L’errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà

Consiglio di Stato, Sentenza|12 febbraio 2021| n. 1262.

L’errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà processuale e cioè in una svista – obiettivamente ed immediatamente rilevabile – che abbia portato ad affermare o soltanto supporre – purché tale supposizione non sia implicita, ma sia espressa e risulti dalla motivazione, in quanto “un abbaglio dei sensi è incompatibile con l’omissione di motivazione, perché è la motivazione che rivela l’abbaglio.

Sentenza|12 febbraio 2021| n. 1262

Data udienza 12 novembre 2020

Integrale

Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Impugnazioni straordinarie – Revocazione – Errore di fatto revocatorio – Natura – Individuazione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9249 del 2019, proposto da
It. – Nu. Tr. Vi. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Be., Sa. Ri., prof. Er. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Re. Fe. It. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Lo Pi. e prof. Fa. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
Autorità di Regolazione dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
Tr. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati prof. Al. Bo., Vi. Au. e Va. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

sul ricorso numero di registro generale 9958 del 2019, proposto da
Tr. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati prof. Al. Bo., Vi. Au. e Va. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Re. Fe. It. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Lo Pi. e prof. Fa. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
Autorità di Regolazione dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (…);
It. – Nu. Tr. Vi. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Be., Sa. Ri., prof. Er. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Gr. St. Ra. S.p.A., Gr. St. Re. S.p.A. non costituiti in giudizio;
per la revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 6108/2019, resa tra le parti;
Visti i ricorsi in revocazione e i relativi allegati;
Visti il ricorso incidentale in revocazione dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti, di Tr. S.p.A., di Re. Fe. It. S.p.A. e di It. – Nu. Tr. Vi. S.p.A.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell’udienza pubblica del giorno 12 novembre 2020 svoltasi ai sensi dell’art. 25 Decreto Legge 137 del 28 ottobre 2020 attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ricorso dinnanzi a questo Consiglio iscritto al n. r.g. 9249 del 2019, It. – Nu. Tr. Vi. SpA (per brevità, anche It.), impresa ferroviaria esercente servizi di trasporto passeggeri di tipo AV/AC (Alta Velocità /Alta Capacità ) sull’infrastruttura ferroviaria nazionale, gestita da Re. Fe. It. SpA (per brevità anche gestore o RF.) in regime di concessione, ha chiesto la revocazione della sentenza 9 settembre 2019 n. 6108, con cui questo Consiglio, in accoglimento dell’appello proposto da RF. e in riforma della sentenza gravata pronunciata dal T.A.R. Piemonte, Sez. II, 21 aprile 2017 n. 541, ha annullato la delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (per brevità, anche ART) n. 70 del 2014, recante misure di “regolazione dell’accesso equo e non discriminatorio alle infrastrutture ferroviarie e avvio del procedimento per la definizione dei criteri per la determinazione del pedaggio per l’utilizzo delle infrastrutture ferroviarie”, nella parte riferita alla determinazione, con decorrenza immediata, in euro 8,2 treno/Km del canone di accesso all’infrastruttura per il periodo novembre 2014 – dicembre 2015.
Secondo la prospettazione del ricorrente, in particolare, la Sezione, nel pronunciare sull’appello, da un lato, avrebbe affermato e posto alla base della propria decisione l’inesistenza di fatti la cui esistenza era invece pacifica tra le parti in causa, dall’altro, avrebbe travisato il contenuto delle domande effettivamente proposte da RF..
In particolare:
– sotto il primo profilo, nella pronuncia revocanda si assumerebbe che il pedaggio di euro 8,2 treno/km fissato dalla delibera ART n. 70 del 2014 non contemplasse, tra i costi meritevoli di recupero da parte del gestore dell’infrastruttura, quelli correlati alla remunerazione del capitale investito (WACC), sebbene fosse pacifico tra le parti in causa che il capitale investito da RF. nella realizzazione dell’infrastruttura AV/AC era stato almeno in parte (anche se in misura ritenuta insufficiente da RF.) remunerato dal pedaggio calcolato in euro 8,2 treno/km;
– sotto il secondo profilo, la pronuncia revocanda avrebbe erroneamente presupposto che l’appello fosse diretto a contestare l’illegittimità della delibera n. 70 del 2014 per aver essa omesso di considerare – tra i criteri per la determinazione del canone di accesso all’infrastruttura ferroviaria – la voce relativa alla remunerazione del capitale (WACC) investito da RF., laddove invece la censura verteva, anziché sulla totale mancanza, sulla supposta insufficiente copertura di tale voce di costo, con specifico riferimento alla sua componente di capitale di rischio, come anche dimostrato dai documenti nn. 2 del fascicolo di appello RF. e 11 del fascicolo di primo grado It.; per l’effetto, il giudice a quo avrebbe omesso di pronunciare sulle domande articolate da RF. e, quindi, di verificare se i criteri stabiliti nella delibera n. 70 del 2014 consentissero o meno una adeguata considerazione della remunerazione del capitale investito dal Gestore di Infrastruttura nella realizzazione della infrastruttura AV/AC.
Inoltre, quale ulteriore motivo di revocazione, il ricorrente contesta che la pronuncia revocanda supporrebbe l’inesistenza di un meccanismo di recupero, negli esercizi successivi, delle componenti tariffarie non incluse nel pedaggio stabilito dalla delibera impugnata in prime cure, quando, invece, il canone di euro 8,2 treno/km stabilito sulla base dei criteri della delibera ART n. 70 del 2014 ha avuto carattere intrinsecamente provvisorio, trovando applicazione solo dal mese di novembre 2014 al mese di dicembre 2015.
In data 1° gennaio 2016 era, infatti, entrato in vigore il nuovo sistema tariffario previsto dalla delibera ART n. 96 del 2015 e (anche) in tale sistema la remunerazione del capitale investito (WACC) assumeva indiscutibilmente rilievo quale componente di costo costitutiva del canone di accesso alla rete; per l’effetto, i costi di capitale asseritamente non recuperati da RF. nel corso della vigenza del canone stabilito dalla delibera 70 del 2014, vale a dire nel periodo novembre 2014 – dicembre 2015, sarebbero stati inclusi tra quelli che avevano concorso alla formazione delle nuove tariffe, entrate in vigore il 1° gennaio 2016.
In particolare, dal doc. 11 del fascicolo di parte It. in primo grado emergeva che, ove anche il WACC fosse rimasto del tutto escluso dalla determinazione del canone di accesso alla rete di cui alla delibera ART n. 70 del 2014 (circostanza comunque non realizzatasi, secondo la prospettazione del ricorrente), costituiva un dato di fatto che lo stesso sarebbe stato comunque recuperato nel vigore del sistema tariffario successivamente introdotto con delibera n. 96 del 2015.
