Corte di Cassazione, penale, Sentenza|26 febbraio 2021| n. 7578.
Il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale e, dunque, di favore per l’imputato. (In motivazione la Corte ha chiarito che l’accoglimento dell’impugnazione del solo imputato in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio non può essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice).
Sentenza|26 febbraio 2021| n. 7578
Data udienza 17 dicembre 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Reati contravvenzionali – Applicazione della pena al di sotto dei minimi edittali – Appello dell’imputato – Giudice di secondo grado – Applicazione della diminuente – Rilevanza dell’errore solo se sfavorevole all’imputato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente
Dott. FILDEBO Giorgio – Consigliere
Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere
Dott. ZAZA Carlo – rel. Consigliere
Dott. RAMACCI Luca – Consigliere
Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere
Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 15/10/2019 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CASELLA Giuseppina, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il 28 maggio 2018 il Tribunale di Como, all’esito di giudizio abbreviato, condannava (OMISSIS) alla pena di due mesi di arresto per il reato di cui all’articolo 699 c.p., per avere portato fuori dalla propria abitazione un coltello a serramanico, arma per cui non e’ ammessa licenza.
In assenza di una precisazione del capo di imputazione in ordine a quale, fra le due distinte ipotesi regolate dall’articolo 699 c.p., fosse contestata all’imputato, il giudice, pur ritenendo integrato il fatto storico descritto nel capo di imputazione, applicava la pena prevista dall’articolo 699 c.p., comma 1, (arresto fino a diciotto mesi), in quanto determinava la pena-base in tre mesi di arresto. Su di essa operava la riduzione di un terzo per il rito abbreviato.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello l’imputato, il quale formulava due motivi di doglianza. Deduceva l’erronea qualificazione giuridica del fatto, da ricondurre nell’ambito della previsione della L. 18 aprile 1975, n. 110, articolo 4, commi 2 e 3, e non dell’articolo 699 c.p., comma 1. Inoltre lamentava l’erronea riduzione della pena per il rito, operata nella misura di un terzo anziche’ della meta’, come stabilito dall’articolo 442 c.p.p., per le contravvenzioni.
La Corte di appello di Milano riqualificava il fatto ai sensi della L. n. 110 del 1975, articolo 4, esclusa l’ipotesi del fatto di lieve entita’, ma, nel ravvisare la fondatezza del motivo di impugnazione relativo all’erronea diminuzione per il rito, non operava in concreto alcuna diminuzione della pena, osservando che la stessa, pur in assenza della riduzione per il giudizio abbreviato nella misura della meta’, era comunque piu’ favorevole all’imputato rispetto a quella prevista dalla citata L. n. 110 del 1975, articolo 4, che stabilisce un minimo edittale di sei mesi di arresto.
2. Il ricorrente deduceva violazione di legge in relazione alla determinazione della pena sotto i seguenti profili.
La sentenza impugnata aveva ritenuto fondati i motivi di appello, riguardanti non solo la diversa qualificazione del fatto, ma anche l’entita’ della diminuente per il rito, pari ad un terzo invece che alla meta’, prevista dall’articolo 442 c.p.p., comma 2, per i reati contravvenzionali. Tale maggiore riduzione non era stata, pero’, in concreto applicata, in quanto la Corte territoriale l’aveva ritenuta assorbita nella quantificazione della pena inflitta dal Tribunale in misura erroneamente inferiore al minimo edittale.
In tal modo, pero’, era stato eluso il chiaro disposto normativo che impone al giudice di operare la riduzione per il rito in modo predeterminato a seconda che si tratti di delitto o di contravvenzione. Inoltre, era stata effettuata una non consentita commistione dei motivi di appello accolti, i quali avrebbero dovuto essere esaminati distintamente, disponendo, dapprima, la riqualificazione del fatto, ferma la pena-base inflitta in primo grado per non incorrere nel divieto di reformatio in pejus e, successivamente, diminuendo detta pena per il rito nella misura corretta.
