Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 21 luglio 2020, n. 4664.
La massima estrapolata:
Nel processo amministrativo la c.t.u. non configura un autonomo mezzo di prova bensì uno strumento di valutazione di prove già ritualmente acquisite agli atti del giudizio, sicché non può essere utilizzata per costruire prove che la parte attrice non ha introdotto nel processo nemmeno come principio.
Sentenza 21 luglio 2020, n. 4664
Data udienza 11 giugno 2020
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Istruttoria – CTU – Natura – Individuazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 206 del 2019, proposto da
Pr. Im. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato An. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Er. Fu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio En. Ca. in Roma, piazza (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, 17 dicembre 2018 n. 7187, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 giugno 2020 il Cons. Diego Sabatino e rilevato che, ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6 del D.L. n. 18 del 2020, il Collegio si è riunito con modalità telematiche;
Rilevato che la causa passa in decisione, riservando ogni provvedimento sulle eventuali note di udienza che chiedono rinvio, rinvio per rimessione in termini, per discussione orale o per qualsiasi altra motivazione e che, ai sensi dell’art. 4 del D.L. 28/20 l’avv.An. Ca. e l’avv.Fu. Er. depositano note di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 206 del 2019, Pr. Im. s.r.l. propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, 17 dicembre 2018 n. 7187, con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Comune di (omissis) per l’annullamento
quanto al ricorso introduttivo:
a) della disposizione dirigenziale del Comune di (omissis) prot. n. 11155 del 27 maggio 2015, con la quale sono state annullate in autotutela le DIA presentate dalla società ricorrente il 31 luglio 2013, il 19 settembre 2013 ed il 20 dicembre 2013 per una serie di interventi edilizi inerenti a due fabbricati facenti parte di un complesso immobiliare sito nel territorio comunale alla Via (omissis);
b) dell’ordinanza dirigenziale del Comune di (omissis) n. 12/2015 del 9 luglio 2015, recante l’ingiunzione di demolizione delle opere realizzate in forza dei suddetti titoli edilizi;
c) di ogni altro atto preordinato, presupposto, connesso, conseguente e comunque collegato;
quanto al ricorso per motivi aggiunti:
d) della disposizione dirigenziale del Comune di (omissis) prot. n. 10708 del 24 aprile 2018, con la quale è stata respinta l’istanza di SCIA in sanatoria relativa ai lavori di recupero abitativo del sottotetto di uno dei due fabbricati;
e) di ogni altro atto preordinato, presupposto, connesso, conseguente e comunque collegato.
I fatti di causa possono essere così riassunti.
La società originariamente ricorrente espone di essere proprietaria di due fabbricati a destinazione mista commerciale/direzionale (di seguito indicati per comodità “fabbricato A” e “fabbricato B”), facenti parte di un complesso immobiliare sito in (omissis) alla Via (omissis), con riguardo ai quali presentava nel corso del 2013 tre DIA finalizzate all’effettuazione di una pluralità di interventi di trasformazione edilizia comportanti mutamenti di destinazione d’uso ed altro.
In particolare, in relazione al fabbricato A, con la DIA del 31 luglio 2013 la società ricorrente mirava a conseguire il cambio di destinazione d’uso del primo piano, trasformato da ufficio in residenza, mentre con la DIA del 20 dicembre 2013 la medesima intendeva ottenere il recupero abitativo del sottotetto termico posto al secondo piano. Viceversa, in relazione al fabbricato B, la ricorrente, per il tramite della DIA del 19 settembre 2013, si adoperava al fine di porre in essere la chiusura di una cassa scale esterna ed il cambio di destinazione d’uso di un locale tecnico ubicato al primo piano, da adibire ad ufficio.
Le suddette DIA consolidavano i propri effetti per decorso dei termini di legge, rendendo così praticabili i progettati interventi, ma seguiva, da parte del Comune di (omissis), l’emissione della disposizione dirigenziale prot. n. 11155 del 27 maggio 2015, con la quale venivano annullati in autotutela tutti e tre i titoli edilizi in parola.
