 2019, la causa passava in decisione.

DIRITTO

1. Sostiene il ricorrente che il provvedimento giurisdizionale risulta adottato sulla scorta di un palese abbaglio dei sensi, in forza del quale il Consiglio di Stato ha presupposto la sussistenza del titolo autorizzativo legittimante la IG. Co. all’installazione degli impianti pubblicitari oggetto delle ordinanze impugnate, essendo, invece, immediatamente evidente dalla documentazione in atti, l’assenza di qualsivoglia autorizzazione e la sussistenza di un abuso edilizio, da reprimere applicando anche la normativa urbanistica di cui al DPR n. 380/2001.
Il Consiglio di Stato, nel caso di specie avrebbe, difatti, presupposto l’esistenza dell’autorizzazione comunale, pronunciandosi solo sulla non necessità di affiancare a quest’ultima anche il permesso di costruire, dando così un’erronea lettura dei documenti prodotti in giudizio, dai quali emerge, invece, con immediata evidenza, l’assenza del predetto titolo autorizzativo.
La società IG., fondava la regolarità autorizzativa degli impianti installati sull’apposita convenzione, stipulata tra la medesima Società ed il Comune in data 12 luglio 2000, la quale è stata prodotta agli atti dalla ricorrente.
Tale convenzione, stipulata nel luglio del 2000, così come espressamente specificato tanto negli atti della Società, prevedrebbe espressamente una validità pari ad anni sei, necessitando, decorso tale termine, di una rinnovazione, in assenza della quale, la convenzione medesima doveva ritenersi scaduta. Più precisamente, al punto 5 dell’accordo stipulato tra la Società e l’Amministrazione comunale, si stabilisce che “la concessione di che trattasi, della durata di anni sei decorre dalla data di stipula della presente convenzione e potrà essere rinnovata per uguale periodo con apposito atto, dietro espressa richiesta della ditta interessata da inoltrare almeno due mesi prima della scadenza e con riserva da parte del Comune di valutare, rivedere e definire nuove condizioni”.
Secondo il ricorrente, è bene porre in luce, come la scadenza dell’accordo sia avvenuta in data 12 luglio 2006, in seguito alla quale non veniva concordata dalle parti alcuna proroga temporale; la convenzione non è mai stata rinnovata.
D’altronde, dovrebbe essere evidenziato come il Comune non avrebbe potuto rinnovare l’accordo; ciò in base a quanto disposto dall’art. 13, co. 5 del Regolamento comunale n. 37/1994 così dispone: “dall’entrata in vigore del presente regolamento e del piano generale degli impianti viene dato corso alle istanze per l’installazione di impianti pubblicitari per i quali i relativi provvedimenti erano già stati adottati alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 507/1993. Dalla stessa data il Comune provvede a dar corso ai procedimenti relativi alle richieste di installazione di nuovi impianti”.
Sarebbe chiaro, dunque, come nessuna autorizzazione poteva essere rinnovata o prorogata, stante l’adozione del Piano Generale degli impianti soltanto nel giugno 2014.
Dunque, emergerebbe in tutta evidenza come le opere siano state realizzate in realtà in assenza di qualsivoglia titolo legittimante. Ciò emergerebbe dal dato meramente letterale del documento in questione.
Il Giudice di secondo grado, pertanto, indotto in errore dalla suggestiva ricostruzione dei fatti prospettata da controparte, non avrebbe rilevato l’ormai avvenuta scadenza della convenzione citata, sebbene la data di stipula sia stata evidenziata negli atti di parte e la convenzione stessa prodotta in giudizio. In tal modo, la sentenza oggetto del presente gravame ha supposto l’esistenza di un elemento, ossia la presenza e la validità del titolo autorizzativo ex D.Lgs. n. 507/1993, la cui sussistenza era invece documentalmente esclusa, incorrendo in una tipica ipotesi di errore revocatorio di cui all’art. 395, co. 4 c.p.c..
Nel caso di specie, sussisterebbero, difatti, tutti gli elementi ritenuti dalla giurisprudenza sintomatici dell’errore censurabile in tale sede revocatoria.
