L’errore revocatorio

Consiglio di Stato,
sezione quinta, Sentenza 2 dicembre 2019, n. 8245.

La massima estrapolata:

L’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione.

Sentenza 2 dicembre 2019, n. 8245

Data udienza 3 ottobre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al numero di registro generale 9229 del 2018, proposto da
A.I. – As. It. Qu. e Fo., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. Fa. e Pa. De Gi., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ma. Se. in Roma, via (…);
contro
Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ma. Al., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
per la revocazione
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO – SEZ. V n. 02591/2018, resa tra le parti.
Visti il ricorso per revocazione ed i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Puglia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 ottobre 2019 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti gli avvocati Se., in dichiarata delega di De Gi. e Ve., in dichiarata delega di Al.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.Con ricorso al Tribunale amministrativo della Puglia l’As. It. Qu. e Fo. (A.I.) impugnava il provvedimento del dirigente del servizio professionale della Regione
Puglia 10 febbraio 2010, n. 151, di sospensione “fino all’esito delle indagini” dell’accreditamento regionale insieme agli “atti di liquidazione” relativi alle attività di formazione già assegnate ed in corso di svolgimento.
Allegava l’Associazione di svolgere attività di formazione ed aggiornamento professionale, gestendo corsi indetti e finanziati da enti pubblici (in particolare, dalla Regione Puglia) e corsi “post lauream”, autonomamente organizzati con costi a carico degli allievi; di essere iscritta nell’elenco degli enti pubblici e privati accreditati per la formazione professionale istituito con deliberazione di Giunta regionale 29 dicembre 2004 n. 203, ai sensi del decreto del Ministero del lavoro 25 maggio 2001 e della l.r. 7 agosto 2002, n. 15 (“Riforma della formazione professionale”).
Esponeva che la Regione Puglia aveva adottato il provvedimento di sospensione dell’accreditamento ai sensi dell’art. 24, comma 4-ter, della l.r. n. 15 del 2002, a seguito di un’informativa di polizia giudiziaria diretta alla Procura della Repubblica di Lecce, nella quale venivano addebitati al rappresentante legale dell’Associazione e ad alcuni dipendenti reati commessi nella gestione dei corsi post lauream.
2. Il tribunale adito con sentenza 13 maggio 2010, n. 1867 respingeva il ricorso.
3. L’appello ritualmente proposto veniva respinta dallo V Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 30 aprile 2018, n. 2591, sul presupposto che la condanna in sede penale del rappresentante dell’Associazione e di alcuni dipendenti dimostrava l’effettiva sussistenza di comportamenti illeciti nella gestione dei corsi e che gli atti compiuti dai soggetti condannati erano imputabili all’Associazione, sotto il cui schermo associativo quelli avevano operato.
4. Avverso tale pronuncia l’Associazione ha proposto ricorso per revocazione, affidato ai seguenti motivi rescindenti:
1) Errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. in relazione al primo motivo d’appello.
2) Errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. in relazione agli ulteriori motivi d’appello.
In via rescissoria l’Associazione ricorrente ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità dei provvedimenti originariamente impugnati, riproponendo i motivi di doglianza già sollevati e respinti.
5, Costituitasi in giudizio, la Regione Puglia ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.
6. Le parti hanno poi ulteriormente ribadito, con apposite memorie, le proprie tesi difensive ed all’udienza pubblica del 3 ottobre 2019, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
7. Il ricorso per revocazione è inammissibile.
7.1. Con il primo motivo si contesta che la sentenza impugnata avrebbe respinto integralmente il primo motivo d’appello, omettendo però di considerare la circostanza, documentata in atti, che l’allora Presidente dell’Associazione aveva rassegnato le proprie dimissioni in data antecedente all’adozione della determina dirigenziale gravata in primo grado: tali dimissioni riguardavano sia la carica di Presidente che lo status di associato.
L’omesso esame di tale fatto da un lato avrebbe “drasticamente condizionato l’intero iter argomentativo della pronuncia gravata e, quindi, il convincimento del Giudicante – dall’altro, ha senza alcun dubbio determinato l’insorgenza del vizio ex art. 395, n. 4, c.p.c., che rende applicabile il rimedio della revocazione in un sistema in cui le sentenze rese in grado d’appello sono ricorribili per Cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione”.
Il motivo non può trovare accoglimento.
7.1.1. Il rimedio della revocazione ha natura straordinaria e, per consolidata giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, V, 5 maggio 2016, n. 1824), l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 106 Cod. proc. amm. e 395, n. 4 Cod. proc. civ., deve rispondere a tre requisiti:
a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato;
