L’esistenza e la natura del vincolo di inedificabilità

Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 27 settembre 2019, n. 6467.

La massima estrapolata:

L’esistenza e la natura del vincolo di inedificabilità vanno comunque considerate al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono edilizio, a prescindere dall’epoca dell’introduzione del vincolo medesimo e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo stesso, con l’unica peculiarità che, in tale evenienza, i vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione dell’intervento edilizio non operano quali fattori di preclusione assoluta al condono, ma costituiscono vincoli relativi ai sensi dell’art. 32 della l. 47 del 1985 e impongono pertanto un apprezzamento concreto di compatibilità.

Sentenza 27 settembre 2019, n. 6467

Data udienza 25 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3845 del 2011, proposto da
An. Ma., rappresentato e difeso dall’avvocato Lu. D’A., con domicilio eletto presso lo Studio Pl. S.r.l. in Roma, via (…);
contro
Comune di Bari (BA), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Au. Fa., con domicilio eletto presso lo studio Ro. Ci. in Roma, via (…) e comunque con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Seconda n. 01090/2010, resa tra le parti, concernente diniego concessione edilizia in sanatoria
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Bari;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 giugno 2019 il Consigliere Fulvio Rocco e uditi per le parti l’avvocato Al. Pe. su delega dell’avvocato Lu. D’A., e l’avvocato Fa. Ca. su delega dell’avvocato Au. Fa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.1.L’attuale appellante, Sig.ra An. Ma., espone di aver realizzato nell’anno 1982 nel quartiere di Bari (BA) denominato “(omissis)”, in località (omissis), nella Strada “(omissis)”, un immobile consistente in un’abitazione allo stato rustico, composta da piano terra e primo piano, in ordine alla quale ha presentato al Comune di Bari, à sensi dell’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modifiche una domanda di condono edilizio.
Tale costruzione insiste su di un’area destinata a verde pubblico dal vigente Piano regolatore generale del Comune e ricade, altresì, in una fascia di 300 metri dal limite del demanio marittimo.
L’anzidetta istanza di condono è stata respinta con provvedimento del Direttore della Ripartizione edilizia del Comune di Bari Prot. 14239 dd. 23 marzo 1999 in quanto la surriferita costruzione è stata realizzata su di un’area assoggettata a vincolo di inedificabilità assoluta, à sensi del combinato disposto dell’art. 33 della l. 28 febbraio 1985, n. 47 e dell’art. 51, lett. f), della l.r. 31 maggio 1980, n. 56.
1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 1573 del 1999 innanzi al T.A.R. per la Puglia, Sede di Bari, la Ma. ha pertanto chiesto l’annullamento di tale provvedimento e il conseguente risarcimento dei danni da lei asseritamente subiti, deducendo al riguardo i seguenti tre ordini di censure:
1) inapplicabiilità dell’anzidetto art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980 per incompatibilità del relativo vincolo con quello imposto à sensi della l. 29 giugno 1939, n. 1497;
2) violazione degli anzidetti art. 39 della l. n. 724 del 1993 e art. 33 della l. n. 47 del 1985, nonché dell’art. 1 del d.l. 27 giugno 1985, n. 312 convertito con modificazioni con l. 8 agosto 1985, n. 431 e dell’art. 1 e ss. della l.r. 11 maggio 1990, n. 30;
3) violazione del combinato disposto dell’art. 51, lett. f, della l.r. n. 56 del 1980 e dell’art. 29 della l. n. 47 del 1985 con riferimento al capo IV della medesima l. n. 47 del 1985.
1.3. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Comune di Bari, concludendo per la reiezione del ricorso.
1.4. Con sentenza n. 1090 dd. 22 marzo 2010 la Sezione II dell’adito T.A.R. ha respinto il ricorso, condannando la parte ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari di tale primo grado di giudizio, complessivamente liquidati nella misura di Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00).
2.1. Con l’appello in epigrafe la Sig.ra Ma. chiede ora la riforma di tale sentenza, complessivamente deducendo al riguardo l’avvenuta violazione ed erronea applicazione dell’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 in relazione all’art. 33 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, violazione ed erronea applicazione dell’art. 2 della l. 19 novembre 1968, n. 1187 e dell’art. 51, lett. f), della l.r. 31 maggio 1980, n. 56, violazione ed erronea applicazione dell’art. 10 della l. 10 febbraio 1953, n. 62 in relazione al d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1985, n. 431, nonché eccesso di potere per contraddittorietà manifesta, erroneità della motivazione ed erronea presupposizione.
Sostanzialmente pertanto la parte appellante qui ripropone le medesime censure dedotte in primo grado, ancorché riferendole al contenuto della sentenza impugnata, e sollevando, altresì, talune questioni di incostituzionalità sia dell’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980, sia dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994 che saranno qui appresso illustrate.
La parte, da ultimo, reputa pure “eccessivamente punitiva… la condanna alle spese disposta dal primo giudice, considerando se non altro che al momento di proposizione del ricorso le questioni giuridiche prospettate non erano (come peraltro non sono) di pacifica interpretazione” (cfr. pag. 9 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio), e chiede pertanto che – quantomeno – sia disposta la compensazione delle spese medesime tra le parti per il giudizio di primo grado.