Come affermato da Codesto Consiglio di Stato “Nel processo amministrativo l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, che abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso e inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; l’errore deve, inoltre, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”, configurandosi quindi “l’errore di fatto nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento” (Consiglio di Stato, Sezione V, 12 gennaio 2017, n. 56).
Ciò sarebbe quanto verificatosi nel caso oggetto del presente ricorso.
Secondo il ricorrente, con il presente atto di revocazione non si intenderebbe censurare un’erronea interpretazione della normativa di riferimento, bensì l’errore di fatto commesso dal Giudice nell’attività di lettura e percezione del contenuto meramente materiale degli atti acquisiti al processo, ossia la predetta convenzione del luglio 2000, scaduta nell’anno 2006 e mai rinnovata e quindi, evidentemente inidonea a costituire il titolo autorizzativo erroneamente supposto come esistente.
Tale dato, peraltro, atterebbe ad un punto assolutamente non controverso della vicenda e sul quale la pronuncia resa da Codesto Consiglio di Stato non ha mai motivato: il Giudice dell’appello, nel soffermarsi sulla valutazione riferita al permesso di costruire, ha erroneamente ritenuto sussistente anche il titolo autorizzativo, senza fornire motivazione alcuna sul punto; tale titolo è stato erroneamente presupposto.
Secondo il ricorrente, sarebbe evidente come tale svista abbia costituito un elemento decisivo della pronuncia da revocare, ravvisandosi un diretto rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione dell’esistenza di un titolo autorizzativo (ormai scaduto) e la sentenza di appello.
Tale elemento, di semplice rilevabilità, appare con assoluta immediatezza ed, in quanto tale, rilevabile dal Giudice di secondo grado, non essendo necessaria alcuna indagine ermeneutica.
Il provvedimento giurisdizionale oggi impugnato, pertanto, sarebbe fondato sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa; ne deriva che la fattispecie in esame rientra nelle ipotesi individuate dalla giurisprudenza di Codesto Consiglio di Stato come legittimanti la proposizione dell’azione revocatoria. Come noto, difatti, la IV Sezione, con pronuncia del 5 gennaio 2017, n. 13, ha ribadito il principio, ormai consolidato, per il quale “nel processo amministrativo, la revocazione è ammissibile se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, errore che vi è quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita”.
Secondo il ricorrente, pare opportuno evidenziare difatti come, in base a quanto disposto dal provvedimento oggetto del presente giudizio, il Consiglio di Stato abbia ritenuto, nella fattispecie de quo, non necessario il permesso di costruire ai fini dell’installazione degli impianti pubblicitari, statuendo che il “panorama legislativo vigente consente di ritenere che l’autorizzazione all’installazione degli impianti pubblicitari rilasciata dai Comuni in base alla disciplina speciale (segnatamente in base all’art. 23 del Codice della strada), nel rispetto dei criteri e dei vincoli fissati nell’apposito regolamento comunale e nel piano generale degli impianti pubblicitari (a loro volta previsti dall’art. 3 del D.Lgs. n. 505/1993) abbia anche una valenza edilizia-urbanistica ed assolve, pertanto, alle esigenze di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore titolo abilitativo rappresentato, secondo la tesi del Comune (fatta propria dal TAR) dal rilascio del titolo edilizio secondo la disciplina del D.Lgs. n. 380/2001 – rectius D.P.R. n. 380/2001-“.
In altri termini, il Consiglio Stato avrebbe ritenuto che, ai fini dell’installazione degli impianti pubblicitari, non fosse opportuno riconoscere la necessità sia del titolo autorizzativo – nella fattispecie da rinvenirsi nella convenzione – sia del permesso di costruire; ciò comporterebbe, secondo la prospettazione resa in sentenza una “inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi della duplicazione dei titoli autorizzatori”.