b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (cfr. Cons. Stato, IV, 14 maggio 2015, n. 2431).
Inoltre l’errore revocatorio deve emergere con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. Stato, IV, 13 dicembre 2013, n. 6006). Esso è configurabile nell’attività preliminare del giudice, relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del convincimento.
Insomma, l’errore di fatto, eccezionalmente idoneo a fondare una domanda di revocazione, è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e di percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza e al loro significato letterale, per modo che del fatto vi siano due divergenti rappresentazioni, quella emergente dalla sentenza e quella emergente dagli atti e dai documenti processuali; ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento e apprezzamento, cioè di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento del giudice (Cons. Stato, V, 7 aprile 2017, n. 1640).
Così, si versa nell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4 Cod. proc. civ. allorché il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo (Cons. Stato, III, 24 maggio 2012, n. 3053); ma se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita.
In tutti questi casi non è possibile censurare la decisione tramite il rimedio – di per sé eccezionale – della revocazione, che altrimenti verrebbe a dar vita ad un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall’ordinamento (ex multis, Cons. Stato, IV, 8 marzo 2017, n. 1088; V, 11 dicembre 2015, n. 5657; IV, 26 agosto 2015, n. 3993; III, 8 ottobre 2012, n. 5212; IV, 28 ottobre 2013, n. 5187).
Peraltro, affinché possa ritenersi sussistente l’errore di fatto revocatorio nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti, è necessario che “nella pronuncia impugnata si affermi espressamente che una certa domanda o eccezione o vizio – motivo non sia stato proposto o al contrario sia stato proposto” (Cons. Stato, V, 4 gennaio 2017, n. 8); inoltre, ricorre l’errore revocatorio in ipotesi di mancata pronuncia su di una censura sollevata dal ricorrente “purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame o di valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione, non censurabile in sede di revocazione” (Cons. Stato, VI, 22 agosto 2017, n. 4055).
Sempre in termini, Cons. Stato, V, 12 maggio 2017, n. 2229, secondo cui “L’errore revocatorio è […] configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 5/4/2016, n. 1331; 22/1/2015, n. 264; Sez. IV, 1/9/2015, n. 4099)”.
Va aggiunto che non sussiste errore revocatorio per il mero “fatto” che alcuni documenti o atti siano stati non esplicitamente esaminati o valorizzati in sentenza, giacché non sussiste alcun obbligo di motivare sulla corretta lettura di ciascun documento di causa, essendo sufficiente rispondere al motivo proposto, dando atto naturalmente di averlo rettamente inteso nella sua reale portata giuridica in ragione dei fatti a cui esso fa riferimento (Cons. Stato, V, 29 aprile 2019, n. 2733; Cons. Stato, V, 4 gennaio 2017, n. 8).
Ancora “si può affermare che, laddove una sentenza menzioni nella parte descrittiva in fatto un motivo di doglianza, pur se ometta di pronunciarsi espressamente su di esso nella parte motiva, ciò non configura un vizio di omessa pronuncia, dovendosi considerare la pronuncia sul punto implicita nella statuizione complessiva della sentenza” (Cons. Stato, V, 19 ottobre 2017, n. 4842).
Va poi ribadita la distinzione tra motivo di ricorso ed argomentazione a ciascuno dei motivi sostegno del medesimo, così come delineata – proprio per delimitare l’ambito della revocazione – dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 27 luglio 2016, n. 21. Il motivo di ricorso delimita ed identifica la domanda spiegata nei confronti del giudice e in relazione ad esso si pone l’obbligo della corrispondenza, in positivo o in negativo, tra chiesto e pronunciato, nel senso che il giudice deve pronunciarsi su ciascuno dei motivi e non soltanto su alcuni di essi; a sostegno del motivo – che identifica la domanda prospettata di fronte al giudice – la parte può addurre, poi, un complesso di argomentazioni, volta a illustrare le diverse censure, ma che non sono idonee, di per se stesse, ad ampliare o restringere la censura, e con essa la domanda.
Rispetto a tali argomentazioni non sussiste un obbligo di specifica pronunzia da parte del giudice, il quale è tenuto a motivare la decisione assunta esclusivamente con riferimento ai motivi di ricorso come sopra identificati (Cons. Stato, V, 27 luglio 2017, n. 3701);
7.1.2. Alla stregua del delineato quadro giurisprudenziale, non si rinvengono nella fattispecie in esame i presupposti del vizio revocatorio.
Preliminarmente va ricordato che le valutazioni espresse in sentenza hanno esclusivamente ad oggetto le argomentazioni dedotte dalle parti nei propri scritti difensivi, che sole definiscono il thema decidendum (individuato dal giudice alla luce del petitum e della causa petendi). La documentazione prodotta dalle medesime parti a supporto delle proprie affermazioni e richieste, per contro, non costituisce autonomo oggetto di sindacato da parte del giudice, che in tanto è tenuto a considerarla, in quanto la stessa venga espressamente richiamata dalle parti nelle predette difese.