2.2. Anche nel presente grado di giudizio si è costituito il Comune di Bari, concludendo per la reiezione dell’appello.
3. All’odierna pubblica udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.
4.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.
4.2. Giova innanzitutto evidenziare che il diniego di condono impugnato dall’attuale appellante si fonda sul combinato disposto dell’art. 33 della l. 28 febbraio 1985, n. 47 – applicabile anche al condono disciplinato dall’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modifiche (cfr. ivi, comma 1), nella specie richiesto – e dell’art. 51, lett. f), della l.r. 31 maggio 1980, n. 56.
Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 33 della l. n. 47 del 1985, nel testo ad oggi vigente e in vigore altresì all’epoca dei fatti di causa, nel disciplinare le ipotesi di c.d. “inedificabilità assoluta”, esclude dal condono edilizio le opere che “sono in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici; b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali; …d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree”.
L’art. 51, lett. f), della l.r. della Puglia 31 maggio 1980, n. 56, rubricato “Limitazione delle previsioni insediative fino all’entrata in vigore dei Piani territoriali”, reca a sua volta una disciplina in forza della quale “salvo quant’altro disposto da leggi statali e regionali, sino all’entrata in vigore dei Piani territoriali… è vietata qualsiasi opera di edificazione entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo, o dal ciglio più elevato sul mare”, con la contestuale precisazione che “per gli strumenti urbanistici vigenti o adottati alla data di entrata in vigore della presente legge, è consentita la edificazione solo nelle zone omogenee A, B e C dei centri abitati e negli insediamenti turistici; è altresì consentita la realizzazione di opere pubbliche ed il completamento degli insediamenti industriali ed artigianali in atto alla data di entrata in vigore della presente legge, secondo le previsioni degli strumenti urbanistici stessi”.
Va preliminarmente rilevato che questo giudice d’appello si è già più volte pronunciato su fattispecie del tutto omologhe a quella qui in discussione, segnatamente riguardanti la realizzazione di costruzioni nella medesima area in cui è stato costruito il manufatto di proprietà dell’attuale appellante, statuendo nel senso che l’edificazione nella fascia dei 300 metri dalla costa, di cui al più volte citato articolo 51, lettera f), della l.r. n. 56 del 1980, non è rapportabile alla disciplina di cui all’art. 32 della l. n. 47 del 1985 (c.d. “inedificabilità relativa”), bensì a quella di cui all’anzidetto art. 33 della medesima legge, relativa – come dianzi precisato – a opere non suscettibili di sanatoria e che, di conseguenza, non è possibile provvedere al riguardo con le varianti di recupero, stante anche il divieto contenuto nell’art. 5, quinto comma, della l.r. 13 maggio 1985, n. 26, in forza del quale “non è possibile formare la variante per le opere non suscettibili di sanatoria di cui all’art. 33 della l. 47 del 1985” (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2001, n. 342)
In particolare, è stato già puntualmente affermato che “il divieto di edificazione nella fascia costiera di cui all’art. 51, lett. f), della l.r. 56 del 1980 non rappresenta una misura di salvaguardia ma un vincolo d’inedificabilità assoluta preclusivo del rilascio della concessione edilizia fino all’adozione del piano territoriale” (Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 1995, n. 300) e che” l’art. 51, lett. f), della l.r. 56 del 1980 vieta qualsiasi edificazione entro la fascia costiera di trecento metri,” per cui “è legittimo il diniego di sanatoria espresso dal Comune per abusi edilizi realizzati entro tale fascia, a nulla valendo” – per l’appunto – “la previsione di piani finalizzati al recupero degli insediamenti abusivi, atteso che non è possibile formare varianti per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 33 della l. 47 del 1985” (Cons. Stato, Sez. IV, 23 aprile 1993, n. 458).
Questo Collegio, a sua volta, reputa che da questi principi non vi è motivo di discostarsi anche per il caso in esame, al quale si applicano compiutamente anche con riguardo alle ulteriori deduzioni svolte nel presente giudizio dalla parte appellante, peraltro anch’esse – come si vedrà appresso – già per ampia parte a loro volta respinte da una giurisprudenza ormai del tutto consolidata in ordine alla natura dell’anzidetto divieto di edificazione.
4.3.1. Con il primo ordine di motivi l’appellante afferma che il giudice di primo grado non avrebbe tenuto conto che la disciplina preclusiva dell’edificazione contenuta nell’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980 potrebbe essere stata incisa dall’effetto abrogativo di cui all’art. 10, comma 1, della l. 10 febbraio 1953, n. 62 e che la stessa risulterebbe comunque implicitamente superata dall’art. 1 del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1985, n. 431 che ha disciplinato la materia della tutela delle zone di particolare interesse ambientale assoggettando al vincolo di cui alla l. 29 giugno 1939, n. 1497 – tra l’altro, e per quanto qui segnatamente interessa – “i territori compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia” e attribuendo alle Regioni la potestà di dettare misure di salvaguardia in relazione a zone determinate sino all’adozione dei piani paesistici (cfr. ivi, artt. 1-bis e 1-ter).