Secondo il ricorrente, sarebbe evidente, dunque, come il Giudice abbia erroneamente presupposto l’esistenza del titolo autorizzativo, in palese contrasto con il dato del documento prodotto in giudizio; difatti, la sua inesistenza sarebbe emersa in maniera del tutto agevole dalla lettura dei documenti in atti.
Secondo il ricorrente, pare doveroso evidenziare anche le irragionevoli conseguenze fattuali che da tale pronuncia derivano.
Il ricorrente rileva, difatti, non soltanto che la convenzione è scaduta, ma anche che, dalla mera lettura delle ordinanze impugnate in primo grado, uno dei due impianti pubblicitari realizzati in via Cassiodoro non rientrava neppure nel novero di quelli autorizzati con la convenzione del 12 luglio 2000, realizzando così una chiara ipotesi di abuso edilizio ab origine. Anche tale dato è di facile percezione, essendo ravvisabile in seguito ad una mera lettura del testo delle ordinanze oggetto di impugnazione in primo grado e della convenzione (quest’ultima riporta puntualmente gli impianti al tempo autorizzati).
Peraltro, ad oggi, la sussistenza dell’ipotesi di abuso edilizio, sanzionata con i provvedimenti contestati innanzi al T.A.R. per la Calabria, sarebbe riferita anche a tutti gli altri impianti erroneamente ritenuti autorizzati in base ad una convenzione (ormai scaduta da anni); ciò con la diretta conseguenza che, tutti gli impianti oggetto delle ordinanze numeri 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, privi di qualsivoglia titolo legittimante (autorizzazione e permesso di costruire), sono da ritenersi veri e propri abusi edilizi operati su suolo pubblico; in quanto tali, non può evidentemente che trovare applicazione la normativa urbanistico-edilizia.
La sentenza del Consiglio di Stato, risulterebbe adottata con evidente travisamento ed errore sul fatto, sulla scorta di un palese abbaglio dei sensi, in forza del quale il Giudice adito ha ritenuto sussistenti fatti non risultanti dagli atti e documenti della causa.
2. Il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.
Sostiene l’Amministrazione che la sentenza emessa dal Consiglio di Stato risulterebbe adottata “sulla scorta di un palese abbaglio dei sensi, in forza del quale l’Ecc.mo Giudice adito ha presupposto la sussistenza del titolo autorizzativo ex D.Lgs. n. 507/1993 legittimante la società all’installazione dell’impianto pubblicitario oggetto dell’ordinanza impugnata, essendo, invece, facilmente riscontrabile dagli atti del giudizio, l’assenza di qualsivoglia autorizzazione e la sussistenza di un abuso edilizio, in violazione della normativa urbanistica di cui al D.P.R. n. 380/2001”.
In particolare, afferma il Comune di Vibo Valentia che “il Giudice di secondo grado, nell’accogliere l’appello presentato dalla Società, ha affermato la specialità della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 507/1993, rispetto a quella di cui al D.P.R. n. 380/2001, escludendo, in tal modo, che in presenza dell’autorizzazione all’installazione degli impianti pubblicitari, che i Comuni rilasciano in base alla disciplina speciale, sia necessario anche il permesso di costruire”. “Tale principio”, secondo il Comune, si fonderebbe “sul necessario presupposto dell’esistenza del titolo autorizzativo di cui al D. Lgs. n. 507/1993, al quale va sì riconosciuta una valenza urbanistico-edilizia, ma solo in quanto esistente e valido, trovando necessaria applicazione, in caso contrario, anche la normativa generale in materia, ossia il D.P.R. n. 380/2001”.
Secondo il Comune, il Consiglio di Stato sarebbe incorso in un “abbaglio di sensi” sull’esistenza del titolo autorizzativo, in quanto, a dire dell’Amministrazione comunale, la IG. Co. si sarebbe limitata a depositare, a dimostrazione dell’avvenuta autorizzazione degli impianti, una convenzione stipulata in data 12 luglio 2000, scaduta sei anni dopo.
Nel processo amministrativo l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 14/5/2015 n. 2431).