Con riguardo alla fase rescissoria del giudizio, la ricorrente ha rinviato alle difese svolte in relazione al riesame nel merito dei motivi di appello.
2. L’Autorità di Regolazione dei Trasporti (per brevità anche ART o Autorità ) con ricorso incidentale, proposto nell’ambito del giudizio n. r.g. 9249 del 2019, ha chiesto la revocazione della sentenza n. 6108 del 2019, contestando la sussistenza di un errore di fatto ex art. 395, comma 1, n. 4, c.p.a., per avere il giudice a quo assunto che il valore unitario del canone applicato dal mese di novembre 2014 al mese di dicembre 2015 non comprendesse la remunerazione del capitale investito nella sua componente di capitale di rischio, invece incluso nella “componente di gestione dell’infrastruttura”.
In particolare, dopo aver ricostruito l’evoluzione della disciplina regolatoria vigente in materia, secondo quanto dedotto dall’Autorità, dalla documentazione agli atti del giudizio sarebbe risultata con immediatezza la circostanza che la tariffa di 8,2 Euro/treno*km includeva una quota di remunerazione del capitale investito, per un importo complessivo pari a circa 62,44 MlnEuro (derivante dalla remunerazione unitaria di 2,8Euro/treno*km moltiplicata per i volumi di traffico 2015, pari a 22,3 MLN di treno*km); nello stesso atto di appello al par. I.3 le censure non riguardavano il mancato riconoscimento del WACC, ma la sua determinazione quantitativa, ritenuta inadeguata; circostanza idonea ad assumere autonoma valenza, configurando un errore revocatorio per “inesatta percezione del contenuto della domanda”.
La sentenza risulterebbe errata anche nella parte in cui si è riferita al mancato recupero del “credito regolatorio” connesso alla riduzione del pedaggio negli anni successivi, tenuto conto che RF. non avrebbe maturato alcun credito regolatorio avendo incassato, per il 2015, un pedaggio inclusivo della componente di costo per cui è controversia; con delibera 96/2015 l’Autorità aveva, inoltre, dato luogo ad una radicale riforma del metodo di determinazione del pedaggio, facendo venire meno i presupposti stessi su cui erano state formulate le originarie ipotesi, e in forza dei quali era stato fissato il pedaggio nel periodo novembre 2014 – dicembre 2015.
L’Autorità ha presentato, altresì, un’istanza inibitoria dell’esecutività della sentenza impugnata.
3. Re. Fe. It. si è costituita nel giudizio n. r.g. 9249 del 2019, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle revocazioni, nonché riproponendo i motivi di censura assorbiti nel giudizio a quo “per la non creduta ipotesi in cui Codesto Ecc.mo Consiglio di Stato dovesse ritenere che i ricorsi avversari possano superare l’esame di ammissibilità in fase rescindente” (pag. 2 atto di costituzione del 29 novembre 2019).
Nell’ambito del medesimo giudizio si è costituita anche Tr. SpA, chiedendo l’accoglimento dei motivi di revocazione.
In vista della camera di consiglio fissata per la discussione dell’istanza inibitoria articolata dall’Autorità, Re. Fe. It. ha controdedotto ai motivi di revocazione con memoria del 9.3.2020 e, comunque, con note del 27 marzo 2020 ha rappresentato che, in considerazione della situazione emergenziale legata all’epidemia da COVID19, non era intendimento di Re. Fe. It. S.p.A. chiedere l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 settembre 2019 n. 6108. Per l’effetto, l’Autorità con atto del 30.3.2020, vista la dichiarazione di RF., ha chiesto l’abbinamento dell’inibitoria alla trattazione del merito.
La Sezione con ordinanza n. 2583 dell’11 maggio 2020 ha disposto il non luogo a provvedere sulla domanda di inibitoria, abbinandola al merito, per il quale ha fissato l’udienza pubblica del 12 novembre 2020.
4. In vista dell’udienza del 12 novembre 2020 It. e Re. Fe. It. SpA hanno insistito nelle proprie conclusioni con memorie del 27 ottobre 2020; le stesse società, così come Tr., hanno depositato pure memorie di replica, oltre che note di udienza.
5. Con autonomo ricorso iscritto al n. r.g. 9958 del 2019 Tr. ha chiesto la revocazione della medesima sentenza n. 6108 del 2019, denunciando la sussistenza di errori di fatto ex art. 395, comma 1, n. 4, c.p.a incidenti sull’esito della controversia di appello.
In particolare, secondo quanto dedotto da Tr.:
– il giudice a quo sarebbe incorso in errore di fatto nel ritenere che l’applicazione del canone AV/AC di 8,2 euro/km fosse stato definito escludendo a priori qualsiasi remunerazione del capitale investito (già nel 2015) e senza alcuna possibilità di recuperare il WACC negli anni dal 2016 in poi; quando, invece, alla stregua di quanto emergente dai documenti di causa, come valorizzati anche da apposita consulenza tecnica di parte prodotta in allegato al ricorso, emergeva che il canone AV/AC, quantificato in 8,2 euro/Km considerava, altresì, un WACC pari al 5,5%, con recupero della remunerazione del capitale a partire dal 2015 e sulla base dell’intero periodo della concessione per la gestione della rete ferroviaria; con la conseguente necessità di ritenere pacifica la previsione di una remunerazione del WACC già nel 2015, da completare lungo l’intero arco della concessione, fino al 2060, sulla base, tuttavia, di distinti atti di regolazione, essendo limitata la delibera n. 70 del 2014 all’annualità 2015;
– lo stesso gestore dell’infrastruttura ferroviaria aveva riconosciuto nei propri atti depositati in giudizio che il pedaggio AV/AC di 8,2 euro/Km consentiva una forma di recupero della remunerazione del capitale investito già per il 2015;
– la delibera n. 70 del 2014 non aveva escluso il recupero della remunerazione del WACC negli anni dal 2016 in poi, bensì al punto 6.5.2 aveva previsto che la ridefinizione complessiva dei criteri e delle modalità di rideterminazione del canone di accesso all’infrastruttura ferroviaria per gli anni successivi al 2015 sarebbe stata oggetto di specifico procedimento istruttorio, culminato con la delibera n. 96 del 2015; comunque non costituente oggetto del presente giudizio e in relazione alla quale il gestore dell’infrastruttura aveva prestato acquiescenza;
– l’integrale inclusione della remunerazione del capitale investito nel pedaggio non risultava prevista nel quadro normativo attuato dalla Delibera 70/2104 (D.Lgs. 188/2003, che aveva recepito la Direttiva 2001/14/CE), essendo stata introdotta solamente dal D.Lgs. 112/2015 (che ha recepito la Direttiva 2012/34/UE), attuato con la Delibera 96/2015; con la conseguenza che l’errata percezione dei fatti di causa avrebbe indotto il giudice a quo ad un’interpretazione normativa errata, provvedendo alla valorizzazione dello jus superveniens per una lettura retrospettiva delle norme previgenti; quando, invece, proprio la normativa sopravvenuta, innovando la materia, confermava che i nuovi obblighi ivi previsti non avrebbero potuto operare sotto la previgente disciplina di settore;
– un’analisi in ordine al recupero del WACC richiesto dal gestore dell’infrastruttura avrebbe potuto essere svolta soltanto nell’ambito del giudizio riferito alla delibera n. 96 del 2015 – nell’ambito del quale, tuttavia, il gestore aveva prestato acquiescenza alla relativa regolazione -, risultando, invece, inconferente in relazione alla delibera n. 70 del 2014; ragion per cui una tale contestazione non avrebbe potuto essere accolta nel giudizio a quo.