Pertanto, ad avviso della medesima parte appellante, alla data di presentazione della domanda di condono, l’area in questione, risultando assoggettata a quel momento al sopravvenuto vincolo di cui alla l. n. 1497 del 1939 derivante da quanto previsto dall’anzidetto d.l. n. 312 del 1985, convertito, con modificazioni, in l. n. 431 del 1985, sarebbe stata gravata non già da un vincolo di inedificabilità assoluta, bensì da un vincolo di inedificabilità relativa che, à sensi dell’art. 32 della l. n. 47 del 1985, avrebbe pertanto – a suo dire – comportato non già la diretta reiezione della domanda di condono ma la possibilità per l’interessato di chiedere in proposito il nulla osta paesaggistico-ambientale all’autorità preposta alla tutela del vincolo, condizionante agli effetti del rilascio della sanatoria edilizia.
4.3.2. Il Collegio, per parte propria, rileva in proposito che il legislatore regionale della Puglia, mediante l’art. 4 della l.r. 31 maggio 1980, n. 56, ha prefigurato una pianificazione urbanistica a livello regionale (Piano urbanistico territoriale, acronimo P.U.T.) contemplante – tra l’altro – alla lettera c) di tale articolo anche l’individuazione delle “aree e/o gli ambienti da sottoporre a specifica disciplina di tutela”, potendo quest’ultima “espressamente… al riguardo… anche disporre, in particolari casi, prescrizioni immediatamente operative”.
Tale previsione era ed è riferita – all’evidenza – alle esigenze della tutela paesaggistico-ambientale, posto che all’epoca dell’emanazione di tale legge l’art. 117 Cost. – nel testo non ancora novellato per effetto dell’art. 3 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 – menzionava, tra le competenze cc.dd. “concorrenti” delle Regioni a statuto ordinario, la materia dell'”urbanistica” (ora ridenominata e riqualificata come “governo del territorio” nell’attuale testo del medesimo art. 117 Cost.), le cui funzioni amministrative concernevano, à sensi dell’art. 80 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, “la disciplina dell’uso del territorio”, ivi espressamente intesa come “comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”, con la successiva ripartizione e coordinamento delle funzioni amministrative tra Stato e Regioni ordinarie riguardanti il particolare aspetto della tutela dei “beni ambientali” secondo quanto previsto dagli artt. 81 e 82 del medesimo d.P.R.
L’art. 8 della medesima l.r. 56 del 1980 dispone quindi che “fino all’entrata in vigore del primo P.U.T. la Regione può individuare ed organizzare il territorio mediante P.U.T. per temi (P.U.T.T.), in funzione degli interessi regionali singolarmente considerati”, con la precisazione che tale pianificazione tematica “ha lo stesso contenuto, segue lo stesso procedimento di formazione ed approvazione ed ha gli stessi effetti del P.U.T.”, e che “successivamente” quest’ultimo ” può essere variato anche mediante l’adozione di P.U.T.T. per specifici temi”.
In tale contesto è dunque venuta ad inserirsi la sopradescritta disciplina contenuta nell’art. 51, lett. f), della medesima l.r. n. 56 del 1980 in forza della quale – come si è detto, e per quanto qui segnatamente interessa – “salvo quant’altro disposto da leggi statali e regionali, sino all’entrata in vigore dei Piani territoriali”, ossia fino alla definitiva approvazione ed esecutività del primo P.U.T. ovvero del primo P.U.T.T. concernente la tutela ambientale, “è vietata qualsiasi opera di edificazione entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo, o dal ciglio più elevato sul mare”.
Tale disciplina di vincolo non esorbitava dalle competenze del legislatore regionale in quanto essa era preordinata alla formazione di una pianificazione di ordine generale per il territorio regionale già consentita per effetto del trasferimento delle relative funzioni avvenuta à sensi del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 e che, coerentemente all’anzidetta definizione legislativa di fonte statuale della materia dell'”urbanistica”, nella disciplina generale della trasformazione del territorio inseriva in via contestuale anche le misure reputate necessarie per la tutela dei beni ambientali: e ciò, dunque, nel rispetto dei limiti della delega di funzioni in materia conferita alle Regioni a statuto ordinario à sensi dell’art. 82 del medesimo d.P.R. n. 616 del 1977 – si badi, ancor prima della sua successiva integrazione per effetto dell’art 1 del d.l. 27 giugno 1985, n. 312 convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1985, n. 431 – segnatamente riguardanti anche l'”individuazione” e la “tutela” dei beni medesimi in via amministrativa (e, a fortiori, anche in via legislativa) e – correlativamente – senza debordare nell’ambito delle competenze mantenute a quel tempo dallo Stato à sensi dell’art. 81 del predetto d.P.R. n. 616.