La decisione di autoannullamento trae linfa dai seguenti profili motivazionali, ognuno capace di per sé di sostenere la negativa determinazione dell’amministrazione: i) la DIA non è il titolo edilizio adatto per effettuare i mutamenti di destinazione d’uso previsti nello specifico, anche in caso di recupero abitativo di sottotetto: tali mutamenti, comportando aumento del carico urbanistico, necessitano del previo rilascio del permesso di costruire; ii) in tutte e tre le pratiche di DIA manca la previsione degli standard urbanistici di cui al d.m. n. 1444/1968; iii) nelle relazioni tecniche inerenti alle DIA del 31 luglio 2013 e del 19 settembre 2013 si incorre in confusione nella descrizione delle unità immobiliari oggetto di intervento.
Il Comune di (omissis), una volta annullate le DIA in parola, con ordinanza dirigenziale n. 12/2015 del 9 luglio 2015 si determinava ad ingiungere la demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 delle opere realizzate in forza di tali titoli edilizi, perché poste in essere in assenza di permesso di costruire.
La società ricorrente, infine, tentava di riottenere la legittimità urbanistica del solo cambio di destinazione d’uso del sottotetto del fabbricato A mediante presentazione, in data 6 aprile 2018, di un’istanza di SCIA in sanatoria.
Tale istanza veniva però respinta dall’amministrazione comunale con disposizione dirigenziale prot. n. 10708 del 24 aprile 2018, sulla scorta dei seguenti argomenti (ognuno capace di sorreggere autonomamente il disposto diniego): 1) il recupero abitativo del sottotetto non è assentibile perché riguarda un edificio interessato da contenzioso edilizio per interventi abusivi originatisi dall’intervenuto annullamento delle DIA del 2013; 2) la SCIA si pone in contrasto con quanto ingiunto nell’ordinanza di demolizione n. 12/2015; 3) non sono stati assolti i diritti di istruttoria in forma integrale, “come stabiliti dalla Deliberazione di C.S. n. 85 del 26/6/2014”; 4) “le opere per cui si chiede sanabilità sono da considerarsi in contrasto con la normativa urbanistica di zona, visto che la zona di riferimento è classificata quale zona scolastica”; 5) l’intervento di recupero disattende l’art. 37 del regolamento edilizio comunale quanto ad altezza consentita e quanto al rispetto delle norme sul consumo energetico e sul dimensionamento delle aree di parcheggio.
Ciò premesso, la parte originariamente ricorrente impugna con il ricorso introduttivo la disposizione di annullamento delle DIA prot. n. 11155/2015 e l’ordinanza di demolizione n. 12/2015, mentre con il ricorso per motivi aggiunti insorge avverso la disposizione di rigetto della SCIA in sanatoria prot. n. 10708/2018, ritenendole viziate dalla violazione della normativa nazionale e regionale in materia di edilizia, dalla violazione della normativa regionale in tema di piano casa e di recupero abitativo dei sottotetti, dalla violazione della legge sul procedimento amministrativo con particolare riguardo alle disposizioni in materia di autotutela, dalla violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, nonché dall’eccesso di potere sotto svariati profili.
L’intimata amministrazione comunale conclude nei suoi scritti difensivi per la reiezione del ricorso e dei motivi aggiunti, mentre la parte ricorrente insiste nelle sue tesi con ulteriori memorie.
L’istanza cautelare, proposta solo con il ricorso introduttivo e respinta in primo grado, è stata accolta in appello con ordinanza del Consiglio di Stato n. 4895 del 28 ottobre 2015, ai soli fini del periculum e limitatamente alla sospensione degli effetti della sanzione demolitoria.
La causa è stata infine discussa all’udienza pubblica del 20 novembre 2018 e decisa con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione e ritenendo infondato nel merito il ricorso.
Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo come motivi di appello le proprie originarie censure, come meglio descritte in parte motiva.
Nel giudizio di appello, si è costituito il Comune di (omissis), chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso.