Tr., in relazione al giudizio rescissorio, ha riproposto le difese svolte nel giudizio di appello in controdeduzione alle censure ivi svolte dal gestore.
6. Nell’ambito del giudizio n. r.g. 9958 del 2019 si sono costituiti, altresì, l’Autorità, It. – Nu. Tr. Vi. SpA e Re. Fe. It..
In particolare:
– Re. Fe. It. ha anche in tale sede processuale eccepito l’inammissibilità e l’infondatezza delle revocazioni, riproponendo i motivi di censura assorbiti nel giudizio a quo “per la non creduta ipotesi in cui Codesto Ecc.mo Consiglio di Stato dovesse ritenere che i ricorsi avversari possano superare l’esame di ammissibilità in fase rescindente” (pag. 2 atto di costituzione del 23 dicembre 2019);
– It. ha chiesto l’accoglimento dei motivi di revocazione.
In vista dell’udienza pubblica di discussione, It. e Re. Fe. It. SpA hanno insistito nelle proprie conclusioni con memorie del 27 ottobre 2020; Re. Fe. It. e Tr. hanno depositato pure memorie di replica. Le tre società hanno depositato, infine, note di udienza.
7. Le cause sono state trattenute in decisione nell’udienza del 12 novembre 2020.

DIRITTO

1. Preliminarmente, le impugnazioni per cui è controversia, in quanto proposte contro la stessa sentenza, devono essere decise unitariamente, nell’ambito del simultaneus processus, previa loro riunione ex art. 96, comma 1, c.p.a.
2. I motivi revocatori articolati dall’Autorità, da It. e da Tr. tendono a denunciare pretesi errori di fatto inficianti la sentenza impugnata.
Al riguardo, in via preliminare, prima di esaminare le singole doglianze articolate dai ricorrenti, giova rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 06 novembre 2020, n. 6842), l’errore di fatto “revocatorio” – da distinguere dall’errore di diritto, tale da non dare luogo ad esito positivo della fase rescindente del giudizio di revocazione, non potendo l’istituto della revocazione, attesa la sua eccezionalità, essere impiegato come terzo grado di giudizio -, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 106 del c.p.a. e 395 n. 4 del c.p.c. – deve rispondere a tre requisiti:
a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato;
b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.
Tale errore, inoltre, deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche; esso è configurabile nell’attività preliminare del giudice, relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del convincimento.
Per l’effetto, “si versa nell’errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4, c.p.c. allorché il giudice – per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo – sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, ma se ne esula allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o l’anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita” (Consiglio di Stato, sez. IV, 6 agosto 2020, n. 4955).
Peraltro, affinché possa ritenersi sussistente l’errore di fatto revocatorio nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti, è necessario che “nella pronuncia impugnata si affermi espressamente che una certa domanda o eccezione o vizio – motivo non sia stato proposto o al contrario sia stato proposto” (Consiglio di Stato, sez. V, 4 gennaio 2017, n. 8).
3. Ciò premesso, alla stregua delle esposte coordinate ermeneutiche, occorre verificare se le censure svolte dai ricorrenti integrino effettivamente gli estremi dell’errore di fatto revocatorio e, come tali, siano ammissibili nella presente sede processuale.
A tali fini, avuto riguardo ai motivi di revocazione proposti dai ricorrenti, come sintetizzati nella descrizione dei fatti di causa, occorre accertare se il giudice a quo:
– abbia correttamente percepito il contenuto della domanda processuale proposta dall’appellante, pronunciando, dunque, in coerenza rispetto a quanto richiesto dal gestore dell’infrastruttura;
– abbia correttamente ricostruito il tenore letterale degli atti e dei documenti acquisiti al giudizio, senza supporre l’esistenza di un fatto la cui verità era incontrastabilmente esclusa oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità era positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso sempre che il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.
4. In particolare, con un primo ordine di contestazioni le parti ricorrenti denunciano un errore di fatto inficiante la validità della sentenza impugnata, tradottosi nell’erronea ricostruzione del contenuto della domanda proposta da RF. in sede di appello, con specifico riferimento all’adeguata considerazione della remunerazione del capitale di rischio assicurata dalla delibera n. 70 del 2014.
Il giudice a quo, difatti, avrebbe erroneamente presupposto che l’appello fosse diretto a contestare l’illegittimità della delibera n. 70 del 2014 per avere omesso di considerare, tra i criteri per la determinazione del canone di accesso all’infrastruttura ferroviaria, la voce relativa alla remunerazione del capitale (WACC) investito da RF., quando invece l’appellante aveva denunciato, anziché la totale mancanza, la non sufficiente considerazione di tale voce di costo, con specifico riferimento alla sua componente di capitale di rischio.
In tale modo, il giudice a quo avrebbe omesso di pronunciare sulle domande articolate dall’appellante e, quindi, di verificare se i criteri stabiliti nella delibera n. 70 del 2014 consentissero o meno una adeguata considerazione della remunerazione del capitale investito dal gestore nella realizzazione della infrastruttura AV/AC.
I motivi di revocazione sono inammissibili.
La pronuncia revocanda dà atto espressamente che RF., adendo la sede impugnatoria, aveva censurato “l’intrinseca erroneità della riduzione ad euro 8,2 treno/km per via della parziale e non adeguata considerazione della “remunerazione del capitale investito” (punto 3 motivazione in fatto); il che esclude qualsivoglia errore percettivo nella ricostruzione delle censure svolte dalla parte appellante.
Il giudice a quo, in particolare, non ha ritenuto che l’appellante avesse denunciato la mancata considerazione, nel pedaggio dovuto per l’accesso all’infrastruttura, della remunerazione del capitale investito, bensì ha chiaramente precisato che le doglianze, costituenti il thema decidendum su cui statuire, erano rivolte a contestare “parziale e non adeguata considerazione” di tale voce di costo; il che corrispondeva esattamente a quanto contestato da RF. nel proprio atto di appello, in cui si censurava “l’intrinseca erroneità della riduzione ad euro 8,2 treno/km per via della parziale e non adeguata considerazione della “remunerazione del capitale investito” (pag. 3 appello).