È necessario rilevare che a tale previsione del legislatore regionale è venuta susseguentemente a sovrapporsi quella di carattere generale introdotta per l’intero territorio nazionale dal d.m. 21 settembre 1984, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26 settembre 1984 e che, a sua volta – e sempre per quanto qui interessa – ha tra l’altro assoggettato a vincolo paesaggistico, à sensi della l. 29 giugno 1939, n. 1497, “i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare”.
Tale previsione di fonte statuale, peraltro, non coincide puntualmente con quella legislativa regionale per quanto attiene all’identificazione spaziale del vincolo.
Nella legge regionale i 300 metri della fascia di inedificabilità si computano infatti – come detto innanzi – “dal confine del demanio marittimo”, e ciò, quindi, con evidente e allora del tutto necessitato riferimento alla delimitazione di quest’ultimo effettuabile à sensi dell’art. 32 del codice della navigazione, e in modo comunque da escludere l’ambito demaniale marittimo dall’applicazione della legge regionale medesima, non essendo stato ancora a quel momento emanata da parte dello Stato né la disciplina applicativa dell’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 616 in tema di delega alle Regioni delle funzioni in materia di utilizzo di tali aree demaniali per finalità turistico-ricreative, né disposto nei riguardi delle Regioni medesime il conferimento delle ulteriori funzioni in materia di demanio marittimo contemplate dall’art. 105, lett. l) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
Nel decreto ministeriale i 300 metri si computano viceversa “dalla linea di battigia”, ossia la linea su cui nella spiaggia si infrangono le onde, e comprende quindi anche l’antistante porzione di suolo che afferisce al demanio marittimo.
Ma, al di là di tale aspetto, va soprattutto evidenziato che il vincolo instaurato dal d.m. 21 settembre 1984 determinava in effetti nei riguardi della predetta fascia di 300 metri dalla costa l’introduzione di un vincolo associato ad un regime di autorizzazione per le attività di trasformazione del relativo territorio, all’epoca normato dall’art. 7 della predetta l. n. 1497 del 1939, e pertanto sicuramente contraddistinto dai caratteri propri dell’inedificabilità c.d. “relativa,”.
Peraltro tale regime di fatto non risultava applicabile nella Regione Puglia, salvo che – per quanto detto innanzi – per le sole aree incluse nel demanio marittimo: e ciò per effetto del generale divieto di edificazione imposto dalla concomitante vigenza della sovrastante fonte legislativa regionale.
A differenza di quanto sostenuto dalla parte ricorrente, l’avvenuta recezione del d.m. 21 settembre 1984 nel contesto del susseguente d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, in l. 8 agosto 1985, n. 431 non ha determinato la tacita abrogazione per incompatibilità dell’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980, con la conseguente imposizione nelle aree da esso per l’innanzi vincolate dell’anzidetto regime di inedificabilità “relativa” in sostituzione di quello di inedificabilità “assoluta”.
Risulta al riguardo dirimente, infatti, l’art. 1-quinquies del medesimo d.l. n. 312 del 1985, convertito in l. n. 431 del 1985, in forza del quale “le aree e i beni individuati ai sensi dell’art. 2 del decreto ministeriale 21 settembre 1984, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 26 settembre 1984, sono inclusi tra quelli in cui è vietata, fino all’adozione da parte delle Regioni dei piani di cui all’art. 1-bis, ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché ogni opera edilizia, con esclusione degli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Pertanto, la disciplina vincolistica “assoluta” di fonte regionale non è stata con ciò abrogata – come pretenderebbe la parte ricorrente – bensì addirittura rafforzata da una concorrente fonte legislativa statuale, medio tempore sopravvenuta e che concordemente con quanto già disposto dal legislatore regionale, impone un’inderogabile vincolo di inedificabilità sulla fascia di 300 metri dalla costa fino all’adozione dei nuovi piani paesistici regionali previsti dal testé riferito art. 1-bis del medesimo d.l. n. 312, ossia – per quanto segnatamente attiene alla Puglia – all’approvazione à sensi dell’art. 6 della l.r. n. 56 del 1980 del Piano Urbanistico Territoriale Tematico “Paesaggio” – PUTT/p, disciplinante – per l’appunto – “i processi di trasformazione fisica e l’uso del territorio regionale allo scopo di tutelarne l’identità storica e culturale, rendere compatibili la qualità del paesaggio, delle sue componenti strutturanti, e il suo uso sociale, nonché di promuovere la salvaguardia e valorizzazione delle risorse territoriali”: approvazione che è avvenuta per effetto della deliberazione della Giunta Regionale n. 1748 dd. 15 dicembre 2000, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 6 dd. 13 gennaio 2001.
Va a questo punto evidenziato che nel contesto ora descritto il vincolo imposto mediante l’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980 non va ricondotto ad un’ipotesi di mera misura di salvaguardia direttamente imposta dalla legge a tutela del contenuto di una pianificazione urbanistico-paesistica in itinere.