3. Con ordinanza del 30 settembre 2020 la Prima Sezione penale di questa Corte, investita della decisione sul ricorso, rilevava preliminarmente che il giudice di primo grado aveva affermato la piena fondatezza dell’imputazione, senza discostarsi dall’ipotesi storico-giuridica formulata dal pubblico ministero (porto abusivo di un’arma per cui non e’ ammessa licenza) comportante la previsione edittale di pena compresa tra il minimo di diciotto mesi e il massimo di tre anni di arresto. La pena di tre mesi di arresto in concreto irrogata nei suoi confronti era evidentemente riferita alla cornice edittale prevista per la diversa fattispecie di porto di arma senza licenza (articolo 699 c.p., comma 1) stabilita fra il minimo di tre mesi e il massimo di diciotto mesi di arresto, e doveva pertanto ritenersi illegale.
La decisione della Corte di appello di non ridurre la pena inflitta – cosi’ avendo ritenuto di doversi discostare dal principio di cui all’articolo 597 c.p.p., comma 4, destinato a regolare gli effetti dell’accoglimento dell’appello dell’imputato su circostanze o reati concorrenti – nonostante la riconosciuta erroneita’ della misura della diminuente per il rito in presenza di un reato contravvenzionale, e’ conforme all’orientamento giurisprudenziale per il quale l’irrogazione in primo grado di una pena illegale vantaggiosa per l’imputato consente di negare in appello effetti di ulteriore favore.
A questo indirizzo esegetico se ne contrappone, pero’, un altro in base al quale il trattamento sanzionatorio che abbia comportato una pena illegale di favore per l’imputato e’ intangibile in mancanza dell’impugnazione del pubblico ministero. L’ordinanza sottolineava, inoltre, che la diminuente per il rito abbreviato ha natura processuale, pur con ricadute sostanziali sulla misura della pena, e ha un’incidenza predeterminata su quest’ultima, costituendo in definitiva un posterius delle altre operazioni di commisurazione della pena. Rimetteva, pertanto, il ricorso alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto.
4. Con decreto del 8 ottobre 2020 il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione per l’udienza pubblica del 17 dicembre 2020. L’udienza si e’ svolta, tuttavia, nelle forme del rito camerale ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176.
5. Nella propria requisitoria il Pubblico Ministero ha preliminarmente individuato il tema centrale della questione nella configurabilita’ del principio di intangibilita’ della pena illegale di favore quale immanente al sistema penale ovvero quale derivazione processuale del divieto di reformatio in pejus. Ha rammentato che le Sezioni Unite di questa Corte hanno piu’ volte evidenziato l’esigenza di tutela della liberta’ personale rispetto alla pena illegale sfavorevole, mentre analoghe ragioni di intervento correttivo officioso non si registrano con riferimento alla pena illegale di favore.
Sulla base di tale premessa argomenta che per la pena illegale sfavorevole prevale la necessita’ di riparazione dell’errore, mentre per la pena illegale di favore viene ad essere privilegiata la conservazione dell’errore con la conseguente necessita’, tuttavia, di non amplificarne la portata. Osserva come a quest’ultima necessita’ non sfugga la diminuente per il rito abbreviato, che pur nelle sue caratteristiche premiali, non puo’ che operare all’interno di un sistema di sanzioni legali.
Ha chiesto il rigetto del ricorso osservando che il giudice di appello non e’ tenuto ad applicare la diminuente del rito abbreviato nella maggiore misura prevista dalla legge, ove all’imputato sia stata inflitta una pena illegale allo stesso favorevole.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione rimessa alle Sezioni Unite e’ stata formulata nei seguenti termini: “Se il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442 c.p.p., nella misura di un terzo anziche’ della meta’, debba applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali e sia di favore per l’imputato”.
2. In caso di giudizio abbreviato, la diminuzione di un terzo della pena, originariamente prevista per tutti i reati dall’articolo 442 c.p.p., comma 2, e’ stata stabilita nella misura della meta’ per i reati contravvenzionali (come quello per il quale e’ stata affermata la responsabilita’ dell’ (OMISSIS)), a seguito della modifica introdotta dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, articolo 1.
La Corte di legittimita’, in conformita’ ai principi enunciati da Sez. U, n. 25887 del 26 marzo 2003, Giordano, ha affermato che tale disposizione innovativa si applica, ai sensi dell’articolo 2 c.p., comma 4, anche ai fatti anteriormente commessi, purche’ sugli stessi non si sia formato il giudicato (Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019, Lazzara, Rv. 275218; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752), condizioni che ricorrono nel caso di specie.