Dopo l’accoglimento della domanda di adozione di misure cautelari inaudita altera parte, avutosi con decreto presidenziale 11 gennaio 2019 n. 84, all’udienza del 21 febbraio 2019, l’istanza cautelare veniva accolta con ordinanza 25 febbraio 2019 n. 965.
Alla successiva udienza pubblica del 21 maggio 2019, la Sezione disponeva adempimenti istruttori, nominando un verificatore con ordinanza 27 maggio 2019 n. 3452, a cui venivano posti i seguenti quesiti: “dica il verificatore:
“1.) se in riferimento alla DIA prot. 14089 del 31.07.2013, la discrasia rilevata dal Dirigente (“…si riscontra una chiara confusione nella relazione allegata alla DIA 14089 del 31 luglio 2013 nella quale viene richiesto il cambio di destinazione d’uso del sottotetto non abitabile al piano primo dell’edificio di cui all’oggetto, mentre nel titolo si legge che il piano è ad uso non residenziale…”) sia o meno riconducibile, dalla valutazione complessiva del contenuto della istanza e dei suoi allegati grafici, ad un mero errore di scrittura del Tecnico incaricato”;
“2.) se in riferimento alla DIA prot. 15798 del 19.09.2013, la discrasia rilevata dal Dirigente (“…si richiede un cambio di destinazione d’uso di un locale tecnico da destinare ad uso ufficio al piano primo, anche essa in palese confusione, poiché nel titolo il locale tecnico viene definito deposito…”) sia o meno riconducibile, dalla valutazione complessiva del contenuto della istanza e dei suoi allegati grafici, ad un mero errore di scrittura del Tecnico incaricato;
“3.) se è vero che, per quanto attiene al fabbricato ricadente in zona attrezzature, sono stati posti in essere esclusivamente interventi edilizi ai sensi del cd. “Piano Casa” Campania, e se tali interventi siano o meno realizzabili in deroga agli strumenti urbanistici;
“4.) se gli interventi edilizi assentiti con i titoli abilitativi annullati con il provvedimento dirigenziale impugnato rispettano o meno tutte le dotazioni previste dagli standards urbanistici imposti dal D.M. 1444/1968;
“5.) se gli interventi edilizi assentiti con i titoli abilitativi annullati con il provvedimento dirigenziale impugnato rispettano o meno i limiti di legge per l’utilizzo e il recupero dei volumi esistenti.”
Dopo ulteriori adempimenti collegati all’esperimento della verificazione (con proroga di termini data con ordinanza 28 novembre 2019 n. 8153; deposito della verificazione in data 21 aprile 2020; e successiva liquidazione del compenso, data con decreto 18 maggio 2020 n. 3119), alla pubblica udienza del giorno 11 giugno 2020, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.
DIRITTO
1. – L’appello non è fondato e va respinto per la ragioni di seguito esposte.
2. – In via preliminare, va esaminata la richiesta di rinvio della trattazione, proposta dalla parte appellante con istanza del 10 giugno 2020 e motivata “ai fini della sua trattazione orale”.
Va tuttavia notato che la parte non ha allegato alcuna ragione per cui la detta trattazione orale potesse introdurre ulteriori elementi conoscitivi, non altrimenti allegati agli atti, né ha chiesto di procedere tramite trattazione da remoto, che avrebbe parimenti consentito lo svolgimento della trattazione orale in via telematica.
Pertanto, la richiesta di rinvio appare contraria al divieto del venire contra factum proprium, rilevante in senso processuale come canone di condotta delle parti. Infatti, la necessità di trattazione orale ben avrebbe potuto essere soddisfatta tramite partecipazione telematica da remoto, azionabile su istanza di parte la quale, invece, non ne ha fatto domanda, evidenziando così un contrasto tra la sua richiesta e il suo complessivo comportamento processuale.
Stante la detta situazione, l’istanza di rinvio non può essere accolta, dovendosi dare preminente rilievo all’esigenza di sollecita celebrazione del giudizio.