Secondo l’unanime indirizzo ermeneutico di questo Consiglio di Stato la disciplina di vincolo introdotta dal legislatore regionale va intesa come norma recante un divieto assoluto, ancorché temporaneo, di edificazione entro la fascia costiera, al quale si aggancia con immediatezza la misura sanzionatoria prevista dall’art. 33 della l. n. 47 del 1985, e cioè l’impossibilità di sanatoria dell’abuso, senza eccezioni, limiti o condizionamenti: ciò che rileva, in altri termini, è l’esistenza di un vincolo legale di inedificabilità assoluta sia al momento in cui le opere vennero realizzate (non potendo evidentemente il vincolo assumere valenza retroattiva), sia al momento della decisione sulla domanda di sanatoria (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 23 aprile 1993, n. 458; Sez. V, 13 aprile 2012, n. 2116; 2 ottobre 2006, n. 5725; 15 novembre 1999, n. 1914 e 31 ottobre 1992, n. 1144; Sez. VI, 20 aprile 2015, n. 1791).
In particolare è già stato chiarito al riguardo che, ai fini che qui interessano, oltre a tutto, è comunque “irrilevante che il divieto” contenuto nell’art. 51, lett. f) “possa venire meno per effetto di successive scelte affidate al piano urbanistico; ai fini dell’applicazione dell’art. 33 della l. 47 del 1985, il parametro di riferimento è solo la norma che, nelle more dell’adozione del piano urbanistico, pone un divieto assoluto di edificazione in funzione di salvaguardia delle future scelte dell’amministrazione; l’immediata operatività del vincolo, e la conseguente insanabilità delle opere realizzate in dispregio di quanto da esso disposto, trovano piena, ragionevole ed esaustiva giustificazione nell’esigenza di evitare che una edificazione incontrollata possa compromettere in modo irreversibile la funzione programmatoria affidata al suddetto strumento; cosicché la liceità o meno dell’insediamento edilizio (e la sua condonabilità ) deve essere verificata con esclusivo riferimento alla legislazione vigente all’epoca della sua realizzazione, e non ai possibili contenuti della futura disciplina urbanistica, alla quale la legge affida il compito di definire l’an, il quando e il quomodo dell’edificazione all’interno della fascia costiera” (così, puntualmente, la sentenza n. 5725 del 2006 cit.).
4.4.1. Con il secondo ordine di motivi la parte appellante afferma che il giudice di primo grado ha omesso di pronunciarsi sulla censura ivi da essa proposta e con la quale era stata dedotta la puntuale applicabilità alla fattispecie dell’allora vigente art. 2, primo comma, della l. 19 novembre 1968, n. 1187, presentemente abrogato per effetto dell’art. 58 del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327 e sostituito dall’art. 9 del medesimo d.P.R.. e successive modifiche, ma per l’appunto in vigore all’epoca dei fatti di causa e in forza del quale “le indicazioni di piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino ”inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L’efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione” (cfr. ivi, considerando inoltre che la Corte Costituzionale con sentenza 20 maggio 1999, n. 179, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto del comma surriportato, dei numeri 2, 3 e 4 dell’art. 7 e dell’art. 40, l. 17 agosto 1942, n. 1150, nella parte in cui consentiva all’amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo).
Secondo la parte ricorrente, muovendo dal presupposto che il vincolo di cui all’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980 abbia natura urbanistica e non paesaggistico-ambientale, dovrebbero essere tratte le dovute conseguenze dalla circostanza che la relativa norma non stabilisce un termine di efficacia del vincolo di inedificabilità diverso da quello del quinquennio, fissato in via generale dall’ordinamento; e, comunque, la testuale imposizione di un vincolo di inedificabilità “sino all’entrata in vigore dei piani territoriali” equivarrebbe – sempre secondo l’appellante – a non porre di fatto alcun limite temporale, risultando in questo modo il vincolo in questione assolutamente indeterminato nell’an e nel quando.
A tale riguardo la medesima parte rimarca che l’anzidetta approvazione à sensi dell’art. 6 della l.r. n. 56 del 1980 del Piano Urbanistico Territoriale Tematico “Paesaggio” – PUTT/p è avvenuta soltanto nel dicembre del 2000 e ha assunto effetto soltanto nel 2001, ossia dopo quasi vent’anni dalla data di entrata in vigore del vincolo di non edificabilità .
Ciò comporterebbe, sempre secondo la stessa parte, la seguente e del tutto ineludibile alternativa: o si ammette l’intervenuta decadenza del vincolo di cui trattasi in forza della generale clausola dell’ordinamento pro tempore contenuta nell’art. 2, primo comma, della l. n. 1187 del 1968, o il medesimo art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980 risulterebbe incostituzionale per violazione degli artt. 3, 42 e 117 Cost.
4.4.2. Il Collegio, a questo proposito, denota incidentalmente che, con riguardo ad altre omologhe eccezioni di incostituzionalità sollevate in altri consimili procedimenti riguardanti il vincolo di cui all’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980, nelle predette sentenze n. 5725 del 2006 e n. 458 del 1993 rispettivamente rese dalla Sezione V e dalla Sezione IV, le stesse sono state dichiarate inammissibili con riguardo alla loro rilevanza in tali giudizi, in quanto questi ultimi non attenevano – come del resto non attiene, ora, quello qui in discussione – all’indennizzabilità del vincolo imposto ex lege al privato, né al mancato rilascio di un’autorizzazione paesistica, ma attenevano – come, per l’appunto, nel presente caso – all’abusività di un’opera, e alla sua non condonabilità : conseguenza questa che resterebbe comunque immutata, e ciò, dunque, anche a prescindere da quale potrebbe essere il giudizio della Corte Costituzionale sul dubbio di costituzionalità dell’art. 51 della legge regionale, così come esposto sulla base dei parametri indicati dalla parte interessata.