E ben vero, infatti, che la natura processuale della diminuente per il rito, in quanto non attiene alla valutazione del fatto-reato e alla personalita’ dell’imputato, non contribuisce a determinare in termini di disvalore la quantita’ e gravita’ criminosa, consistendo in un abbattimento fisso e predeterminato connotato da automatismo senza alcuna discrezionalita’ valutativa da parte del giudice. Al contempo, pero’, le caratteristiche della diminuente si presentano collegate con effetti di sicuro rilievo dal punto di vista sostanziale, derivandone, come rilevato in piu’ occasioni dalla Sezioni Unite di questa Corte, un trattamento sanzionatorio piu’ favorevole (Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007, Volpe; Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib; Sez. U, n. 2977 del 6/3/1992, Piccillo).
3. Tanto premesso, l’ordinanza di rimessione richiama, con riguardo alla questione proposta, due orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di legittimita’ sulla doverosita’ o meno dell’applicazione da parte del giudice d’appello di un effetto sanzionatorio favorevole all’imputato, qualora la pena inflitta in primo grado sia inferiore al minimo edittale. Va subito precisato che i due indirizzi esegetici non si sono specificamente formati sulla questione rimessa alla cognizione del Collegio, ma hanno trattato casi esplicitamente riconducibili alle fattispecie previste dall’articolo 597 c.p.p., comma 4, secondo il quale “in ogni caso, se e’ accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata e’ corrispondentemente diminuita”.
3.1. Un primo orientamento (Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007, Bougataya Assan, non mass.) afferma che l’articolo 597 c.p.p., comma 4, presuppone che la pena, sulla quale si dovrebbe operare la riduzione per effetto dell’accoglimento dell’appello proposto dall’imputato, sia stata irrogata nel rispetto dei limiti di legge. In assenza di questa condizione, la riduzione ulteriore della pena determinerebbe il perpetuarsi di una situazione di illegalita’ creatasi in primo grado a seguito di un trattamento sanzionatorio non conforme alle previsioni edittali.
Queste considerazioni sono state riprese in altra decisione (Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604) che ha ritenuto non violato il divieto di reformatio in peius in un caso in cui il giudice d’appello, nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione ai fini della rideterminazione della pena del reato continuato conseguente alla prescrizione di alcuni reati posti in continuazione, non aveva ridotto la pena complessivamente inflitta, in quanto la stessa era stata illegalmente determinata a vantaggio dell’imputato in misura inferiore al minimo edittale.
L’affermazione del principio, per il quale l’applicazione dell’articolo 597, comma 4, presupporrebbe la determinazione della pena in misura non illegittimamente inferiore al minimo edittale, si ritrova, poi, nel percorso motivazionale di altre sentenze, sia pure congiuntamente a considerazioni diverse sull’ulteriore principio che consentirebbe la rideterminazione complessiva della pena a seguito del mutamento della struttura del reato continuato, per effetto dall’assoluzione in appello per il reato ritenuto piu’ grave in primo grado (Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009), ovvero laddove all’appello dell’imputato sull’esclusione della recidiva, accolto in secondo grado, si aggiunga l’appello del pubblico ministero sull’illegittima determinazione della pena-base (Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012, dep. 2013, Martinelli, Rv. 254538).
3.2. Un secondo orientamento (Sez. 5, n. 44088 del 09/05/2019, Dzemaili, Rv. 277845) confuta tali argomentazioni osservando che le stesse, per un verso, non rispettano il tenore letterale dell’articolo 597 c.p.p., comma 4, nel quale non si fa menzione del presupposto applicativo della conformita’ ai limiti edittali della pena irrogata in primo grado; e per altro si pongono in contrasto con il principio, affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte Suprema (Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020, Di Mauro, Rv. 279905; Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv. 273677), di intangibilita’ della pena pure illegittimamente irrogata in termini favorevoli all’imputato, conseguente alla mancata impugnazione del pubblico ministero. Con la sentenza in commento si e’ ritenuta pertanto illegittima, in una fattispecie di declaratoria di estinzione per prescrizione, in secondo grado, di due reati contravvenzionali gia’ ritenuti satelliti nell’ambito di una continuazione, la conferma della pena irrogata in primo grado senza provvedere alla decurtazione degli aumenti corrispondenti ai reati prescritti, giustificata con il mancato rispetto del minimo edittale previsto per il reato piu’ grave. Si e’ osservato che la decisione del giudice di merito si risolveva nella sostanziale negazione delle riduzioni della pena dovute all’imputato in conseguenza della dichiarata estinzione dei reati.