3. – Venendo al merito, viene in rilievo il primo motivo di diritto, rubricato “1. eccesso di potere giurisdizionale – difetto di motivazione e contraddittorietà – erroneità del presupposto – violazione del procedimento – error in judicando – violazione del principio della riserva di amministrazione”, dove si lamenta l’erroneità della sentenza sotto una pluralità di profili, contenutisticamente eterogenei, ma che si collegano per il fatto di censurare la scelta del primo giudice di non procedere a consulenza tecnica, come invece richiesto dalla parte e, conseguentemente, il mancato riscontro di una serie di elementi di fatto (la natura di mera imprecisione delle “discrasie nella descrizione degli interventi”; la circostanza che l’area di intervento ricade almeno in parte in zona destinata ad attrezzature; il rispetto degli standard urbanistici), che vengono solo elencati come fatti su cui il giudice si è erroneamente espresso.
3.1. – La censura va respinta.
Va innanzi tutto ribadito che le scelte istruttorie del giudice non sono coercibili e che, pertanto, il mancato utilizzo dello strumento istruttorio non comporta l’invalidità della sentenza, a meno che questa carenza non si riverberi in un errato accertamento del fatto. Ciò perché vige il principio secondo cui in un contesto di carenza probatoria, in cui la richiesta istruttoria è inserita, l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio cesserebbe di svolgere la funzione sua propria di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi già acquisiti al processo, per svolgere quella, estranea alle regole processuali, di esplorare ex novo la sussistenza di elementi, fatti o circostanze non provati in giudizio, così supplendo alla deficienza delle allegazioni difensive della parte interessata (Cons. Stato, III, 25 luglio 2019, n. 5267). In altri termini, la c.t.u. non configura un autonomo mezzo di prova (Cons. Stato, IV, 20 febbraio 2014, n. 786), bensì uno strumento di valutazione di prove già ritualmente acquisite agli atti del giudizio, sicché non può essere utilizzata per costruire prove che la parte attrice non ha introdotto nel processo nemmeno come principio (Cons. Stato, V, 14 febbraio 2012, n. 724). Essa, infatti, costituisce non già un mezzo di prova, ma al più di ricerca della prova (c.d. consulenza tecnica percipiente), avente la funzione di fornire al giudice i necessari elementi di valutazione quando la complessità sul piano tecnico-specialistico dei fatti di causa impedisca una compiuta comprensione (c.d. consulenza tecnica deducente), ma non già la funzione di esonerare la parte dagli oneri probatori sulla stessa gravanti (Cons. Stato, V, 11 maggio 2017, n. 2181). È poi noto che le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio neppure nel caso di consulenza cd. percipiente, che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti (Cons. Stato, Ad. Plen., 12 maggio 2017, n. 2).
In via di fatto, poi, va notato che la verificazione svolta in grado di appello, con quesiti ripresi dalla stessa richiesta dell’appellante, ha confermato la lettura data alla vicenda dal T.A.R., dando implicita conferma della corretta impostazione data dal primo giudice ed escludendo la sussistenza dei presupposti legittimanti (la natura di mera imprecisione delle “discrasie nella descrizione degli interventi”; la circostanza che l’area di intervento ricade almeno in parte in zona destinata ad attrezzature; il rispetto degli standard urbanistici) indicati dalla società .
4. – Con il secondo motivo, rubricato “2. error in judicando – violazione di legge – violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 7, e 8, comma 2, della l.r. campania n. 19/2009 – violazione e falsa applicazione della circolare prot. 2012.0774995 del 23.10.2012 della a.g.c. gestione del territorio della regione campania – violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge regionale 28.11.2001, n. 19 – eccesso di potere per erroneità, difetto di istruttoria, dei presupposti e di motivazione – omessa ponderazione della situazione contemplata – travisamento – illogicità – contraddittorietà – perplessità – manifesta ingiustizia – altri profili”, viene lamentata l’erroneità della sentenza in relazione agli accertamenti esperiti sui tre diversi annullamenti di pregressi titoli edilizi, che vengono di seguito esaminati partitamente.