Si è, dunque, in presenza di una perfetta coincidenza, anche terminologica, tra la censura svolta in sede di appello e la censura percepita dal giudice a quo, correttamente ricostruita nella sua portata letterale nella sentenza revocanda.
La circostanza per cui in altre statuizioni recate nella pronuncia impugnata non sia stato ripetuto che l’omessa considerazione della “remunerazione del capitale investito” risultava “parziale e non adeguata” non risulta dirimente.
Al fine di ricostruire il contenuto precettivo di una sentenza revocanda, occorre procedere ad un’interpretazione sistematica delle relative statuizioni, avendo riguardo all’ordito complessivo della motivazione giudiziale, non potendo verificarsi sulla base di statuizioni, riferite a singoli passaggi dell’impianto motivazionale, svincolati dal complessivo sistema argomentativo in cui sono inseriti, se il giudice procedente abbia correttamente percepito sia il petitum della domanda processuale, sia i fatti sottesi alle censure componenti il thema decidendum, per come allegati ed emergenti dagli atti acquisiti al giudizio (cfr. Consiglio di Stato Sez. III, 20 novembre 2013, n. 5487 sulla necessità di un esame complessivo dell’apparato motivazionale, onde verificare se la pronuncia revocanda sia connotata da una completa ed esaustiva cognizione del thema decidendum).
L’applicazione di tale principio giuridico al caso di specie evidenzia che, nella ricostruzione dei fatti di causa -e, dunque, anche del tenore delle censure svolte dall’appellante-, il giudice a quo aveva già dato atto che la doglianza dedotta in appello afferiva ad una valorizzazione della remunerazione del capitale investito “parziale e non adeguata” e, quindi, in una misura inferiore rispetto a quanto preteso dall’appellante. Non era, pertanto, necessario ribadire, ogni qualvolta si fosse richiamato il contenuto della domanda processuale, che l’omessa considerazione della remunerazione del capitale di rischio non era totale, ma soltanto parziale e inadeguata, facendosi questione di precisazione già fornita nell’ambito della stessa sentenza.
Pertanto, quando nella pronuncia revocanda si dà atto che “l’appellante insiste nel sostenere l’illegittimità della delibera n. 70 del 2014 per avere essa determinato ad una soglia troppo bassa tale misura e, in particolare, per averlo fatto senza includervi la remunerazione del capitale investito nella realizzazione della infrastruttura AV/AC”, la relativa statuizione (così come le altre analoghe statuizioni recate nella motivazione in diritto) deve essere intesa alla stregua di quanto già precisato nell’ambito della stessa sentenza in relazione alla portata applicativa della relativa censura; sicché l’illegittimità sostenuta dall’appellante, correttamente percepita dal giudice a quo, non poteva che riferirsi alla mancata inclusione di tale componente di costo nella misura pretesa da RF..
In ogni caso, una volta ricostruito correttamente il tenore letterale della domanda processuale, perché fedelmente riprodotto nella descrizione del “fatto” di causa, la successiva interpretazione della domanda, con specifico riferimento allo scopo perseguito dall’appellante attraverso l’iniziativa processuale, come sintetizzato nella motivazione “in diritto” della sentenza, non potrebbe comunque integrare gli estremi dell’errore revocatorio, afferendo ad un’attività di ragionamento e apprezzamento e, dunque, di interpretazione e di valutazione del contenuto della domanda ai fini della formazione del convincimento giudiziale, come tale esulante dall’ambito di applicazione del rimedio revocatorio.
Peraltro, a conferma dell’assenza di errori di fatti inficianti la sentenza impugnata, deve osservarsi che anche nell’ambito dell’atto di appello proposto da RF. si assiste all’utilizzo di termini indifferentemente riferiti sia alla considerazione parziale e inadeguata della remunerazione del capitale di rischio (censurandosi “l’intrinseca erroneità della riduzione ad euro 8,2 treno/km per via della parziale e non adeguata considerazione della “remunerazione del capitale investito” – pag. 3 appello; cfr. anche pag. 22 e 23), sia alla mancata inclusione di tale componente tra le voci di costo remunerabili sulla base della delibera impugnata in prime cure, analogamente a quanto avvenuto nell’ambito della pronuncia revocanda; il che conferma l’assenza dell’errore revocatorio censurato dalle odierne ricorrenti, avendo la Sezione esattamente ricostruito il motivo di appello, nel suo tenore letterale, riportando le doglianze per come formulate da RF..
In particolare, il gestore dell’infrastruttura, nell’ambito dell’atto di appello:
– a pag 3, dava atto che “La presente controversia riguarda l’impugnazione dell’atto (delibera n. 70/2014) con cui l’ART ha stabilito il costo del pedaggio (al valore di euro 8,2 treno/km) per l’utilizzo della rete ferroviaria nell’alta velocità . Un valore, questo, ritenuto da RF. troppo basso, anche sulla base del confronto con le altre realtà europee, e comunque privo della copertura di una specifica voce di costo: segnatamente, la “remunerazione o rendimento del capitale investito” nella sua componente di Capitale di Rischio”;
– a pag. 16, precisava la sua intenzione di “anzitutto censurare le ragioni in base alle quali il TAR Piemonte ha respinto il quinto motivo di ricorso di RF., relativo all’erroneità sostanziale della misura del canone di pedaggio ad euro 8,2 treno/km. Quindi, si ripropone qui il motivo col quale RF. intendeva ed intende adesso dimostrare l’illegittimità della delibera n. 70/2014, per avere essa determinato ad una soglia troppo bassa tale misura e per averlo fatto, per la precisione, senza includervi la remunerazione del capitale investito nella realizzazione della infrastruttura AV/AC, nella sua componente di Capitale di Rischio”.
Parimenti, anche in sede di memoria di replica il gestore dell’infrastruttura, nel ricostruire il contenuto del primo motivo di appello, rilevava di avere dedotto “l’illegittimità della delibera ART n. 70/2014 per aver essa determinato un valore troppo basso del canone per l’accesso e l’utilizzo dell’infrastruttura AV/AC e, soprattutto, per aver escluso la possibilità di ottenere la remunerazione del capitale investito nella realizzazione della infrastruttura AV/AC, nella sua componente di Capitale di Rischio” (pagg. 1/2).