Comunque sia, l’assunto secondo cui il vincolo in questione dovrebbe ritenersi ope legis decaduto allo spirare del quinquennio dalla sua imposizione, salva in difetto l’illegittimità costituzionale della relativa norma legislativa regionale per asserita violazione degli artt. 3, 42 e 117 Cost., va dichiarata manifestamente infondato.
Infatti, se è vero che nella progressiva evoluzione dell’ordinamento a partire dall’art. 80 e ss. del d.P.R. n. 616 del 1977 sino all’attuale disciplina contenuta nel d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche, nonché nella conseguente e complessiva produzione legislativa regionale, ben si coglie la sempre più stretta interconnessione che sussiste tra la disciplina della pianificazione urbanistica e quella della pianificazione paesaggistica, rimane comunque ferma nel “sistema” la fondamentale distinzione – da un lato – tra i vincoli propriamente urbanistici, soggetti in quanto tali non solo a indennizzo in caso di loro illegittima proroga (cfr. la predetta sentenza n. 179 del 1999 della Corte Costituzionale) e alla decadenza ope legis normata pro tempore dal predetto art. 2, primo comma, e – dall’altro – le limitazioni dello ius aedificandi imposte per preminenti finalità di tutela ambientale e paesaggistica, come tali conformative e non soggette a decadenza (cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. Civ.,Sez. I, 20 novembre 2012, n. 20383), e per se stanti pienamente compatibili con il dettato costituzionale di cui all’art. 9, seconda parte, Cost., non a caso inserito tra i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale (cfr. sul punto, ex plurimis, Corte Cost., 28 luglio 1995, n. 417; 21 dicembre 1985, n. 359; 1 aprile 1985, n. 94; 29 maggio 1968, n. 56): e ciò in quanto “vi sono complessi di beni e di aree individuati direttamente dal legislatore – come per l’appunto per il caso di specie – in forza del loro “particolare interesse ambientale”, il quale si determina in funzione della loro singolarità geologica o ecologica – rilevante ai fini della storia naturale del Paese – connotando la struttura del territorio nazionale nella sua percezione visibile. E che la tutela di detti beni, facenti parte del patrimonio estetico-culturale della Nazione si determina mediante la difesa dai mutamenti, spesso irreversibili, che l’azione dell’uomo può causare” (così, puntualmente, la sentenza di Cass. Civ., Sez. I, 20383 del 2012).
Proprio in considerazione di tutto ciò, pertanto, i beni assoggettati a vincolo paesaggistico sono allo stesso tempo inscrivibili nella disciplina del secondo comma dell’art. 42 Cost., che affida alla legge di determinare i modi di godimento del bene al fine di assicurarne la funzione sociale, con la conseguente esclusione dalla previsione di indennizzo contemplata – viceversa – per le ipotesi di cui al comma seguente del medesimo articolo (cfr. sul punto la sentenza di Corte Cost. n. 417 del 1995 cit., nonché Cons. Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2006, n. 7971 e 20 settembre 2002, n. 4777).
Risulta così del tutto evidente la finalità di tutela paesaggistica assolta dall’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980, diffusamente illustrata e ribadita da tutta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato menzionata nel § 4.3.2 della presente sentenza, ed in particolare dalla pronuncia n. 1914 del 1999 resa dalla Sez. V, con la conseguente infondatezza della tesi che vorrebbe far decadere automaticamente tale disposto legislativo al decorso del quinquennio dalla sua entrata in vigore.
4.5.1. Con un terzo ordine di motivi l’appellante reputa che la sentenza impugnata sia erronea e contraddittoria sotto un ulteriore profilo, asseritamente “distinto ed autonomo” (cfr. pag. 6 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio).
In tal senso l’appellante rimarca che il giudice di primo grado ha ritenuto che il vincolo di cui all’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980 sia applicabile “ed operativo anche dopo l’entrata in vigore della l. 431 del 1985” senza tuttavia avvedersi del pur evidente contrasto che sussisterebbe tra la disciplina di fonte regionale e quella sopravvenuta di fonte statuale.
In tal senso l’appellante evidenzia che l’art. 1-ter del d.l. n. 312 del 1985, convertito in l. n. 431 del 1985 prevedeva un regime di salvaguardia dell’immodificabilità dei beni assoggettati al regime vincolistico “sino all’entrata in vigore dei piani regionali” attraverso l’individuazione da parte delle Regioni medesime di elenchi o indicazioni planimetriche e catastali delle aree tutelate, in tal modo prevedendo un meccanismo di salvaguardia attraverso l’imposizione di un vincolo di inedificabilità relativa à sensi dell’art. 7 della l. 1497 del 1939, e non già di inedificabilità assoluta, come viceversa disposto dalla disciplina di fonte regionale.
