Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 15 settembre 2020, n. 5446.
La massima estrapolata:
L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è anche nel regime ex art. 31 del DPR 380/2001 un atto vincolato. Pertanto, tal provvedimento non richiede la specifica valutazione delle ragioni d’interesse pubblico, né la comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tampoco una motivazione specifica sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’applicazione della sanzione demolitoria.
Sentenza 15 settembre 2020, n. 5446
Data udienza 9 luglio 2020
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Ordine di demolizione – Atto vincolato – Specifica valutazione delle ragioni d’interesse pubblico – Necessità – Insussistenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso NRG 10127/2018, proposto da -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avv.ti Al. -OMISSIS-ed En. Es., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Ma. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del TAR Campania, sez. VII, n. -OMISSIS-/2018, resa tra le parti e concernente l’ordine di demolizione di abusi edilizi, anche in violazione del vincolo paesaggistico;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all’udienza pubblica del 9 luglio 2020 il Cons. Silvestro Maria Russo;
Dato atto che l’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84, co. 6 del DL 17 marzo 2020 n. 18, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” e che, come da verbale, la causa è trattenuta in decisione riservando al Collegio ogni provvedimento sulle eventuali note di udienza, che chiedono rinvio per rimessione in termini, per discussione orale o per qualsiasi altra ragione;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. – I sigg. -OMISSIS- dichiarano d’esser eredi ed aventi causa (la prima quale coniuge superstite ed il secondo quale figlio) del sig. -OMISSIS-, proprietario d’un fabbricato di civile abitazione, sito in (omissis), alla-OMISSIS-.
In esito a sopralluogo effettuato in situ dall’UTC e dalla Polizia municipale, il Comune di (omissis) accertò l’avvenuta realizzazione, senza titolo edilizio ed in violazione del vincolo paesaggistico colà vigente, di: a) una veranda in alluminio anodizzato di colore bronzeo (vecchia tipologia costruttiva) costituente la chiusura dell’esistente balcone dell’abitazione, di dimensioni pari a m 8.30 x 1,25 x h/2.95; b) la copertura in plexiglass trasparente della scala che dal balcone reca al cortile, montata su una piccola struttura in profilati metallici, di dimensioni pari a m 1,90 x 0.90 x h/0.50; c) la copertura della tettoia insistente su parte del cortile stesso, costituita da elementi prefabbricati di lamierini in fiberglass montati su una struttura di sostegno in profilati metallici, di dimensioni pari a m 6.00 x 3.00 x h/2.45 e sita tra il muro di confine e l’aggetto di tal balcone.
Sicché, con ordinanza n. 61 del 19 gennaio 2011, il Comune di (omissis) ingiunse al sig. -OMISSIS- la demolizione di tali opere, in quanto “… eseguite in assenza di titolo abilitante e in dispregio al vincolo paesistico ambientale…”.
Il successivo 1° aprile 2011, il sig. -OMISSIS- propose al Comune un’istanza per l’accertamento di conformità ex artt. 36 e 37 del DPR 6 giugno 2001 n. 380.
2. – Avverso tal statuizione e gli atti connessi il sig. -OMISSIS- insorse innanzi al TAR Napoli, con il ricorso NRG -OMISSIS-/2011, deducendo: 1) – l’insufficienza e l’incongruità della motivazione in ordine all’interesse pubblico, attuale e specifico all’adozione dell’ordine ripristinatorio, intervenuto, come s’evince dal suo tenore (le opere sono di vecchia fattura e di modeste dimensioni), dopo oltre un ventennio dalla loro realizzazione ed essendo altresì il lungo lasso di tempo intercorso per inerzia della P.A., obbligata a tal onere motivatorio per aver creato una posizione d’affidamento in capo al privato; 2) – l’inefficacia dell’impugnata ordinanza per l’avvenuta presentazione dell’istanza ex artt. 36 e 37 del DPR 380/2001 del 1° aprile 2011; 3) – l’impossibilità d’individuare, mercé il generico richiamo congiunto all’art. 27, co. 2 del DPR 380/2001 ed all’art. 167 del D.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, la specifica norma che il Comune intese applicare a giustificazione dell’ordine di demolizione e ripristinatorio, determinando così un indebito cumulo tra la sanzione urbanistica (su cui esercita un potere proprio) e quella ambientale (su cui esercita una funzione delegata), violando il principio del giusto procedimento; 4) – l’illegittimità dell’impugnata ordinanza per esser state realizzate opere di modesta entità, di fattura precaria e di natura evidentemente pertinenziale ed accessoria, senza che ciò avesse assunto i connotati d’un fatto di particolare rilevanza, tant’è che verso il ricorrente non fu promossa azione penale.