Similmente a quanto avvenuto nell’ambito della pronuncia revocanda, anche in sede di appello e di memoria di replica, RF. – rispettivamente, nell’articolare e nel ricostruire la portata delle proprie censure -, fa riferimento, oltre che all’inadeguata e parziale valorizzazione del capitale di rischio, alla mancata copertura di tale voce (nel costo del pedaggio dovuto per l’accesso all’infrastruttura ferroviaria AV/AC).
Anche in tale caso, la contestazione riguardante la mancata inclusione della “remunerazione del capitale investito nella realizzazione della infrastruttura AV/AC, nella sua componente di Capitale di Rischio”, alla stregua di una lettura unitaria dell’atto di appello, doveva intendersi, anziché come integrale espunzione di tale voce di costo (nella sua componente del capitale di rischio) tra quelle remunerabili, come “sostanziale mancato riconoscimento della voce di costo in questione operato dall’Autorità con l’adozione della Delibera 70/2014”, alla stregua di quanto pure chiarito dallo stesso appellante a pag.19 dell’appello e a pag. 6 della memoria di replica.
Sulla base delle osservazioni svolte, deve escludersi l’esistenza del vizio revocatorio censurato dai ricorrenti, sub specie di errata percezione dell’oggetto della domanda processuale svolta da RF., sussistendo una perfetta coincidenza tra la rappresentazione delle censure emergente dagli atti processuali depositati dall’appellante e la rappresentazione delle stesse censure ricostruite nella pronuncia revocanda, facendosi, in particolare, questione in entrambe le ipotesi di doglianze riguardanti l’inadeguata e la parziale considerazione della remunerazione del capitale di rischio e comunque il suo “sostanziale mancato riconoscimento” tra le voci di costo computate nella delibera impugnata in prime cure.
5. Con un secondo ordine di contestazioni i ricorrenti impugnano la sentenza revocanda, per avere erroneamente assunto che la delibera impugnata in prime cure, nella parte in cui definiva i criteri di calcolo per la quantificazione del pedaggio AV/AC (con sua liquidazione in euro 8,2 treno/km), non contemplasse, tra i costi meritevoli di recupero da parte del Gestore di Infrastruttura, quelli correlati alla remunerazione del capitale investito (WACC), sebbene fosse pacifico tra le parti in causa che il capitale investito da RF. nella realizzazione dell’infrastruttura AV/AC era stato almeno in parte remunerato dal pedaggio calcolato in euro 8,2 treno/km.
Anche tali doglianze sono inammissibili, in quanto non denunciano un errore di fatto, ma l’interpretazione data alla delibera n. 70 del 2014 dal giudice a quo e, comunque, sono prive del carattere della decisività, non afferendo alle rationes decidendi poste a fondamento della pronuncia giudiziaria, individuate, in particolare, nella necessità che l’Autorità, nel dettare i criteri per la determinazione del canone di accesso all’infrastruttura AV/AC per il periodo novembre 2014 – dicembre 2015, riconoscesse in favore di RF. l’intero rimborso dei costi totali, ivi compresa la remunerazione del capitale investito.
5.1 In particolare, sotto il primo profilo, sufficiente ad escludere l’esistenza di un’errata percezione della realtà processuale ovvero dell’esistenza o del tenore letterale degli atti e dei documenti acquisiti al giudizio, si osserva che l’errore revocatorio è configurabile solo riguardo all’attività ricognitiva di lettura e di percezione degli atti acquisiti al processo, quanto a loro esistenza e a loro significato letterale, per modo che del fatto vi siano due divergenti rappresentazioni, quella emergente dalla sentenza e quella risultante dagli atti e dai documenti processuali; ma non coinvolge la successiva attività di ragionamento e apprezzamento, cioè di interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande, delle eccezioni e del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento del giudice (tra le altre, Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 2019, 1144).
Nella specie, la sentenza impugnata provvede alla fedele ed integrale trascrizione del punto 6.6.2 della delibera n. 70 del 2014, recante i criteri di ammissibilità delle voci di costo (cfr. punto 2.3 sentenza revocanda, in cui si dà atto che “Nel contesto normativo appena descritto è intervenuta la delibera n. 70 del 31 ottobre 2014, il cui Allegato, al punto 6.6.2, prevede quanto segue: “Con riferimento ai criteri di ammissibilità delle voci di costo, l’Autorità prescrive al GI che, per il computo del pedaggio di accesso alla rete AV/AC, siano ammissibili, in aggiunta alla componente relativa al costo di gestione dell’infrastruttura, adeguatamente rimodulato, esclusivamente le seguenti quote annuali degli oneri finanziari, opportunamente ottimizzati in coerenza con le migliori condizioni di mercato: a) la quota annuale degli oneri finanziari residui sostenuti direttamente dal GI per gli investimenti già realizzati al 31/12/2013, in quanto non coperti da contributi pubblici; b) la quota annuale degli oneri finanziari cumulati da sostenere per gli investimenti in corso di realizzazione successivamente al 31/12/2013, calcolati sui soli costi effettivamente sostenuti dal GI al netto dei contributi pubblici””); sicché, deve escludersi che il giudice a quo sia incorso in un “abbaglio dei sensi” (Consiglio di Stato Sez. V, 19 ottobre 2020, n. 6304) o, comunque, in una svista nella ricostruzione della portata letterale della misura di regolazione contestata in giudizio.
Né potrebbe dedursi la scorretta ricostruzione, operata nella sentenza revocanda, degli effetti discendenti da una misura regolatoria correttamente percepita nel suo tenore letterale, facendosi questione di attività di interpretazione giudiziale, tesa a ricostruire il significato precettivo associabile all’atto impugnato in primo grado, come tale insuscettibile di integrare gli estremi dell’errore di fatto revocatorio.
Al riguardo, la giurisprudenza di questo Consiglio ha precisato che l’interpretazione degli atti amministrativi soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 e ss. c.c. per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo in ogni caso il giudice ricostruire l’intento dell’Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell’atto (cd. interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione di buona fede ex art. 1366 c.c., gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla P.A. di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotte certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative (Consiglio di Stato Sez. VI, 30 giugno 2020, n. 4166).
Pertanto, la qualificazione di un atto e la ricostruzione dei suoi effetti giuridici, salva l’ipotesi in cui siano operate sulla base di un’errata percezione delle espressioni letterali di cui si compone l’atto esaminato – nel qual caso si sarebbe effettivamente in presenza di una svista nella rappresentazione del tenuto letterale del relativo atto, suscettibile di integrare gli estremi dell’errore di fatto revocatorio-, afferiscono all’attività interpretativa, ai fini della formazione del convincimento del giudice, non denunciabile con il rimedio revocatorio.