4.5.2. Il Collegio a tale riguardo evidenzia che tale ordine di motivi risulta di fatto assorbito dalle considerazioni già svolte al § 4.3.2. della presente sentenza, dove è stata compiutamente illustrata la particolarità del rapporto che sussiste tra i contenuti del d.l. n. 312 del 1985, convertito in l. n. 431 del 1985, e il vincolo disposto per effetto dell’art. 56, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980.
La dianzi rilevata dirimenza dell’art. 1-quinquies, ivi disaminato, rende pertanto del tutto inconferente ai fini del decidere il richiamo sistematico che la parte appellante qui opera nei riguardi della ben diversa disciplina contenuta nel dianzi riferito art. 1-ter.
4.6.1. Da ultimo la parte appellante afferma che, dimostrata l’inapplicabilità per il caso di specie dell’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980, il diniego di condono edilizio da essa contestato non avrebbe neppure potuto fondarsi sulla circostanza che l’area in questione è stata in prosieguo di tempo assoggettata alla disciplina transitoria di cui alla l.r. 11 maggio 1990, n. 30 e successive modifiche, in forza della quale “fino all’approvazione, ai sensi della legge regionale 31 maggio 1980, n. 56, del P.U.T.T. (Piano urbanistico territoriale tematico) del “Paesaggio e dei beni ambientali”, quale piano paesistico territoriale, con specifica considerazione dei valori paesaggistici ed ambientali, previsto dall’art. 1-bis della legge 8 agosto 1985, n. 431, e dei relativi piani paesistici delle diverse aree sub regionali individuate dal PUTT e, comunque, non oltre la data del 30 giugno 1991, è vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché qualsiasi opera edilizia nelle seguenti aree: a) territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare…” (cfr. ivi, art. 1), peraltro consentendo la realizzazione degli “interventi edilizi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici… l’esercizio delle attività agro-silvo- pastorali che non alterino lo stato dei luoghi e che non prevedano costruzioni edilizie… opere di forestazione, di taglio colturale, di bonifica, di consolidamento degli abitati e delle aree interessate da movimenti franosi nonché opere di sistemazione idrogeologica, con relativa asportazione di materiale litoide finalizzata alla stessa sistemazione idrogeologica sempre che tali opere siano autorizzate o approvate dagli organi competenti sulla base di apposito progetto presentato agli organi stessi ” (cfr. art. 2 l.r. cit.), e consentendo comunque nell’anzidetta fascia costiera l’attività edilizia e la realizzazione delle relative opere di urbanizzazione nelle zone A e B previste dagli strumenti urbanistici (cfr. ibidem).
A tale riguardo l’appellante rimarca infatti che la disciplina vincolistica ora da ultimo descritta è intervenuta in epoca successiva alla realizzazione del manufatto per cui è richiesto il condono, con conseguente inapplicabilità in proposito dell’art. 33 della l. n. 47 del 1985.
L’appellante rileva inoltre che à sensi del comma 20 dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, ai fini del rilascio del condono edilizio “i vincoli di inedificabilità richiamati dall’articolo 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, non comprendono il divieto transitorio di edificare previsto dall’articolo 1-quinquies del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, fermo restando il rispetto dell’articolo 12 del decreto-legge 12 gennaio 1988, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 marzo 1988, n. 68”, con la conseguenza che secondo una lettura coerente delle norme in esame e costituzionalmente orientata, anche i divieti posti dalla l.r. n. 30 del 1990 (in esecuzione dell’art. 1-ter della citata l. n. 431 del 1985) e della stessa l.r. n. 56 del 1980 dovrebbero ritenersi esclusi dall’ambito di operatività dell’art. 33 della l. n. 47 del 1985, trattandosi di vincoli temporanei aventi finalità e ratio identiche a quelle di cui all’art. 1-quinquies della medesima l. n. 431 del 1985, che è funzionale alla salvaguardia dei piani paesistici in corso di adozione.
Diversamente argomentando, sempre secondo la medesima parte appellante, l’art. 39 della l. n. 724 del 1994 non potrebbe che violare il fondamentale principio di cui all’art. 3 Cost., in quanto da un lato consente il condono degli abusi realizzati su suoli assoggettati a vincolo di inedificabilità temporanea di cui all’art. 1-quinquies della l. n. 431 del 1985 e dall’altro non consente il condono per i beni individuati dalle Regioni à sensi dell’art. 1-ter della medesima l. n. 431 del 1985 e comunque assoggettati a vincolo regionale imposto à sensi dell’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980 a salvaguardia degli elaborandi piani territoriali paesistici.
4.6.2. Il Collegio, per quanto attiene a quest’ultimo ordine di motivi, evidenzia innanzitutto l’irrilevanza per il caso di specie di ogni questione relativa al vincolo di cui alla l.r. n. 30 del 1990, in quanto intervenuto in epoca successiva alla realizzazione del manufatto abusivo.