4.1. – In relazione all’annullamento della DIA prot. 14089 del 31 luglio 2013, la parte sostiene come questa abbia avuto ad oggetto un intervento riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 8, comma 2, della L.R. n. 19/2009, come modificato con la l.r. Campania n. 1 del 2011.
L’affermazione risulta contraria agli esiti istruttori, atteso che, stante la rilevanza dei lavori ivi indicati, appare del tutto corretta e sufficiente la motivazione adottata dal Comune che ha rilevato come l’intervento oggetto di DIA necessitasse di titolo abilitativo superiore, nonché di verifica degli standards. Infatti, come correttamente riscontrato dal verificatore, la DIA in esame prevedeva la realizzazione di un cambio di destinazione d’uso del piano primo dell’immobile de quo (descritto dal tecnico come un cambio da direzionale a residenziale) e delle relative opere di adeguamento impiantistico e di ridistribuzione interna. Ma proprio in relazione al recupero, la verificazione ha evidenziato come questo non abbia avuto ad oggetto volumi recuperabili e che quindi abbia prodotto “un incremento volumetrico non contemplato dall’invocata Legge Piano casa Campania all’art. 4 comma 7 (gli unici incrementi volumetrici consentiti dal Piano casa Campania sono piuttosto quelli di cui all’art. 4 comma 1, ove trattasi di caso di tutt’altro ordine e grado urbanistico)” che, non rispettando le condizioni previste dalla legge, è palesemente non ammissibile (in generale, sull’utilizzo delle valutazioni del consulente tecnico, Cass. civ., II, 17 aprile 2019, n. 10747; id., I, 11 giugno 2018, n. 15147).
Va quindi confermata la decisione del primo giudice che ha ritenuto legittimo l’annullamento operato dal Comune.
4.2. – Quanto all’annullamento della DIA prot. 15798 del 19 settembre 2013, va notato come la stessa avesse ad oggetto formalmente una chiusura scala e cambio di destinazione d’uso all’immobile sito alla via A. Pecchia n° 160.
Il verificatore ha evidenziato come nel caso in esame, come pure in relazione alla precedente DIA n. 14809 del 31 luglio 2013, siano rilevabili distinte relazioni tecniche asseverate, entrambe affette da evidenti incongruenze descrittive. Per quanto attiene agli interventi qui in esame, la relazione “descrive le opere a farsi come concernenti…. un cambio di destinazione d’uso di un locale a piano primo da locale deposito ad uffici senza opere edili, salvo nel seguito a definirle altrimenti come opere consistenti in un…cambio di destinazione d’uso senza opere edili per un locale tecnico da adibire ad ufficio al piano primo….”. La necessità di chiarire la reale situazione di fatto, svolta tramite l’accurata verificazione che ha dovuto ricostruire l’evoluzione storica dell’edificazione, ha infine accertato come “il cambio di destinazione d’uso non riguardi alcun ambiente deposito (dicitura assente sul grafico), bensì gli ambienti destinati a locale tecnico posti al piano primo dell’immobile.”
Pertanto, anche in questo secondo caso, valgono le considerazioni prima esposte in relazione alla necessità di un diverso e superiore titolo abilitativo, trattandosi di aumento di volumetria. Il che conferma la correttezza dell’assunto comunale, fatto proprio dal primo giudice.
4.3. – Quanto all’annullamento della DIA prot. n. 21872 del 20 dicembre 2013, relativa ad un recupero abitativo di un sottotetto esistente, consistente in un cambio di destinazione d’uso da non residenziale a residenziale con opere di adeguamento impiantistico e di ridistribuzione interna finalizzate alla realizzazione delle due unità abitative, si è parimenti riscontrata l’assenza di uno dei requisiti per l’applicazione del beneficio di legge richiesto.
Infatti, al netto delle notevoli imprecisioni riscontrate dal verificatore, si è accertato come l’edificio non poteva vantare una qualche destinazione d’uso residenziale di partenza e che pertanto non è ascrivibile tra gli interventi praticabili col cosiddetto Piano casa Campania (art. 8 comma 2 della l.r. Campania 19 del 2009).
Anche in questo caso, quindi, va confermata la valutazione operata dal primo giudice.
5. – Con il terzo motivo di diritto, rubricato “3. error in judicando – violazione di legge – violazione degli artt. 2, 3, 7, 10-bis, 19 e 21-nonies della l. 07.08.1990 n. 241 – violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa – contraddittorietà – arbitrario esercizio del potere di autotutela – altri profili”, si lamenta l’illegittimità dell’intervenuto annullamento dei titoli edilizi, sotto il duplice profilo della mancata valutazione dei contrapposti interessi, anche in relazione al tempo trascorso, e del superamento del termine ragionevole di cui all’art. 21 octies della legge 241 del 1990, come modificato dal legislatore in data successiva ai fatti.
5.1. – La doglianza, sotto entrambi i profili, non può essere condivisa.
In relazione al tema motivazionale, va condivisa e confermata l’osservazione del primo giudice sull’ampiezza delle ragioni indicate nel provvedimento gravato in merito all’esistenza dell’interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dei titoli edilizi illegittimi, che viene puntualmente individuato nell’esigenza di garantire alla collettività, insieme all’ordinato assetto edilizio dell’area, come predeterminato dalla strumentazione urbanistica comunale, il rispetto degli essenziali standard “a tutela della vivibilità dei cittadini”, e precisato in relazione alla circostanza che parte degli interventi ricadrebbe in una zona destinata dal vigente piano di fabbricazione ad attrezzature, zona di massima tutela attesa la carenza di standard sul territorio.
Del pari è condivisibile la ritenuta valutazione di prevalenza sul contrapposto interesse privato al mantenimento delle opere, dal momento che i titoli edilizi in questione, oltre ad essersi formati su presupposti “palesemente illegittimi”, si sarebbero consolidati senza essere assistiti dal minimo accenno alla previsione degli standard urbanistici imposti dalla legge (d.m. n. 1444/1968).
In relazione al secondo profilo, va rimarcato come non possa predicarsi una violazione dell’art. 21-nonies della l. 241 del 1990.
Infatti, la giurisprudenza ha ormai chiarito, dopo iniziali oscillazioni, i criteri di applicazione della citata disposizione, con argomentazioni che la Sezione condivide e fa proprie.
In questo senso, il nuovo termine di 18 mesi – introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d) della legge 7 agosto 2015 n. 124 – resta predicabile nella sua rigida previsione solo in relazione ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch’essi, successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione.
Nel caso, invece, di provvedimenti già adottati il termine suddetto integra un parametro di riferimento per valutare la ragionevolezza del termine dell’intervento di riesame. Il nuovo termine legislativamente predeterminato non sostituisce in toto il termine ragionevole (e indeterminato) il quale, presente fin dall’originaria formulazione della disposizione delineata dalla legge n. 15 del 2005, continua a costituire il parametro normativo di riferimento laddove non possa trovare applicazione, ratione temporis, il termine di mesi 18 (ex multis, Cons. Stato, III, 2 novembre 2019, n. 7476; id., V, 29 maggio 2019, n. 3583; id., IV, 18 luglio 2018, n. 4374; id., VI, 19 gennaio 2017, n. 250; id., IV, 9 giugno 2017, n. 2789; id., VI, 13 luglio 2017, n. 3462; id., VI, 18 luglio 2017, n. 3524; id., VI, 20 luglio 2017, n. 3586; id., III, 28 luglio 2017, n. 3780).
Tale consolidato orientamento consente di superare agevolmente i profili di censura delineati dall’appellante, evidenziando: che proprio la stessa legge non impone il rigido adeguamento del provvedimento amministrativo di secondo grado al regime giuridico coevo alla sua adozione, consentendo l’articolata disciplina appena rammentata; che il doppio regime dei provvedimenti, in ragione della data della loro adozione, appare consono alla disciplina normativa, essendo “il fluire del tempo valido discrimine di situazioni giuridiche analoghe” (Corte costituzionale, 24 giugno 2010 n. 228); che l’intento legislativo di garantire maggiore certezza giuridica è stato garantito proprio differenziando le situazioni in ragione della data del provvedimento e dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione.
Vale, poi, soggiungere che il termine ragionevole decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro (Cons. Stato, ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8) e che, nel caso in esame e come correttamente accertato dal verificatore, fosse stata la stessa parte, con la sua produzione incerta e confusa, a rendere impossibile all’amministrazione una corretta e completa conoscenza dei fatti di causa.
6. – Con il quarto motivo di ricorso, rubricato “4. error in judicando – violazione di legge – violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge regionale campania del 28 novembre 2000 n. 15 – violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 2, della l.r. campania n. 19/2009, come modificato con la l.r. campania n. 1/2011 – eccesso di potere per erroneità, difetto di istruttoria, dei presupposti e di motivazione – omessa ponderazione della situazione contemplata – travisamento – illogicità – – 23 – contraddittorietà – perplessità – manifesta ingiustizia – altri profili”, si lamenta l’erroneità della sentenza che ha avallato la legittimità del provvedimento di archiviazione della SCIA prot. n. 9167 del 6 aprile 2018, inoltrata dalla società Pr. Im. a r.l. per la sanatoria del recupero abitativo del sottotetto, provvedimento impugnato in primo grado con motivi aggiunti.
6.1. – La censura non ha pregio.
La sopra accertata situazione di irregolarità edilizia del fabbricato, come evincibile dal legittimo annullamento delle tre DIA appena vagliate, ha evidenziato una complessiva situazione di compromissione dell’intero manufatto che, come ha correttamente evidenziato il primo giudice, impedisce il recupero abitativo (in sanatoria) del sottotetto. Questo perché emerge come, a seguito dell’annullamento in autotutela della DIA del 31 luglio 2013, residuava e persisteva, almeno fino all’esito dell’istanza di SCIA in sanatoria del 2018, l’abusiva trasformazione del primo piano da ufficio in immobile residenziale.
Coerentemente, quindi, non poteva darsi seguito all’istanza di sanatoria del recupero abitativo del sottotetto, essendo venuto meno uno dei presupposti legittimanti, indicato dall’art. 3, comma 1, lett. b), della l.r. Campania n. 15 del 2000 che prevede che “l’edificio in cui è ubicato il sottotetto deve essere stato realizzato legittimamente ovvero, ancorché realizzato abusivamente, deve essere stato preventivamente sanato ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e della legge 23 dicembre 1994, n. 724”.
Nel caso in esame, la situazione di illegittimità relativa al fabbricato sui cui gravata il sottotetto escludeva quindi la procedibilità dell’istanza che, correttamente, è stata archiviata.
7. – Con il quinto e ultimo motivo di diritto, rubricato “5. error in judicando – illegittimità derivata”, viene lamentato la mancata considerazione che i motivi di illegittimità denunciati avverso il provvedimento di annullamento delle DIA si riverberano in toto, in via derivata, anche sul conseguenziale provvedimento di demolizione.
7.1. – La censura va respinta.
Trattandosi di mera derivazione di invalidità, la riscontrata legittimità dei provvedimenti a monte evidenzia ex se l’infondatezza della censura, atteso che non vengono proposte doglianze proprio del provvedimento così gravato.
8. – L’appello va quindi respinto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
1. Respinge l’appello n. 206 del 2019;
2. Pone definitivamente a carico della Pr. Im. s.r.l. le spese della verificazione, come liquidate con decreto collegiale 18 maggio 2020 n. 3119;
3. Condanna Pr. Im. s.r.l. a rifondere al Comune di (omissis) le spese del presente grado di giudizio che liquida in Euro. 3.000,00 (euro tremila) oltre I.V.A., C.N.A.P. e rimborso spese generali, se dovuti.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Diego Sabatino – Presidente FF, Estensore
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere
Davide Ponte – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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