Nella specie, posto che il giudice a quo non è incorso in un’erronea percezione del tenore letterale della misura regolatoria, anzi correttamente riportata nella sua formulazione peRF.no in sentenza, le censure svolte dai ricorrenti non riguardano un errore di fatto, bensì si traducono nell’inammissibile denuncia di un error in judicando nella valutazione e ricostruzione del contenuto della delibera impugnata in prime cure (per avere la sentenza revocanda asseritamente escluso la remunerazione del capitale investito nella sua componente di capitale di rischio quale costo ammissibile ai sensi della delibera n. 70/14).
5.2 In ogni caso, le doglianze articolate dai ricorrenti sono inammissibili anche perché denunciano un errore che, oltre a non integrare gli estremi dell’errore di fatto, non afferiscono neppure ad un elemento decisivo ai fini della soluzione della controversia.
Con la pronuncia revocanda sono state ritenute errate le statuizioni del Tar, secondo cui “l’art. 15 del d.lgs. n. 188 del 2003 dispone, al primo comma, che la contabilità del gestore deve presentare un tendenziale equilibrio tra i ricavi complessivi conseguiti ed i costi relativi alla gestione dell’infrastruttura, così implicitamente escludendo la possibilità che gli investimenti siano coperti in parziale autofinanziamento con il flusso degli introiti da pedaggio. Tale argomento appare di per sé sufficiente a fondare la legittimità dell’intervento regolatorio dell’Autorità, che non era tenuta a compiere accertamenti sulla destinazione del gettito del pedaggio, nel senso qui reclamato da RF.. In punto di fatto, poi, il pregiudizio economico denunciato dalla ricorrente è stato presto ridimensionato: come si è visto in relazione al secondo motivo d’impugnativa, il canone di 8,2 euro/km ha trovato applicazione transitoria limitata ad un anno”.
Il giudice a quo, dopo avere ricostruito il quadro normativo di riferimento, ha ritenuto che la disciplina di settore non ostasse al soddisfacimento della pretesa azionata dall’appellante, avente ad oggetto il recupero, per l’anno 2015, delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo della rete AV/AC.
In particolare, nella sentenza revocanda, avuto riguardo ai progetti che migliorino l’efficienza e la redditività della rete, si rileva che: “l’Autorità di regolazione è chiamata a stabilire criteri per la determinazione del canone di accesso finalizzati al recupero non solo dei costi diretti, ma anche dei costi totali. Ebbene, tra i predetti “costi” va di regola incluso ? al cospetto di servizi economici di interesse generale, per i quali cioè esista un mercato di riferimento ? anche il rendimento del capitale investito. Il costo medio ponderato del capitale, generalmente indicato con l’acronimo inglese “Weighted Average Cost of Capital” (WACC), misura infatti il costo-opportunità che una impresa sostiene per raccogliere le risorse finanziarie occorrenti per l’attività, vuoi sotto forma di capitale di rischio (raccolta presso il mercato finanziario o presso gli investitori) vuoi sotto forma di capitale di credito (raccolta di mezzi di terzi, in forma di finanziamenti). Tale voce esprime, in coerenza con gli equivalenti di mercato, la soglia minima di rendimento accettabile ai fini della profittabilità o della scelta di effettuare o meno un investimento, ed è dunque il “costo” con cui l’azienda deve remunerare i suoi finanziatori (azionisti, detentori di titoli di debito)”.
Attraverso tali statuizioni, il giudice a quo ha, dunque, rilevato che:
– il rendimento del capitale investito, sotto forma di capitale di rischio, misurabile attraverso il costo medio ponderato del capitale, si traduce nel costo che l’impresa deve sostenere per remunerare i propri finanziatori, esprimendo la soglia di rendimento accettabile ai fini della profittabilità o della scelta di effettuale o meno un investimento;
– i costi totali, ivi compresi i costi figurativi di remunerazione del capitale investivo, devono essere presi in considerazione nello stabilire i criteri per la determinazione del canone di accesso all’infrastruttura.
Tale conclusione è stata confermata nella sentenza revocanda anche sulla base di ulteriori elementi argomentativi, riferiti a:
– la normativa sopravvenuta che, a fronte di un modello aziendale prefigurato dal legislatore per la gestione dell’infrastruttura rimasto inalterato, si prestava ad “una lettura retrospettiva del materiale normativo previgente”, confermando la necessità di includere nei costi di infrastruttura la remunerazione del capitale investito (artt. 16, comma 1, d.lgs. n. 112 del 2015);
– la delibera n. 96 del 2015, che includeva tra le voci tariffarie la remunerazione del capitale investito nell’infrastruttura AV/AC come componente necessaria del canone di pedaggio, sia pure senza prevedere alcuna forma di recupero per l’anno 2015;
– il sistema tariffario operante per i servizi economici assunti dalla pubblica amministrazione in regime di riserva legale ovvero attribuiti in concessione, come ricostruibile dalle disposizioni succedutesi nel tempo (l’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498; gli artt. 1 e 2, commi 17 e 18, della legge 14 novembre 1995, n. 481; l’art. 117 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267; l’art. 165 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), che assegnava alle tariffe dei servizi di interesse economico generale la funzione di assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione, quale che sia la metodologia concretamente applicata, tale, dunque, da imporre “l’integrale copertura dei costi di produzione del servizio, ivi compresi quelli di indiretta imputazione e quelli generali: quali ammortamenti, costi finanziari della raccolta e del servizio al debito, costi generali di governance, nonché per l’appunto i costi figurativi di remunerazione del capitale investito”;
– la disciplina delle relazioni finanziarie tra ente pubblico e società partecipate, come emergente dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, incentrata sul criterio dell’investitore in regime di mercato che persegue l’obiettivo della massima redditività dei propri investimenti;
– gli effetti del finanziamento pubblico delle infrastrutture sulle imprese ferroviarie, suscettibili di consentire al gestore di un’infrastruttura, beneficiario di aiuti di Stato o di risorse statali, di concedere un vantaggio agli utenti (qualora si tratti di imprese), salvo che le condizioni di utilizzo soddisfino il criterio dell’operatore in un’economia di mercato, ossia che l’infrastruttura sia messa a disposizione degli utenti a condizioni di mercato; le quali, in assenza di gestione affidata mediante gara, impongono la conclusione tra il gestore dell’infrastruttura e singoli utenti di accordi commerciali che consentano di coprire tutti i costi derivanti dagli accordi stessi, compreso un ragionevole margine di profitto sulla base di solide prospettive a medio termine.
La ratio decidendi sottesa alla sentenza revocanda, dunque, concerne la necessaria definizione in sede amministrativa di criteri di ammissibilità delle voci di costo, tali da permettere l’integrale copertura, altresì, dei costi di remunerazione del capitale investito, anche nella componente concernente il capitale di rischio raccolto tra gli investitori.
È significativo, al riguardo, che nel rafforzare la tesi sostenuta nella sentenza revocanda – funzionale alla riconosciuta fondatezza della “pretesa della società appellante al recupero, per l’anno 2015, delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo in Italia della rete “AV/AC” – il giudice di appello richiami la funzione del sistema tariffario operante per i servizi economici assunti dalla pubblica amministrazione in regime di riserva legale ovvero attribuiti in concessione: assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione, quale che sia la metodologia concretamente applicata, tale, dunque, da imporre “l’integrale copertura dei costi di produzione del servizio, ivi compresi quelli di indiretta imputazione e quelli generali: quali ammortamenti, costi finanziari della raccolta e del servizio al debito, costi generali di governance, nonché per l’appunto i costi figurativi di remunerazione del capitale investito”.
Ne deriva che la censura revocatoria, riferita ad un’asserita erronea percezione del contenuto precettivo della delibera impugnata in prime cure – per avere il giudice a quo inteso tale delibera come non idonea ad assicurare il rimborso della remunerazione del capitale di rischio, quando invece tale voce di costo, seppure in parte, sarebbe stata comunque assicurata dalla delibera de qua – risulta inammissibile pure perché non idonea ad influire su elementi decisivi ai fini della soluzione della controversia.
La circostanza per cui la delibera n. 70/14 cit. prevedesse comunque un parziale riconoscimento della remunerazione del capitale investito risulta irrilevante: il contenuto decisorio della sentenza odiernamente impugnata tende proprio ad affermare la necessità che l’Autorità stabilisca “criteri per la determinazione del canone di accesso finalizzati al recupero non solo dei costi diretti, ma anche dei costi totali” (punto 3.1), ivi compresi quelli concernenti la remunerazione del capitale investito; in maniera da assicurare “la pretesa della società appellante al recupero, per l’anno 2015, delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo in Italia della rete “AV/AC”” (punto 3), che come osservato tendeva proprio ad ottenere una copertura non parziale dei costi correlati alla remunerazione del capitale investivo; con conseguente necessità di una loro considerazione integrale.
Inammissibile risulta pure la considerazione per cui il valore di tale voce di costo ammessa dalla delibera n. 70/14 per l’anno 2015 non sarebbe stato comunque non congruo (perché in linea con gli obblighi normativi previgenti – cfr. pag. 13 ricorso Tr.), facendosi questione di deduzione concernente un punto controverso del giudizio, atteso che l’appellante contestava proprio la parziale e non adeguata considerazione della remunerazione del capitale investito; sicché la deduzione per cui tale voce di costo sarebbe stata adeguatamente riconosciuta dalla delibera de qua (corrispondendo agli obblighi previgenti) non ha ad oggetto un errore di fatto, ma denuncia inammissibilmente:
– un errore di diritto, nella parte in cui tende ad asseverare che la normativa ratione temporis applicabile alla specie non prevedeva il riconoscimento integrale della remunerazione del capitale investivo e che lo jus superveniens non poteva essere preso in esame ai fini della ricostruzione della normativa all’uopo applicabile (cfr. pag. 17 ricorso Tr., in cui si ritiene che “la piena remunerazione del capitale investito da parte del pedaggio di accesso alla rete ferroviaria non era prevista nel quadro normativo attuato dalla Delibera 70/2104 (ossia D.Lgs. 188/2003, che ha recepito la Direttiva 2001/14/CE), ma è stata introdotta solamente dal D.Lgs. 112/2015 (che ha recepito la Direttiva 2012/34/UE)”;
– un errore valutativo su un punto controverso tra le parti, nella parte in cui ravvisa la non congruità del quantum riconosciuto al gestore.
6. Con un terzo ordine di contestazioni viene denunciata l’erroneità della sentenza revocanda per avere supposto l’inesistenza di un meccanismo di recupero negli esercizi successivi delle componenti tariffarie non incluse nel pedaggio stabilito dalla delibera impugnata in prime cure, quando, invece, il canone di euro 8,2 treno/km stabilito sulla base dei criteri della delibera ART n. 70 del 2014 aveva avuto carattere intrinsecamente temporaneo, trovando applicazione solo dal mese di novembre 2014 al mese di dicembre 2015.
In data 1° gennaio 2016 era, infatti, entrato in vigore il nuovo sistema tariffario previsto dalla delibera ART n. 96 del 2015 e (anche) in tale sistema la remunerazione del capitale investito (WACC) assumeva indiscutibilmente rilievo quale componente di costo costitutiva del canone di accesso alla rete; per l’effetto, i costi di capitale asseritamente non recuperati da RF. nel corso della vigenza del canone stabilito dalla delibera 70 del 2014, vale a dire nel periodo novembre 2014 – dicembre 2015, sarebbero stati inclusi tra quelli che hanno concorso alla formazione delle nuove tariffe, entrate in vigore il 1° gennaio 2016.
I motivi di revocazione sono inammissibili:
– sia se tesi a denunciare l’omessa percezione (da parte del giudice di appello) dell’avvenuto recupero dei costi in conseguenza della sopravvenuta regolazione – con conseguente elisione del pregiudizio subito dall’appellante-; facendosi in tale caso questione di vizio concernente un punto controverso tra le parti su cui la sentenza ha pronunciato;
– sia se volti a censurare l’omessa percezione (da parte del giudice di appello) della realizzazione della pretesa di RF. per il periodo successivo al 2015, in conseguenza dell’avvenuta inclusione pro futuro dei costi reclamati dal gestore dell’infrastruttura, o comunque la possibilità di recupero del credito regolatorio mediante le delibere all’uopo da approvarsi negli anni successivi; discorrendosi in tale ipotesi di contestazioni non afferenti ad un elemento decisivo del giudizio.
6.1 Come precisato da questo Consiglio, “per errore su un “punto controverso”, come tale non rilevante ai fini in esame, si intende quello formatosi su un punto che nella sentenza impugnata è stato deciso in base all’apprezzamento delle risultanze processuali, alla loro valutazione e alla loro interpretazione da parte del Giudice” (Consiglio di Stato, sez. IV, 26 febbraio 2020, n. 1418).
Nel caso di specie, nell’ambito del giudizio di appello, il gestore dell’infrastruttura ferroviaria aveva evidenziato come la sopravvenuta delibera n. 70 del 2014 non avesse consentito il recupero dei costi non riconosciuti per il periodo novembre 2014-dicembre 2015 dalla delibera n. 70 del 2014, persistendo, dunque, il proprio interesse alla decisione del ricorso.