4. Proprio in quanto riferiti, sia pure con opposte letture, alla previsione di cui all’articolo 597 c.p.p., comma 4, i due indirizzi in contrasto non affrontano in realta’ la tematica relativa all’applicabilita’ della diminuente del rito abbreviato ad una pena illegittimamente determinata in primo grado in senso favorevole all’imputato. La norma, nella struttura testuale in precedenza riportata, fa, infatti, esplicito ed esclusivo richiamo alla inderogabilita’ dell’applicazione degli effetti sanzionatori favorevoli derivanti per l’imputato dall’accoglimento dell’appello che abbia comportato l’esclusione di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, ovvero il riconoscimento di circostanze attenuanti. L’ipotesi del mancato riconoscimento della diminuente del rito abbreviato non e’ dunque contemplata in un dato letterale specificamente descrittivo di altre fattispecie; il che non consente di attribuire alla norma citata, anche intendendola applicabile ai casi di illegittimita’ della pena nel senso poc’anzi indicato in conformita’ al secondo degli orientamenti giurisprudenziali in precedenza richiamati, un’efficacia direttamente risolutiva della questione rimessa a queste Sezioni Unite.
La sentenza Dzemaili non porta tuttavia, a sostegno della seconda opzione interpretativa, unicamente la descritta visione della tematica relativa all’operativita’ del citato articolo 597, comma 4. Come si e’ detto, ulteriori argomenti in tal senso sono tratti dal principio giurisprudenziale di intangibilita’ della pena illegittima di favore. Quello che pero’ qui interessa sottolineare e’ che a tale principio si da’ concreta consistenza, nella motivazione della decisione, rilevando come nel caso di specie una diversa lettura avrebbe condotto al diniego di diminuzioni della pena costituenti la conseguenza, dovuta per legge, della eliminazione delle porzioni di pena corrispondenti a reati, facenti parte della riconosciuta continuazione, dichiarati estinti per prescrizione in accoglimento dell’appello dell’imputato.
Questo riferimento applicativo, nel porre l’accento sulla doverosita’ di benefici derivanti dalla ritenuta fondatezza di un motivo di appello, richiama a ben guardare l’attenzione sulla rilevanza, per la questione in esame, di un altro principio generale posto dall’articolo 597 c.p.p.; in particolare, il principio devolutivo previsto dal comma 1, della norma.
5. Il principio appena indicato e’ tradotto normativamente dalla disposizione citata limitando la cognizione del giudice di secondo grado ai “punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”.
Anche la gia’ menzionata giurisprudenza delle Sezioni Unite sull’applicazione dell’articolo 597, comma 4, ha ricondotto le prescrizioni di detta norma alla piu’ generale operativita’ del principio devolutivo, per il quale l’individuazione della cognizione del giudice di appello nell’ambito dei motivi proposti restringe il contenuto della decisione all’accoglimento o alla reiezione di tali motivi, non consentendo di operare su punti diversi da quelli toccati dall’impugnazione (Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013, Papola; Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales).
A questa implicazione del principio, rilevata anche in altra occasione prescindendo dal riferimento alle particolari fattispecie di cui all’articolo 597, comma 4 (Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, Michaeler, Rv. 235699), si e’ fatto piu’ recente richiamo nell’escludere che il giudice di appello abbia il potere di applicare d’ufficio sanzioni sostitutive brevi, non richieste con l’atto di impugnazione, al di fuori delle ipotesi tassativamente indicate dall’articolo 597 c.p.p., comma 5, atteso il carattere eccezionale di detta norma rispetto al principio devolutivo (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125). In particolare si e’ osservato che questo principio impone che, anche in materia di trattamento sanzionatorio, la cognizione del giudice di appello si eserciti unicamente sui punti relativi alle componenti di tale trattamento a cui si riferiscono specificamente i motivi di impugnazione proposti.