L’errore deve, inoltre, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. Stato, Sez. IV, 13/12/2013, n. 6006). […] esso, invece, non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo semmai ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, la quale altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento (Cons. Stato, Sez. V, 11/12/2015, n. 5657; Sez. IV, 26/8/2015, n. 3993; Sez. III, 8/10/2012, n. 5212; Sez. IV, 28/10/2013, n. 5187; Sez. V, 11/6/2013, n. 3210; Sez. VI, 2/2/2012, n. 587; Cass. Civ., Sez. I, 23/1/2012, n. 836; Sez. II, 31/3/2011, n. 7488)” (Cons. Stato, Sez. V, 12.1.2017, n. 56).
Nel caso di specie, mancano alcuni dei requisiti richiesti ai fini della configurabilità dell’errore revocatorio.
2.1. In primis, va rilevato che non vi è stato alcun errore in ordine alla sussistenza del titolo autorizzativo, atteso che tale asserita mancanza è stata eccepita dal Comune, in termini chiari ed inequivocabili, solo con il ricorso per revocazione. E lo stesso vale per il cartellone collocato in Via Cassiodoro, che secondo il Comune nemmeno rientrava nell’oggetto della convenzione siglata nel 2000.
Nel precedente giudizio, l’Amministrazione si è limitata a sostenere la necessità, in ogni caso, del permesso di costruire; tant’è vero che lo stesso Comune di Vibo Valentia ha ordinato la demolizione degli impianti ai sensi degli artt. 27 e 35, D.P.R. n. 380/2001.
2.2. Inoltre, occorre altresì evidenziare come l’asserito errore in merito ai titoli autorizzativi delle opere pubblicitarie non risulta comunque configurabile come “un elemento decisivo della decisione da revocare”, in quanto la sentenza impugnata basa il proprio impianto argomentativo su profili in alcun modo attinenti all’esistenza o meno dell’autorizzazione all’installazione degli impianti pubblicitari.
Con la decisione, il Consiglio di Stato ha affermato l’illegittimità degli ordini di demolizione adottati dal Comune in ragione del carattere “speciale” ed “omnicomprensivo” della disciplina di cui al D.Lgs. n. 507/1993.
Partendo dal presupposto della ricomprensione delle valutazioni urbanistiche ed edilizie in tema di installazione di impianti pubblicitari all’interno dello specifico procedimento autorizzatorio previsto dal codice della strada, la sentenza in esame ha ritenuto inapplicabili nella specie le disposizioni contenute nel D.P.R. n. 380/2001 in materia edilizia, sia di tipo abilitativo che di tipo sanzionatorio.
In altre parole, la sentenza oggetto del presente giudizio per revocazione ha dichiarato illegittimi gli ordini di demolizione impartiti dall’Amministrazione comunale ai sensi degli artt. 27 e/o 35 del Testo Unico dell’Edilizia, poiché l’unica disciplina applicabile, in materia di realizzazione di opere pubblicitarie, è quella contenuta nel codice della strada; con la conseguenza che qualsivoglia illecito nella materia in questione va perseguito esclusivamente per il tramite degli specifici procedimenti sanzionatori all’uopo istituiti dal D.Lgs. n. 507/1993.
Ne consegue che la decisione impugnata è stata emessa a prescindere dalla sussistenza o meno dell’autorizzazione comunale e che nella fattispecie in esame manca del tutto quel “rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa”, richiesto dalla giurisprudenza ai fini del superamento della fase rescindente del giudizio revocatorio.
3. Conclusivamente, il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.
4. Le spese di lite, così come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
5. Il contributo unificato corrisposto per la proposizione del ricorso in revocazione rimane definitivamente a carico del ricorrente.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in revocazione, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna il ricorrente a rifondere alla resistente le spese di lite, liquidate nell’importo omnicomprensivo di Euro 3.000,00-, oltre accessori di legge.
Il contributo unificato corrisposto per la proposizione del ricorso in revocazione rimane definitivamente a carico del ricorrente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 gennaio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Italo Volpe – Consigliere
Oswald Leitner – Consigliere, Estensore

Avv. Renato D’Isa

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