Tale irrilevanza, peraltro, non si fonda su quanto prospettato dalla parte appellante, ma sulla consolidata giurisprudenza secondo la quale l’esistenza e la natura del vincolo di inedificabilità vanno comunque considerate al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono edilizio, a prescindere dall’epoca dell’introduzione del vincolo medesimo e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo stesso, con l’unica peculiarità che, in tale evenienza, i vincoli di inedificabilità sopravvenuti alla realizzazione dell’intervento edilizio non operano quali fattori di preclusione assoluta al condono, ma costituiscono vincoli relativi ai sensi dell’art. 32 della l. n. 47 del 1985 e impongono pertanto un apprezzamento concreto di compatibilità (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, A.P., 22 luglio 1999, n. 20; Sez. IV, 4 maggio 2012, n. 2576; Sez. V, 27 marzo 2000 n. 1761 e 4 novembre 1997, n. 1228; Sez. VI 9 marzo 2011, n. 1476; 7 gennaio 2008, n. 22; 5 dicembre 2007, n. 6177; 2 novembre 2007, n. 5669; 22 gennaio 2001, n. 181; 27 marzo 2000, n. 1761)
In conseguenza di ciò, quindi, il vincolo susseguentemente introdotto per effetto della dianzi riportata l.r. n. 30 del 1990 potrebbe invero riguardarsi, anche al di là della sua indiscutibile natura di vincolo di inedificabilità assoluta, quale vincolo di inedificabilità relativa nell’ipotesi in cui esso fosse entrato in vigore in epoca susseguente a quella della realizzazione dell’abuso in ordine al quale è chiesto il condono: ma di tale interpretazione favorevole da parte della giurisprudenza non può comunque giovarsi l’attuale appellante proprio in quanto, in via del tutto dirimente, la realizzazione dell’abuso in questione risale ad epoca antecedente all’entrata in vigore dell’anzidetta l.r. n. 30 del 1990, ossia allorquando indiscutibilmente vigeva il vincolo di inedificabilità assoluta precedentemente imposto per effetto dell’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980 che in via del tutto inderogabile impedisce ex se la sanabilità dell’abuso à sensi dell’art. 33 della l. n. 47 del 1985.
Per il secondo aspetto del motivo in esame, va ancora una volta ribadito che – sulla scorta dell’unanime giurisprudenza dianzi illustrata al § 4.3.2. della presente sentenza – la disciplina contenuta nell’art. 51, lett. f) della l.r. n. 56 del 1980 non va ricondotta ad un’ipotesi di mera misura di salvaguardia direttamente imposta dalla legge a tutela del contenuto di una pianificazione urbanistico-paesistica in itinere, ma va essenzialmente intesa come norma recante un divieto assoluto, ancorché temporaneo, di edificazione entro la fascia costiera, alla quale consegue con immediatezza l’ineludibile insanabilità dell’abuso disposta dall’art. 33 della l. n. 47 del 1985.
Va anche rimarcato che il medesimo vincolo di cui all’art. 51, lett. f), della l.r. n. 56 del 1980 è stato
comunque introdotto in epoca antecedente e in via del tutto autonoma rispetto all’entrata in vigore dell’art. 1-quinquies del d.l. n. 312 del 1985, convertito in l. n. 431 del 1985; il che, dunque, non autorizza, per il fine qui perseguito dall’appellante, il richiamo per analogia alla fattispecie di cui all’art. 1-quinquies della legge n. 431/1985, comportante anch’essa un divieto transitorio di edificabilità sino all’entrata in vigore dei piani territoriali; e che – anzi – proprio la circostanza che il legislatore abbia avvertito la necessità di escludere, con successiva espressa previsione derogatoria (quella, per l’appunto, contenuta nel surriportato art. 39, comma 20, della l. n. 724 del 1994) la riconducibilità del suddetto divieto transitorio di edificare alla previsione dell’art. 33 della l. n. 47 del 1985 dimostra come, al contrario, in assenza di omologa previsione ad excludendum, il concomitante vincolo temporaneo introdotto dal legislatore regionale pugliese rientra tra quelli comportanti l’assoluta insanabilità dell’abuso (così, in termini, Cons. Stato, Sez. V, nelle dianzi citate sentenze n. 2116 del 2012 e n. 1999 del 1914).
5. Per quanto attiene alle spese e agli onorari del giudizio, il Collegio reputa congrua la statuizione sul punto del giudice di primo grado, essendo già a quel tempo intervenuta una consolidata giurisprudenza – sia da parte del T.A.R., sia da parte di questo Consiglio di Stato – in senso negativo rispetto alle deduzioni della parte ivi ricorrente.
Per le stesse ragioni il Collegio dispone ora che anche le spese e gli onorari del presente grado di giudizio seguano l’ordinaria regola della soccombenza di lite, con liquidazione come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese e gli onorari del presente grado di giudizio, complessivamente liquidate nella misura di Euro 3.000,00 (tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2019 con”intervento dei magistrati:
Gabriele Carlotti – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Fulvio Rocco – Consigliere, Estensore
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *