Corte di Cassazione, civile, Sentenza|7 settembre 2022| n. 26395.
Licenziamento illecito basato esclusivamente su motivi ritorsivi
In tema di licenziamento illecito basato esclusivamente su motivi ritorsivi, l’onere della prova che l’unico motivo che abbia determinato il datore di lavoro a disporre il licenziamento sia stato appunto il motivo ritorsivo, di talchè non sia necessario procedere alla compensazione con altri possibili motivi giustificativi. Tale onere può essere assolto anche mediante presunzioni.
Sentenza|7 settembre 2022| n. 26395. Licenziamento illecito basato esclusivamente su motivi ritorsivi
Data udienza 11 luglio 2022.
Integrale
Tag/parola chiave: Impiego privatizzato – Inesattezza del rito – Nullità della sentenza – Esclusione – Eccezione – Indicazione dello specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso – Natura ritorsiva del licenziamento – Elementi desuntivi – Sussistenza
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere
Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25144/2019 proposto da:
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2876/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/07/2019 R.G.N. 3885/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica 2779 udienza del 11/07/2022 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, visto il Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
Licenziamento illecito basato esclusivamente su motivi ritorsivi
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha riformato la pronuncia di primo grado ed ha dichiarato la nullita’ del licenziamento intimato ad (OMISSIS), in data 27 febbraio 2017, dalla (OMISSIS) S.p.A., condannando quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente ed al pagamento di una indennita’ risarcitoria pari a tutte le retribuzioni globali di fatto dal recesso all’effettiva reintegra, oltre accessori e spese;
2. La Corte, per quanto qui rileva, ha preliminarmente rilevato che la societa’, nel riproporre l’eccezione di inammissibilita’ delle “domande di parte ricorrente di impugnativa del trasferimento e del licenziamento proposte in unico ricorso, con rito della L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, comma 48”, “non deduce e non evidenzia che dall’adozione del rito Fornero anche per la domanda relativa al trasferimento, sia derivata una lesione al proprio diritto di difesa”.
3. La Corte d’appello ha poi ritenuto sussistenti indici presuntivi che facessero ritenere il trasferimento del (OMISSIS) operato dalla societa’ nullo perche’ ritorsivo, con la conseguenza che “la contestata assenza ingiustificata, che ha costituito il fondamento dell’intimato licenziamento, tale non puo’ essere qualificata essendo dovuta ad un legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale, esercitato dal prestatore di lavoro ex articolo 1460 c.c.”; la Corte ne ha tratto l’ulteriore conseguenza che “l’impugnato licenziamento deve ritenersi affetto dal medesimo intento ritorsivo”.
4. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la (OMISSIS) S.p.A., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito l’intimato con controricorso.
5. In prossimita’ della pubblica udienza il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La difesa della ricorrente ha comunicato memoria con cui ha dichiarato che la societa’ e’ stata dichiarata fallita.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente occorre rilevare che, nell’ambito del giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (v. tra le tante: Cass. n. 27143 del 2017; Cass. n. 7477 del 2017; Cass. n. 21153 del 2010; Cass. n. 3630 del 2021; Cass. n. 15928 del 2021), tra le quali il fallimento della parte.
2. Cio’ premesso, il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, articolo 1, commi 47 e 48, sostenendo che la Corte di Appello “avrebbe dovuto dichiarare sin da subito inammissibile la domanda tesa ad accertare la nullita’/inefficacia o illegittimita’ del trasferimento”, in quanto introdotta in un procedimento riservato esclusivamente ad accertare la legittimita’ o meno di licenziamenti in regime di stabilita’ reale; secondo parte ricorrente vi sarebbe stata “una compressione del diritto di difesa della societa’, trattandosi il procedimento cd. “Fornero” di un giudizio sommario che, per sua stessa natura, non e’ a cognizione piena”.
La censura non merita accoglimento.
Secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito non determina di per se’ la nullita’ della sentenza” (tra molte, proprio avuto riguardo alla disciplina della L. n. 92 del 2012: Cass. n. 12094 del 2016; conf. Cass. n. 15084 del 2018).
La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015). Perche’ la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Cio’ perche’ l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneita’ ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.
La societa’, invece, non solo non specifica i contenuti dell’atto di costituzione in appello in cui avrebbe illustrato le lesioni inferte al suo diritto di difesa, ma ancora in ricorso prospetta, quale pregiudizio derivante dall’errore sul rito, la mera circostanza della “sommarieta’” del giudizio.
All’evidenza si tratta di un aspetto che non denuncia una concreta e specifica lesione del diritto di difesa, per cui nella sostanza la societa’ si limita ad invocare una mera violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarita’, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettivita’, funzionalita’ e celerita’ dei modelli procedurali (v. Cass. n. 4506 del 2016).
3. Il secondo mezzo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1345, 2729 e 2697 c.c., con la L. n. 300 del 1970, articolo 18, affermando che la sentenza impugnata “deve essere necessariamente cassata nella parte in cui ha condannato la (OMISSIS) alla reintegra e alle conseguenze L. n. 300 del 1970, ex articolo 18, comma 1”; si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto il carattere ritorsivo del licenziamento.
Si rileva “come gli argomenti di ordine presuntivo addotti dalla Corte territoriale a sostegno del decisum siano privi di consistenza, trattandosi di fatti del tutto generici e neanche compiutamente identificati, neppure dalla controparte, mentre per accreditare un ragionamento presuntivo occorre che gli elementi valorizzati siano idonei a fondare un serio convincimento in ordine alla concludenza e all’esclusivita’ dell’intento illecito, avente efficacia determinativa della volonta’ di parte datoriale”; si lamenta pure che “se il collegio avesse voluto accertare la natura ritorsiva del licenziamento, avrebbe dovuto quantomeno ammettere la prova diretta e contraria richiesta dalle parti”.
La censura non puo’ essere condivisa.
Secondo questa Corte, per accogliere la domanda di accertamento della nullita’ del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volonta’ di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessita’ di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011).
Dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’articolo 2697 c.c., non operando la L. n. 604 del 1966, articolo 5, ma esso puo’ essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010), come accaduto nella specie.
Non e’ dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimita’, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali e’ riservata.
Ne’, tanto meno, puo’ criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato, perche’ spetta al giudice del merito valutare l’opportunita’ di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilita’ e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010); va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per se’ solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneita’ degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017).
Infine, quanto alla doglianza circa la mancata ammissione della prova, essa e’ del tutto priva di specificita’, non essendo riportati i contenuti della prova testimoniale richiesta ne’ essendo illustrata la sua decisivita’.
4. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore dell’Avv. (OMISSIS) che si e’ dichiarato antistatario.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, nel testo introdotto della L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario al 15%, con distrazione.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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