Tanto, con riguardo al caso di specie, comporta che, una volta riconosciuta la fondatezza di un motivo di appello che lamenta l’illegittima riduzione della pena in misura inferiore a quella prevista dalla legge per la diminuente del rito abbreviato, il giudice di secondo grado debba limitarsi ad adottare le conseguenti determinazioni in ordine alla rideterminazione di tale riduzione nella misura corretta, omettendo di allargare la propria decisione ad altre componenti del trattamento sanzionatorio non investite dall’impugnazione.
Ebbene, questa non consentita estensione della cognizione del giudice di appello si verificherebbe invece ove, in ragione di una ritenuta illegittimita’ in senso favorevole all’imputato della pena-base determinata in primo grado rispetto al limite minimo edittale, si mantenesse la pena complessiva nella dimensione stabilita con la sentenza appellata; in tal modo, infatti, si compenserebbe di fatto la riduzione non applicata per la diminuente del rito con un corrispondente indiretto effetto di aumento della pena-base, attingendo in senso sfavorevole all’imputato il tema della misura di quest’ultima e, quindi, un punto non devoluto con l’impugnazione.
6. La stessa giurisprudenza di legittimita’ ha peraltro evidenziato un’ulteriore implicazione del principio devolutivo, che alla sua immediata lettura in termini negativi – nel senso del divieto di estendere la cognizione del giudice di appello a punti diversi da quelli oggetto dei motivi di impugnazione proposti – ne aggiunge un’altra con la positiva affermazione di un obbligo dello stesso giudice di provvedere sul contenuto del gravame. Si tratta della coessenzialita’ al principio devolutivo del potere-dovere del giudice dell’impugnazione di esaminare e decidere le richieste dell’impugnante; di conseguenza, una volta che sia stato proposto uno specifico motivo di appello, il giudice e’ tenuto a pronunciarsi sul tema dedotto (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216238).
Questa conclusione, formulata con riguardo all’omessa pronuncia su un motivo riguardante il riconoscimento della continuazione fra i reati contestati, e’ stata confermata in relazione all’impugnazione concernente la misura dei singoli aumenti di pena applicati nell’ambito della continuazione (Sez. 3, n. 550 del 11/09/2019, dep. 2020, Pette’, Rv. 278279); e quindi con specifica attinenza alla determinazione quantitativa del trattamento sanzionatorio per effetto dell’istituto del cumulo giuridico delle pene che opera in favore dell’imputato.
Alla luce di questa condivisibile rappresentazione del contenuto sostanziale del principio devolutivo, una volta che sia dedotta al giudice di appello una questione sulla lamentata violazione di legge nella commisurazione della diminuente del rito abbreviato a favore dell’imputato, la stessa deve essere esaminata e, ove ritenuta fondata, deve comportare le conseguenti determinazioni da parte del giudice.
7. Le considerazioni che precedono in ordine all’obbligo per il giudice di appello di rispondere specificamente ai motivi proposti con l’impugnazione e sulle questioni con gli stessi devolute, derivante in linea generale dal principio posto dall’articolo 597 c.p.p., comma 1, trovano ulteriore e decisivo sostegno, con riguardo alla fattispecie in esame, nel collegamento della norma appena citata con quella di cui all’articolo 442 c.p.p., comma 2. La stessa prevede categoricamente la diminuzione della pena nella misura della meta’ per effetto dell’opzione difensiva per il rito abbreviato nei procedimenti nei quali sono contestati reati contravvenzionali. Il carattere tassativo di questa previsione nell’indicazione del quantum della riduzione scolpisce, quindi, nitidamente il contenuto dell’obbligo decisorio sul punto, al quale il giudice non puo’ sottrarsi, spettando correlativamente all’imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge. E l’inderogabilita’ dell’adempimento a tale obbligo e’ confermata dalla disposizione dell’articolo 438 c.p.p., comma 6 ter, per la quale il giudice del dibattimento, ove all’esito dello stesso ritenga erronea la declaratoria di inammissibilita’ della richiesta di giudizio abbreviato pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi del precedente comma 1 bis, e’ tenuto ad applicare la relativa diminuzione di pena.