Va infatti confermato il principio (da ultimo, Cons. Stato, V, n. 2733 del 2019, cit.) per cui le produzioni documentali svincolate da qualsiasi allegazione ed indicazione negli scritti difensivi vanno considerate tamquam non esset, avendo in ogni caso le parti l’onere di spiegare la valenza dimostrativa dei documenti che producono.
In questi casi, come costantemente ricordato anche dalla giurisprudenza di legittimità, mancando le necessarie indicazioni di parte, non vi è alcun obbligo da parte del giudice di esaminare i documenti, anche se idonei a giustificare illazioni e considerazioni rilevanti ai fini della decisione “deve ribadirsi – in conformità, del resto, ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – che il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte, interessata, ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di controdedurre e per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (cfr. Cass. 16 agosto 1990, n. 8304). Poiché nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall’iniziativa della parte e dall’obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti comunque esistenti in atti determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda, o – comunque – sollecitate dalla parte interessata (cfr. Cass. 12 febbraio 1994, n. 1419; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1385. Nel senso che perché il giudice possa e debba esaminare documenti versati in atti lo stesso deve accertare, oltre la ritualità della produzione, cioè verificare che la produzione stessa sia avvenuta nel rispetto delle regole del contraddittorio, anche la esistenza di una domanda, o di una eccezione, espressamente basata su quei documenti, Cass. 22 novembre 2000, n. 15103, specie in motivazione)” (ex multis, Cass. civ., Sez. un., 1° febbraio 2008, n. 2435).
7.1.3. Ciò precisato si osserva che risulta dagli atti che la questione fondante l’attuale motivo di revocazione non era stata dedotta in alcuno dei motivi di appello – non venendo dunque in considerazione, ai fini della decisione, né quanto al petitum, né alla causa petendi – di talché non avrebbe in alcun modo potuto essere legittimamente esaminata dal giudice, non integrando una delle eccezionali ipotesi di argomento rilevabile d’ufficio.
Trattandosi dunque di questione del tutto estranea al giudizio di appello – avendo le parti in causa deciso nella libera esplicazione delle loro strategie difensive di non introdurla nel giudizio – la stessa è estranea anche all’odierno giudizio di revocazione, pena in caso contrario la violazione delle garanzie processuali sottese al rispetto dei termini decadenziali (ed alle relative preclusioni) per la proposizione dei motivi di ricorso, al principio del contraddittorio ed a quello della “parità delle armi” delle parti.
Del resto, ma solo per completezza, va altresì evidenziato come la sentenza di primo grado avesse espressamente dato atto che “alcuna rilevanza in senso contrario può annettersi alla circostanza delle intervenute dimissioni del sig. Trezza, atteso che i benefici connessi al profitto dell’illecita attività amministrativa contestata risultano complessivamente riferiti al soggetto ricorrente al di là della concreta compagine sociale”, statuizione non impugnata in appello (trattandosi di questione esaminata dal giudice non potrebbe infatti valere il generico rinvio ai motivi di ricorso non esaminati ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., sul tipo di quello a pag. 7 dell’atto di appello) e pertanto coperta già all’epoca del giudizio di secondo grado (conclusosi con la sentenza di cui si chiede attualmente la revocazione) dal vincolo del giudicato fra le parti, con evidente difetto di interesse, tra l’altro, a riproporre in questa sede la censura già respinta.
7.2. Con il secondo motivo di ricorso, palesemente inammissibile già solo per l’evidente genericità, viene poi dedotto che “L’errore percettivo, in cui è incorso il Giudice di secondo grado – per come rilevato al punto superiore – si è riverberato inevitabilmente anche nell’esame degli ulteriori motivi d’appello, legittimando, quindi, anche rispetto agli stessi, la richiesta di revocazione della sentenza impugnata”.
E’ appena il caso di rilevare al riguardo che nessun “errore percettivo” può essere configurato, già solo in termini logici, nel momento in cui la questione che si sostiene non essere stata adeguatamente percepita dal giudice neppure è stata sottoposta all’esame dello stesso dalla parte che in seguito ne lamenta la mancata considerazione.
8. Alla luce di quanto osservato il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna l’Associazione ricorrente al pagamento, in favore della Regione Puglia, delle spese di lite del grado di giudizio, che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00) complessivi, oltre Iva Cpa se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Carlo Saltelli – Presidente
Fabio Franconiero – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere, Estensore
Angela Rotondano – Consigliere
Stefano Fantini – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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