A seguito del decesso del sig. -OMISSIS-, la causa fu ritualmente riassunta dai suoi eredi ed aventi causa sig. -OMISSIS-e consorte. I ricorrenti hanno ritualmente ribadito l’interesse al predetto gravame entro la scadenza del termine quinquennale di perenzione. Il Comune di (omissis), pur debitamente evocato in quel giudizio, non vi s’è costituito.
3. – L’adito TAR, con sentenza n. -OMISSIS- del 9 maggio 2018 e ferma l’applicazione ai ricorrenti della sanzione ex art. 26, co. 2, c.p.a. (per un importo pari a tre volte la misura del CU), ha integralmente respinto la pretesa attorea.
Tanto perché : a) non fu offerto alcun principio di prova sulla datazione delle opere contestate e, in ogni caso, essa sarebbe stata superflua giacché, per consolidata giurisprudenza, la demolizione di manufatti edilizi mai assistiti da alcun titolo legittimante, ancorché tardivamente ingiunta, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata ai relativi presupposti in fatto e diritto non richiese affatto alcuna motivazione sulle ragioni di pubblico interesse (diverse dal mero ripristino della legittimità violata) che imponessero la rimozione dell’abuso (cfr. Ad. plen., n. 9/2017), né l’eventuale inerzia del Comune avrebbe potuto mai radicare legittimi affidamenti in capo al proprietario, il semplice trascorrere del tempo non essendo idoneo a far divenire legittimo ciò che non lo era ab origine; b) la presentazione di un’istanza ex art. 36 del DPR 380/2001 non rende inefficace la sanzione pregressa (e, quindi, non determina l’improcedibilità dell’impugnazione contro l’ordine di demolizione), ma comporta al più un arresto temporaneo dell’efficacia di quest’ultimo, il quale la riacquista in caso di rigetto, esplicito o implicito, di tal istanza; c) tal ordinanza chiaramente richiama l’art. 27 del DPR 380/2001 e l’art. 167 del D.lgs. 42/2004 a fondamento dell’esercizio del potere repressivo, poiché entrambe tali norme fondano il potere di ripristino avanti ad un’attività edilizia svolta in spregio alle norme paesaggistiche-ambientali, o quando sia accertata l’esecuzione di opere senza titolo su aree assoggettate a vincoli d’inedificabilità od a vincoli paesaggistici; d) ad onta di quel che i ricorrenti deducono, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale e ma non anche a quelle che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (onde una tettoia o una veranda che occupino, come nella specie, una superficie di dimensioni indubbiamente rilevanti non sono pertinenze urbanistiche, possedendo un’individualità fisica propria e determinando un’alterazione significativa dell’assetto del territorio) e non siano neppure precarie ed amovibili.
Appellano quindi la sig. -OMISSIS-e consorte, col ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità di detta sentenza per non aver considerato:
1) l’offerta attorea d’un serio principio di prova in merito alla vetustà delle opere sanzionate (tenuto conto della loro descrizione nel provvedimento comunale come di “vecchia tipologia costruttiva”, nonché dei rilievi fotografici allegati al verbale di sopralluogo in data 2 novembre 2010), ossia dati oggettivi e pacifici (perché provenienti e suffragati proprio dal contenuto di atti richiamati da detto Comune e mai da esso contestati), donde l’applicazione del principio di non contestazione ex art. 64 c.p.a. per mancata difesa in giudizio e non anche dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017 ad un caso tanto peculiare da imporre al Comune un giudizio congruo e motivato sulla comparazione tra affidamento del privato e rimozione di tali abusi;
2) gli effetti del principio enunciato, secondo cui la presentazione di un’istanza ex art. 36 del DPR 380/2001 non renderebbe inefficace la sanzione applicata e non darebbe luogo ad improcedibilità, a fronte d’un ben altro e contrario orientamento giurisprudenziale già consolidatosi al momento della proposizione del ricorso (su cui parte ricorrente aveva evidentemente fatto affidamento nel porre il suo secondo mezzo di gravame) e volto a ribadire la conseguente necessità d’un nuovo rigetto in esito al riesame dell’abusività dell’opera provocato da tale istanza, ferma, se del caso, la richiesta di rimessione all’Adunanza plenaria della relativa questione, qualora rilevi che la questione all’esame della Sezione dia o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, o reputi quella testé enunciata una questione di massima di particolare importanza;
3) che, nel giudizio di primo grado, era in discussione non già l’applicabilità in sé dell’art. 27 del DPR 380/2001 o dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, ma l’omessa specificazione, da parte dell’ordine di demolizione, per quale distinta illegittimità il Comune avesse voluto irrogare detta sanzione;
4) – la diversità ontologica e funzionale d’ognuna delle opere sanzionate (e invece trattate come su fossero un tutt’uno) ed aver addirittura travisato il senso della censura sulla tettoia (relativa solo alla copertura di essa con lamierini in fiberglass), mentre ciascun’opera, per la sua oggettiva differenza e singolarmente considerata, aveva natura pertinenziale ed accessoria per una migliore e più agevole fruizione dell’edificio attoreo, fermo restando che sulla copertura in plexiglass della scala il TAR ha omesso totalmente di pronunciarsi;
5) l’inapplicabilità del nuovo testo all’art. 26, co. 2, c.p.a., come novellato dal D.lgs. 15 novembre 2011 n. 195 (e con effetto dall’8 dicembre successivo), ad una causa proposta con ricorso notificato il 4 aprile 2011 e depositato il successivo giorno 30, ferma comunque restando l’insussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione colà prevista (al di là della manifesta infondatezza della pretesa azionata), sia perché i ricorrenti non s’erano in modo temerario opposti alla perenzione della causa, sia perché non fu temerario neppure il ricorso in sé ed i motivi ivi dedotti, tant’è che solo con l’AP n. 9/2017, richiamata dal TAR per respingere il ricorso, era stato definito il contrasto tra la tesi controversa e con un esito diverso da quella cui nel 2011 aveva aderito il sig. -OMISSIS-.
S’è costituito in giudizio il Comune di (omissis), concludendo in modo generico per il rigetto della pretesa attorea.
Con memoria depositata il 4 giugno u.s., gli appellanti, nel riportarsi a quanto appellato e chiedendo il passaggio della causa in decisione, eccepiscono l’inammissibilità della costituzione solo in questo grado del Comune e concludono nei sensi indicati.
4. – È manifestamente infondata la contestazione del contenuto della costituzione del Comune in questa sede, poiché perlopiù essa replica e fa propri gli argomenti addotti dalla sentenza gravata.
Per quanto attiene al richiamo all’art. 21-octies della l. 7 agosto 1990 n. 241, in realtà questo è non un novum in appello, bensì lo sviluppo del concetto della doverosità della funzione sanzionatoria contro gli abusi edilizi (su tal concetto, cfr., per tutti, Cons. St., V, 17 marzo 1978 n. 327, già sotto il regime dell’art. 32, III co. della l. 17 agosto 1942 n. 1150; id., 19 ottobre 1979 n. 593, ai sensi dell’art. 15, III co. della l. 28 gennaio 1977 n. 10; id., 3 gennaio 1991 n. 1; id., 29 agosto 1994 n. 925; id., 19 marzo 1996 n. 270, sotto il regime dell’art. 7 della l. 47/1985). L’esercizio di questa funzione neppure abbisogna d’una specifica motivazione che dia contezza d’un peculiare interesse pubblico alla repressione di tali abusi, poiché esso è in re ipsa nella rimozione dell’opera illecita (cfr. Cons. St., V, 1° giugno 1979 n. 282; id., 20 febbraio 1985 n. 104; id., IV, 3 febbraio 1996 n. 95; id., 5 febbraio 1998 n. 198; id., 28 marzo 1998 n. 363; id., V, 11 luglio 1999 n. 143; id., 5 marzo 2001 n. 1244).
Come si vede, i principi testé enunciati, che costituiscono il fulcro dell’impianto motivatorio della sentenza appellata -e che il Collegio condivide-, sono risalenti nel tempo, addirittura al regime ex l. 1150/1942 e non certo l’approdo ermeneutico successivo all’arresto dell’Adunanza plenaria n. 9/2017, come vorrebbero sostenere gli appellanti.
4.1. – Invero, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è anche nel regime ex art. 31 del DPR 380/2001 (ma che si pone, pur nelle differenze di dettaglio, in continuità con l’art. 15 della l. 10/1977 e l’art. 7 della l. 47/1985) un atto vincolato.
Pertanto, tal provvedimento non richiede la specifica valutazione delle ragioni d’interesse pubblico, né la comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tampoco una motivazione specifica sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’applicazione della sanzione demolitoria (cfr. così, oltre alla giurisprudenza antica, Cons. St., VI 31 agosto 2010 n. 3955, ben anteriore alla citata sentenza dell’Adunanza plenaria). La giurisprudenza antica tese ad attestarsi, in base all’art. 32 della l. 1150/1942, sul principio che la P.A. non avesse alcun dovere di esternare le ragioni di pubblico interesse che essa intendesse perseguire, essendo la sanzione edilizia subordinata soltanto all’esistenza d’un illecito edilizio e alla descrizione di esso con un sufficiente grado di specificità fisica dell’opera abusiva (cfr. Cons. St., V, n. 327/1978, cit.; id., 1° dicembre 1978 n. 1206; id., 12 gennaio 1979 n. 9; id., n. 282/1979, cit.; id., 30 settembre 1980 n. 785; id., 24 ottobre 1980 n. 872, sull’irrilevanza d’ogni ponderazione d’un pubblico interesse specifico per una sanzione irrogata anche dopo molto tempo dal commesso abuso e, in tal senso, cfr. id., 10 luglio 1982 n. 607; id., IV, 6 dicembre 1985 n. 596; id., 5 giugno 1991 n. 880; id., 29 agosto 1994 n. 925). Le sole, ma limitate eccezioni furono in singoli casi di specie, quando la sanzione era intervenuta a distanza dell’accertato lungo tempo dalla commissione dell’abuso per l’inerzia colpevole della P.A. (e giammai nel caso contrario, ossia quando fu il privato ad assumere atteggiamenti ostruzionistici) o per giustificare l’applicazione di una sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria. Sicché è vero che vi furono opinioni variegate, ma non divaricate in giurisprudenza, la questione della ponderazione dell’interesse pubblico con gli interessi del privato rispetto alla demolizione essendo minoritaria e, comunque, via via recessiva a far tempo dai tre decisivi arresti della V Sezione (cfr. Cons. St., V, 12 marzo 1996 n. 247; id., 19 marzo 1996 n. 270; id., 12 novembre 1996 n. 1317), che già prefigurarono molti dei temi definiti in seguito dalla Plenaria n. 9/2017.
Ebbene, a parte l’omessa dimostrazione del tempo in cui furono realizzati gli abusi commessi dal dante causa degli odierni appellanti -all’uopo non bastando il mero riferimento all’inciso “vecchia tipologia costruttiva”, relativo alla sola veranda ed in sé generico e non connotante d’alcunché -, in ogni caso l’arresto della Plenaria n. 9 determinò non un vero revirement su principi consolidati di segno opposto, bensì la definitiva sistemazione di concetti già da tempo stratificati e tutt’altro che nuovi o inusitati nella giurisprudenza di questo Consiglio. È corretta dunque la statuizione del TAR, laddove precisa tanto l’assenza di prova della vetustà di tutte le opere abusive, quanto l’irrilevanza d’una tal ricerca. E ciò grazie al principio, già prevalente nell’antica giurisprudenza ed ormai ben stabilizzatosi, per cui l’ordine di demolizione di opere edili mai fondate su un titolo legittimante non abbisogna, seppur tardivamente ingiunto ed a causa della natura vincolata di esso, della motivazione sulle ragioni di pubblico interesse (diverse dal ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Analogamente va detto con riguardo all’impossibilità di ravvisare alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto e illecita che il tempo non può mai legittimare (cfr. Cons. St., V, 8 giugno 1994 n. 614; id., IV, 3 febbraio 1996 n. 95; id., V, 14 ottobre 1998 n. 1483; id., 11 febbraio 1999 n. 144; e, per il tempo dei fatti di causa, cfr. Cons. St., V, 11 gennaio 2011 n. 79; id., 27 aprile 2011 nn. 2497 e 2526, comunque mai per gli immobili abusivi ricadenti in aree soggette a vincolo paesaggistico, id., 27 agosto 2012 n. 4610; id., IV, 28 dicembre 2012 n. 6702; id., VI, 4 marzo 2013 n. 1268, 20 giugno 2013 n. 3367 e 4 ottobre 2013 n. 4907; id., IV, 4 marzo 2014 n. 1016; id., V, 29 luglio 2016 n. 3435; id., VI, 30 giugno 2017 n. 3210). Ove si desse rilievo al lungo tempo trascorso tra abuso e sanzione, sia pur al solo fine di incidere sul quantum di motivazione richiesto alla P.A., si perverrebbe in via pretoria a delineare una sorta di “sanatoria extra ordinem” (e sempiterna), la quale opererebbe pur ove l’interessato non abbia potuto, o voluto avvalersi delle disposizioni sulla sanatoria degli abusi edilizi (cfr. Cons. St., VI, 5 gennaio 2015 n. 13).
La ragione è evidente: quantunque il principio della tutela dell’affidamento permei il sistema dei rapporti tra i cittadini e la P.A., nel caso della mancata repressione di un abuso edilizio il fattore tempo opera non in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, o presunta tale e che dà l’apparenza e l’aspettativa d’una sorta di sanatoria materiale estintiva di detto illecito, bensì in antagonismo con l’azione amministrativa sanzionatoria. Per le funzioni di vigilanza e controllo dell’ordinato assetto del territorio, in mancanza di un’espressa previsione normativa in deroga o di prescrizione della potestà sanzionatoria vale il principio dell’inesauribilità di questa, a causa della natura d’illecito permanente riconoscibile nell’abuso edilizio. In tal caso, l’attività dei privati è sempre sanzionabile, qualunque siano il tempo già trascorso e l’entità dell’infrazione, donde l’assenza d’un affidamento, per forza di cose tutt’altro che incolpevole, alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, in forza di una legittimazione fondata sul tempo (cfr. Cons. St., IV, 31 agosto 2010 n. 3955; id., V, 27 aprile 2011 n. 2497; VI, 11 maggio 2011 n. 2781; id., IV, 4 maggio 2012 n. 2592).
4.2. – Diversamente da quel che opinano gli appellanti, ha ragione il TAR a predicare il ben noto e chiaro principio secondo il quale la presentazione di un’istanza ex art. 36 del DPR 380/2001 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio dapprima emanato e, soprattutto, non determina la improcedibilità del ricorso proposto contro quest’ultimo, per sopravvenuta carenza d’interesse.
Invero, già al tempo dei fatti di causa era stato acclarato come non vi fosse alcuna norma di legge, tanto meno nello stesso DPR 380/2001, in virtù della quale la presentazione di una domanda per l’accertamento de quo potesse render irrilevanti i precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori (cfr. Cons. St., VI, 9 aprile 2013 n. 1909; id., 2 febbraio 2015 n. 466; id., 8 aprile 2016 n. 1393; id., 5 novembre 2018 n. 6233; id., 1° marzo 2019 n. 1435). Alcune disposizioni del passato (riconducibili all’art. 31 della l. 47/1985 ed aventi portata eccezionale) in effetti avevano previsto la sospensione dei giudizi pendenti e la mancata eseguibilità di atti di natura sanzionatoria, riguardanti opere oggetto delle istanze di condono c.d. straordinario. Ma si trattò d’una normativa di stretta interpretazione ed esclusivamente collegata al regime dei diversi condoni edilizi succedutisi nel tempo, nonché in relazione al richiamo di volta in volta recato in essi alla medesima legge n. 47. Per contro, quando vi è l’impugnazione d’una sanzione edilizia ed è proposta una domanda ex art. 36 del DPR 380/2001, in base alla legislazione vigente nessuna disposizione prevede che questo Giudice debba sospendere il giudizio, né che la P.A. o il Giudice stesso rilevino la sopravvenuta carenza di effetti della sanzione emanata in precedenza.
Anche in questo caso e al di là di altre opinioni pur propugnate in passato, al tempo in cui l’istanza ex art. 36 fu presentata, il TAR non ha fatto che applicare una regola, chiaramente ritraibile dalla serena lettura del decreto n. 380 e già stabile nella giurisprudenza e nella prassi. Tanto a causa della impossibilità ontologica d’assimilare tal accertamento al condono edilizio, quantunque accomunati sotto l’unica, ma erronea e spuria etichetta di “sanatoria”, giacché l’uno riguarda, in base alla regola della c.d. “doppia conformità “, la mera regolarizzazione dell’opera, mentre l’altro in effetti sana un illecito esistente e lo recupera a legalità in un contesto pianificatorio a ciò preordinato.
Né basta: è incontestato tra le parti il fatto che l’istanza attorea del 1° aprile 2011 non ebbe responso alcuno da parte del Comune, sicché su di essa maturò in illo tempore il silenzio rigetto ex art. 36, co. 3 del DPR 380/2001, una volta decorsi i sessanta giorni dal deposito di detta domanda. Sicché è vano discettare qual regime si dovesse applicare, se quello, speciale, del condono o quello che, sia pur per gradi, è emerso e s’è stabilizzato nel senso indicato dal TAR.
È appena da soggiungere che il silenzio serbato dal Comune sull’istanza stessa ha valore non già di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso detto termine, non sussiste un obbligo di provvedere sull’istanza, dovendosi ritenere già perfezionata la statuizione negativa da impugnare nel termine ordinario di decadenza. Da ciò discende che: A) l’intervenuta presentazione dell’istanza d’accertamento non paralizza i poteri sanzionatori comunali, né determina alcun’inefficacia sopravvenuta o alcuna invalidità di sorta dell’ordine di demolizione; B) in pendenza del termine di decisione sulla domanda d’accertamento, l’esecuzione della sanzione è solo temporaneamente sospesa; C) ove sia mancata la tempestiva impugnazione del diniego tacito maturato per decorso del termine di legge, l’ingiunzione di demolizione è eseguibile e non occorre emanare ulteriori atti sanzionatori; D) una volta conclusosi negativamente l’iter avviato con siffatta istanza, sussistono i presupposti per l’adozione dei provvedimenti repressivi degli abusi; E) tutto ciò vale pure per il tempo in cui furono accertati detti abusi, come è facile leggere nel testo dell’art. 36, co. 3 del DPR 380/2001, nel testo vigente fino al 12 settembre 2014.
4.2. – Lamentano gli appellanti che, al di là del tempo della loro realizzazione gli abusi accertati e sanzionati sono di modesta entità, son state trattate come un tutt’uno (e non valutate ciascuna per sé ) e hanno natura oggettivamente pertinenziale.
Tali doglianze non hanno pregio e, soprattutto, travisano il concetto di pertinenza urbanistica, oltre a minimizzare l’impatto delle opere abusive da rimuovere.
Anzitutto, è fermo avviso della Sezione (cfr., Cons. St., VI, 20 marzo 2000 n. 1507; id., 27 gennaio 2003 n. 419; cfr. pure, per l’antica giurisprudenza id., V, 29 gennaio 1996 n. 103; id., 7 ottobre 1996 n. 1194; cfr. altresì, da ultimo, id., VI, 26 marzo 2018 n. 1893; id., 5 settembre 2018 n. 5204; id., 9 ottobre 2018 n. 5801; id., 4 ottobre 2019 n. 6720; ma cfr. pure id., II, 12 febbraio 2020 n. 1092) che la veranda, realizzata sulla balconata d’un appartamento, determina una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale è realizzata e, quindi, è soggetta al previo rilascio di permesso di costruire. Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di tutto o parte del balcone, con conseguente aumento della volumetria e modifica del prospetto. Né rileva la natura dei materiali utilizzati, ché la chiusura, pur dove realizzata con pannelli in alluminio o altro materiale leggero, costituisce comunque un aumento volumetrico e, quindi, non può esser intesa qual “pertinenza” in senso urbanistico, poiché la veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi a un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie. Anzi, tal vicenda, ben lungi dall’esser un elemento di scarso rilievo (p.es., per i materiali adoperati o la modestia di superficie occupata), ha un proprio impatto paesaggistico e, come tale, oltre ad esser un intervento ampliativo di ristrutturazione è pure un manufatto edilizio equivalente ai fini della doverosa autorizzazione paesaggistica (cfr. Cons. St., VI, 2 luglio 2018 n. 4001).
In secondo luogo, ha ragione il Comune, ed è corretta la sentenza sul punto, ad aver inteso l’unità funzionale dell’abuso, sia pur costituito da tre opere sì tra loro fisicamente diverse, ma non distinte sul piano funzionale. Donde la necessità, avvertita dalla P.A., di leggere le tre opere accertate (la veranda, il copriscala e la tettoia a copertura di parte del cortile fino al confine dell’edificio attoreo) come un corpus unitario e riferito unitariamente all’edificio originario. E ciò secondo la regola, da tempo affermata dalla Sezione (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 5 settembre 2012 n. 4711), secondo cui l’opera abusiva va identificata con riferimento alla unitarietà dell’immobile di riferimento, ove essa sia stata realizzata in esecuzione di un disegno funzionale unitario, essendo irrilevante la partizione di essa in più elementi tra loro sì diversi, ma connessi.
Infine, sfugge al Collegio perché mai, a fronte d’una ferma e rigorosa giurisprudenza che definisce il concetto e la funzione delle pertinenze urbanistiche -forse ostici a chi non è ferrato in materia, ma non certo al giurista-, ancora oggi s’insista a ritenere tali pure le opere testé menzionate. È per vero jus receptum (cfr., per tutti, Cons. St., VI, n. 1194/1996; id., II, 22 luglio 2019 n. 5130; id., VI, 10 gennaio 2020 n. 260 e 13 gennaio 2020 n. 309) che nell’ambito edilizio il concetto di pertinenza ha un significato diverso rispetto alla nozione civilistica, poiché si fonda sull’assenza di autonoma destinazione del manufatto pertinenziale, sulla ridotta incidenza di essa sul carico urbanistico e sulla lieve modifica all’assetto del territorio. A differenza della nozione di pertinenza rinvenibile in diritto civile, ai fini edilizi il manufatto può esser considerato pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non determina un maggiore o aggiuntivo “carico urbanistico”. Ciò infatti non è riconoscibile alle tre opere attoree, costituenti invece un unico e ben connesso passaggio coperto verso il balcone chiuso dalla veranda, a guisa, quindi, di aggiunta al e di estensione planovolumetrica del fabbricato originario.
La ragione è chiara: la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale, quali, p. es., i piccoli manufatti per contenere gli impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto di vista dimensionale e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, divenendone piuttosto un ampliamento e non potendo avere alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Cons. St., IV, 25 marzo 2019 n. 1943).
4.3. – Sulla scorta di tali considerazioni, è di tutt’evidenza l’infondatezza della pretesa attorea, ove insiste a pretendere d’aver censurato l’ordine di demolizione per non aver chiarito se sanzionasse le opere predette ai sensi dell’art. 31 del DPR 380/2001 o dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004.
L’ordinanza ebbe modo di chiarire che detti abusi furono plurioffensivi, in quanto realizzati senza il titolo edilizio e senza la prescritta autorizzazione in area soggetta a vincolo paesaggistico. È inutile, anzi specioso discettare quale dei due abusi prevalesse, poiché, per un verso, in realtà entrambi gli interessi pubblici erano stati pretermessi. Per altro verso, dette opere soggiacquero comunque alla citata misura ripristinatoria, com’è noto applicabile in via “edilizia” dal Comune anche per il sol fatto dell’abuso “paesaggistico”.
5. – Non ha gran senso neppure la dedotta inapplicabilità del nuovo testo all’art. 26, co. 2, c.p.a., come novellato dal D.lgs. 15 novembre 2011 n. 195 (e con effetto dall’8 dicembre 2011), ad una causa proposta con ricorso notificato il 4 aprile 2011 e depositato il successivo giorno 30.
Su tal aspetto, il testo ratione temporis del citato art. 26, co. 2, applicabile al ricorso di primo grado in quanto vigente dal 16 settembre 2010 e fino al 7 dicembre 2011, recitava: “… il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati…”.
La norma allora vigente, a differenza di quella attuale, si limitò a prevedere l’applicabilità di siffatta sanzione, ma liquidata in forma equitativa ed a favore dell’altra parte. Intervenne un nuovo testo dell’art. 26, co. 2, riformulato dal correttivo di cui al D.lgs. 15 novembre 2011 n. 195 e che previde sì la condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria della parte soccombente che avesse agito o resistito temerariamente in giudizio, applicabile ai soli atti, introduttivi o di costituzione in giudizio in resistenza, rispettivamente notificati o depositati successivamente alla data di tal novella (cfr. così Cons. St., V, 26 marzo 2012 n. 1733). Nel frattempo è intervenuta un’ulteriore novella, di cui all’art. 41, co. 1, lett. b) del DL 24 giugno 2014 n. 90 (conv. modif. dalla l. 11 agosto 2014 n. 114), in virtù della quale “il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio”.
Ma è indubbio che il vecchio testo dell’art. 26, co. 2 fosse applicabile alla presente controversia, poiché proposta dopo l’entrata in vigore del c.p.a. Del pari certo è che il Giudice di prime cure avesse il potere di determinarne l’importo in via equitativa, secondo gli ordinari parametri di seria ragionevolezza e di non manifesta irrazionalità, con riguardo alla responsabilità delle parti per le condotte processuali posteriori all’entrata in vigore di detta norma, per il principio generale d’irretroattività dei casi di responsabilità amministrativa ex art. 1 della l. 24 novembre 1981 n. 689.
Non a diversa conclusione reputa il Collegio di pervenire con riguardo alla dedotta insussistenza dei presupposti per l’irrogazione di tal sanzione. Nel previgente regime sulla liquidazione delle spese di lite -sotto cui, come s’è detto, fu iniziata la presente controversia, donde l’applicabilità del testo originario dell’art. 26, co. 2, c.p.a.-, la sanzione de qua, a differenza dell’art. 96, III co., c.p.c., era subordinata, oltre che alla valutazione equitativa d’ufficio del Giudice, alla verifica del presupposto che la decisione fosse fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Ed è esattamente quel che è accaduto nella specie, nel senso, cioè, che la norma non contemplava, quali presupposti per il suo uso da parte del Giudice, fatti o comportamenti di mala fede o temerari dei ricorrenti, né soltanto la manifesta infondatezza della pretesa azionata. Essa si basava piuttosto sulla circostanza che il Giudice l’avesse risolta in base a ragioni (in fatto ed in diritto) manifeste e secondo orientamenti consolidati, nel caso in esame, della giurisprudenza antica (cioè, formatasi in base alla l. 1150/1942, alla l. 10/1977 ed alla l. 47/1985) ed attuale (cioè, formatasi in base al DPR 380/2001). La giurisprudenza del tempo chiarì esattamente il significato e gli effetti del primigenio testo dell’art. 26, co. 2, nel senso che esso non riguardò le spese di lite (quantificate con la condanna alle spese secondo la logica propria delle regole poste dagli artt. 91 e 92 c.p.c.), né la responsabilità da lite temeraria (come tipizzata dell’art. 96, commi I e II, c.p.c.), né la pretesa sostanziale (su cui statuiva il contenuto dispositivo della sentenza) e neppure configurò una sanzione pubblica, essendo la liquidazione del relativo importo affidata all’equità, qui intesa nel tradizionale significato di criterio di valutazione giudiziario correttivo o integrativo, teso al contemperamento, nella logica del caso concreto, dei contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale (cfr. Cons. St., V, 23 maggio 2011 n. 3053). Scolorano così tutte le questioni sulla presenza, o meno, dei presupposti che gli appellanti vorrebbero ritrarre dall’art. 96 c.p.c. e che qui non trovano sponda, giacché quelli, specifici, indicati nell’art. 26, co. 2, c.p.a. esistevano e sono facilmente rinvenibili nella sentenza di primo grado e nella manifesta infondatezza dei motivi originari e di quelli d’appello che in varia guisa li ribadiscono, nonché nell’avere il TAR deciso alla luce di precedenti giurisprudenziali forti, condivisi da tutti i Giudici amministrativi e, allo stato, resistenti all’istanza attorea di rimessione di tutto quanto dedotto ad un nuovo vaglio dell’Adunanza plenaria.
È appena da osservare come i presupposti all’uopo indicati dal TAR e la misura della liquidazione si appalesano prima facie precisi, logicamente congruenti coi fatti di causa e non affetti da iniquità o erroneità manifeste, né da violazioni di legge.
6. – In definitiva, l’appello va integralmente respinto. Tutte le questioni testé vagliate esauriscono la vicenda sottoposta all’esame della Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. e gli argomenti di doglianza non esaminati espressamente sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), definitivamente pronunciando sull’appello (ricorso NRG 10127/2018 in epigrafe), lo respinge.
Condanna gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che sono nel complesso liquidate in Euro 7.000,00 (Euro settemila), oltre accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, all’oscuramento delle generalità delle parti e dei provvedimenti oggetto di giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 9 luglio 2020, con l’intervento dei Magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Silvestro Maria Russo – Consigliere, Estensore
Luigi Massimiliano Tarantino – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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