Non va peraltro trascurato, sempre con riguardo al caso specificamente esaminato, il rilievo della previsione dell’articolo 597 c.p.p., comma 3. La citata disposizione interessa non sotto il profilo del generale divieto di reformatio in pejus ivi normato, ma per la correlazione che stabilisce tra divieto di rideterminazione della pena in senso sfavorevole all’imputato, ove quest’ultimo sia il solo appellante, e potere del giudice di dare al fatto una definizione giuridica piu’ grave.
Nel caso in esame, come gia’ detto, il giudice di appello riqualificava il fatto contestato (porto fuori della propria abitazione di un coltello a serramanico, arma per cui non e’ ammessa licenza) come violazione L. n. 110 del 1975, ex articolo 4, commi 2 e 3, la cui pena edittale, indicata nel minimo di sei mesi di arresto ed Euro mille di ammenda, e’ sicuramente superiore a quella prevista dall’articolo 699 c.p., comma 1, su cui il giudice di primo grado ha fondato la determinazione del trattamento sanzionatorio.
E’ sotto questo aspetto che assume rilievo l’articolo 597 c.p.p., comma 3, che impone al giudice di appello, in presenza dell’impugnazione del solo imputato, di non modificare in senso sfavorevole a quest’ultimo la pena determinata per un fatto, pur se sottoposto ad una diversa e piu’ grave qualificazione nel giudizio di secondo grado. Tale approdo esegetico e’ confermato dai principi affermati dalle Sezioni Unite (da ultima Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, Gialluisi) in tema di certezza e completezza della pena risultante da un giudicato non piu’ soggetto ad impugnazione da parte di soggetti processuali diversi dall’imputato.
8. Implicazione necessaria di quanto appena detto e’ che nel presente giudizio non possa tenersi conto di tematiche non devolute al giudice di secondo grado, come quelle relative alla legittimita’ della pena-base rispetto ai minimi edittali.
In tale prospettiva, il riferimento alla previsione dell’articolo 597 c.p.p., comma 4, non direttamente applicabile al caso in esame per le ragioni in precedenza illustrate, recupera un suo significato ermeneutico a sostegno della conclusione appena esposta, la cui ratio riceve conforto dalle finalita’ che hanno giustificato l’introduzione della predetta norma.
Con riguardo a tali finalita’, la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha piu’ volte sottolineato la portata integrativa dell’articolo 597 c.p.p., citato comma 4, rispetto al generale divieto di reformatio in pejus di cui al precedente comma 3 della medesima disposizione.
Sono tre gli aspetti piu’ significativi che meritano in questa sede di essere richiamati: l’obbligo di diminuzione della pena, in termini corrispondenti all’accolto motivo di appello dell’imputato, anche quando l’impugnazione sia stata altresi’ proposta dal pubblico ministero (Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034); il divieto di irrogazione, da parte del giudice di appello, di una pena piu’ grave in mancanza di impugnazione del pubblico ministero; la doverosita’ della diminuzione della pena nelle ipotesi indicate (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066). E’, quindi, possibile ritenere che l’articolo 597 c.p.p., comma 4, comprenda anche una componente sostanzialmente rafforzativa e additiva rispetto al divieto di modifica della pena in senso peggiorativo per l’imputato, sancito dal comma 3, (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652; Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013, Papola, Rv. 255660).
Orbene, il significato effettivo della norma, con particolare riguardo alla specificazione dei casi in cui ne e’ prevista l’operativita’, e’ sottolineato dalla sentenza della Sezioni Unite Morales alla luce della Relazione preliminare al codice di procedura penale del 1988, la quale osserva a questo proposito che il divieto di reformatio in pejus, sotto la vigenza del codice abrogato, veniva di fatto eluso da interpretazioni giurisprudenziali che lo consideravano riferibile unicamente alla pena complessivamente inflitta, consentendo di privare di conseguenze il proscioglimento dell’imputato da talune delle imputazioni contestate, l’esclusione di circostanze aggravanti o il riconoscimento di circostanze attenuanti, purche’ detta pena non fosse aumentata.
La lettura logico-sistematica della previsione normativa, accompagnata dai lavori preparatori e dalla Relazione, consente di affermare che il divieto di reformatio in pejus e’ norma, si’, eccezionale, rispetto al principio costituzionale di proporzionalita’ della pena (articolo 27 Cost.), ma che tale principio deve essere posto in bilanciamento con il diritto di difesa sancito dall’articolo 24 Cost., la cui pienezza ed effettivita’ trova espressione (tra l’altro) nel diritto di proporre impugnazione.
In questa prospettiva, quindi, l’accoglimento di censure validamente proposte mediante l’atto di impugnazione dell’imputato che lamenti l’inosservanza e la violazione di legge in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio (nel caso in esame la corretta entita’ della riduzione per il rito prevista per il reato contravvenzionale) non puo’ essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice. In tal modo, infatti, oltre a violare le previsioni contenute nell’articolo 597 c.p.p., commi 1 e 3, si vanificherebbe l’effettivita’ del diritto di difesa, che postula non solo l’accesso al mezzo di impugnazione, ma anche, a fronte di un motivo fondato ritualmente prospettato, un provvedimento giudiziale che offra reale risposta e concreto rimedio al vizio dedotto.
9. A fronte di queste considerazioni, appare priva di pregio l’argomentazione che giustifica la mancata riduzione della pena inflitta in violazione dei minimi edittali dal primo giudice, in presenza dell’accoglimento di un motivo di appello sul trattamento sanzionatorio, con l’esigenza di non aggravare le conseguenze di un errore commesso nel precedente grado di giudizio.
L’adesione a questa interpretazione aggiungerebbe in realta’ un errore ulteriore, sia pure di segno opposto, rispetto a quello riscontrato. Ma, d’altra parte, l’ordinamento appresta, in situazioni analoghe, i suoi fisiologici rimedi, laddove attribuisce al pubblico ministero la facolta’ di proporre impugnazione avverso una sentenza di condanna ad una pena che violi i minimi edittali. La mancata iniziativa dell’organo funzionalmente competente non puo’ essere surrogata da un intervento correttivo officioso del giudice di secondo grado, che, superando la preclusione formatasi sul punto, si tradurrebbe, da un lato, nella non consentita estensione della cognizione oltre i limiti del tema devoluto, e, dall’altro, nella omissione del dovere di rispondere compiutamente al motivo di gravame proposto dall’imputato, dando piena attuazione alla richiesta con esso legittimamente dedotta.
Non e’, infine, pertinente il richiamo, operato dal primo orientamento, ai poteri officiosi del giudice dell’impugnazione in presenza di una pena illegale. La giurisprudenza ha, infatti, utilizzato la categoria della illegalita’ della pena con riferimento esclusivo ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie piu’ grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati nella stessa (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207; Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015, Ivascu, Rv. 263476; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879; Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220; Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205). Si tratta, all’evidenza, di situazioni in cui la pena illegale ridonda in senso sfavorevole all’imputato, e sono quindi ben diverse da quelle in cui la illegittima determinazione del trattamento sanzionatorio produce un risultato allo stesso favorevole.
10. Deve pertanto essere affermato il seguente principio di diritto:
“Il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442 c.p.p., nella misura di un terzo anziche’ della meta’, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali, e sia di favore per l’imputato”.
11. Secondo il principio appena formulato, il ricorso e’ fondato. La pena-base, stabilita in primo grado in tre mesi di arresto, doveva essere ridotta per il rito nella misura non del terzo, ma della meta’, vertendosi in ipotesi di reati contravvenzionali. Pertanto, la pena-base di tre mesi di arresto stabilita dal Tribunale, e confermata sul punto in appello, deve essere correttamente determinata in un mese e quindici giorni di arresto.
A tanto si procede direttamente in questa sede, ai sensi dell’articolo 620 c.p.p., lettera l), come novellato dalla L. n. 103 del 2017, norma che attribuisce alla Corte di cassazione il potere di statuire – contestualmente all’annullamento senza rinvio, sul punto, del provvedimento impugnato – rideterminando la pena sulla base di una semplice operazione aritmetica che non richiede accertamenti in fatto (Sez. U, n. 3464 del 30 novembre 2017, Matrone, Rv. 271831).
La sentenza impugnata deve, di conseguenza, essere annullata senza rinvio sul punto con la rideterminazione della pena nella misura appena indicata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena che ridetermina in un mese e quindici giorni di arresto.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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