Il che è chiaramente sostenuto:
– sia nell’atto di appello, in cui si era rilevato che l’approvazione della delibera n. 96/2015 sopravvenuta in corso di giudizio “non ha un effetto retroattivo e, dunque, non ha consentito a RF. il pieno recupero dei costi sopportati nel periodo di vigenza della delibera n. 70/2014 (dal 6.11.2014 al 31.12.2015). Tale circostanza, dunque, non ha inciso sull’interesse al ricorso di primo grado proposto da RF. preordinato ad ottenere l’annullamento della delibera n. 70/2014 e la rideterminazione del pedaggio per il periodo di vigenza della stessa” (pag. 15 appello; cfr. anche pagg. 23 e 30 appello in cui si insiste sulla persistenza dell’interesse a ricorrere); nonché che “il pregiudizio subito a seguito dell’applicazione di un canone non sufficiente a coprire i costi di gestione dell’infrastruttura per il periodo regolatorio coperto dalla delibera n. 70/2014, che va dal 6.11.2014 al 31.12.2015, non è mai stato recuperato da RF.” (pag. 35 appello);
– sia nella memoria del 26 gennaio 2019, con cui RF., replicando alle avverse deduzioni sul punto, aveva evidenziato che: “E’ peraltro infondato l’argomento con il quale le controparti sostengono che la sentenza appellata avrebbe correttamente ritenuto “sanate” tali illegittimità da parte della successiva delibera n. 96/2015. Tale ultima delibera, infatti, non ha carattere retroattivo ed in nessuna parte prevede che RF. possa recuperare le perdite subite nel periodo di vigenza della delibera n. 70/2014. Del resto, già con nota del 6.2.2015 (prot. pres. 2015/2 del 6 febbraio 2015) – impugnata dinanzi al TAR Piemonte – l’ART ha precisato che le prescrizioni relative al pedaggio AV/AC non hanno affatto carattere temporaneo e, soprattutto, che non è previsto alcun meccanismo di recupero dei ricavi non percepiti nel periodo regolatorio successivo a causa del mancato inserimento della voce di costo relativa agli investimenti tra quelle astrattamente ammissibili ai fini del calcolo del pedaggio (doc. 17). Di conseguenza, il pregiudizio subito a seguito dell’applicazione di un canone non sufficiente a coprire i costi di gestione dell’infrastruttura per il periodo regolatorio coperto dalla delibera n. 70/2014, che va dal 6.11.2014 al 31.12.2015, non è mai stato recuperato da RF.. Prova ne sia che la stessa ART nelle proprie difese, pur richiamando l’intervento della delibera n. 96/2015, non si spinge mai ad affermare (come invece sostengono Tr. e NTV) che i minori introiti derivati dall’applicazione della delibera n. 70/2014 sarebbero stati recuperati per effetto della successiva delibera adottata da ART. Deve, dunque, essere riformata la sentenza del TAR Piemonte nella parte in cui sostiene che le violazioni dedotte da RF. sarebbero state “recuperate” dall’ART con l’attività successiva ed in particolare con la delibera n. 96/2015 che avrebbe introdotto (a far data dal 2016) un nuovo modello di pedaggio ed avrebbe consentito un pieno recupero dei costi” (pagg. 15-16).
Pronunciando su tali contestazioni, il giudice a quo ha ritenuto che la delibera n. 96 del 2015, valevole per il periodo regolatorio 2016-2021, non avesse previsto “alcuna forma di recupero per l’anno 2015” (punto 3.3), con conseguente valorizzazione di un pregiudizio economico non riparato dalla sopravvenuta regolazione.
La sentenza ha accolto la tesi dell’appellante, secondo cui la nuova regolazione non aveva disposto per il passato e, dunque, non aveva permesso di recuperare quei costi (illegittimamente) disconosciuti dalla delibera n. 70 del 2014.
Ne deriva che il recupero dei costi disconosciuti dalla delibera n. 70 del 2014 per l’anno 2015 riguarda un punto controverso sul quale la sentenza ha pronunciato, ragion per cui l’eventuale erronea decisione al riguardo assunta non sarebbe idonea ad integrare gli estremi del vizio revocatorio ex art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c., facendosi questione d’interpretazione e di valutazione del contenuto della delibera n. 96 del 2015 (correttamente percepita nel suo tenore letterale, come supra osservato), a fronte di contrapposte deduzioni di parte e ai fini della formazione del convincimento giudiziale sotteso alla decisione della controversia.
6.2 Anche considerando le censure attoree come tese a denunciare l’omessa percezione del pieno riconoscimento della remunerazione del capitale investito quale voce di costo ammessa per gli anni successivi al 2015 ai sensi della delibera n. 96 del 2015, nondimeno si sarebbe di fronte a motivi di revocazione inammissibili, in quanto riguardanti un elemento irrilevante ai fini del giudizio.
Nel giudizio di appello avrebbe potuto rilevare soltanto una regolazione sopravvenuta retroattiva favorevole all’appellante, tenuto conto che, ove la delibera sopravvenuta avesse regolato il sistema tariffario in maniera da consentire anche il recupero dei costi disconosciuti per il periodo novembre 2015-dicembre 2015, il giudice a quo avrebbe potuto dichiarare cessata la materia del contendere, attesa la piena realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso in primo grado.
Una volta esclusa tale evenienza – si ripete, statuendo su un punto controverso tra le parti e nello svolgimento di un’attività di interpretazione e di valutazione del contenuto di un atto di regolazione, non sindacabile in sede revocatoria – l’ipotetico riconoscimento dei costi de quibus per il periodo successivo al 2015 sarebbe risultato irrilevante, in quanto (al di là dell’effetto processuale legato alla predetta cessazione della materia del contendere) non avrebbe (nemmeno in astratto) potuto influire sull’illegittimità della disciplina temporanea impugnata in primo grado, che aveva comunque prodotto effetti lesivi non rimediati per il periodo novembre 2015-dicembre 2015 (se non dal supposto recupero, tuttavia ritenuto inesistente dalla sentenza revocanda interpretando la successione degli atti amministrativi di regolazione tariffaria intervenuti nella specie).
6.3 Infine, le censure sono inammissibili anche nella parte in cui valorizzano la natura temporanea della delibera n. 70/14 e la possibilità di recupero del credito regolatorio mediante futuri atti di regolazione, evidenziando che la stessa delibera n. 70/14 prevedeva l’avvio di un “procedimento per la definizione dei criteri per la determinazione del pedaggio per l’utilizzo delle infrastrutture ferroviarie” richiedente una istruttoria dedicata, come tale suscettibile di concludersi con una delibera in ipotesi idonea ad assicurare il recupero del credito regolatorio.
Trattasi di contestazioni che non disvelano alcuna errata percezione fattuale, né afferiscono ad un elemento decisivo.
Nella sentenza revocanda, infatti:
– si dà atto che la delibera n. 70 del 2014 “ha trovato applicazione dal mese di novembre 2014 al mese di dicembre 2015, ovvero sino all’adozione del nuovo sistema tariffario previsto dalla delibera n. 96 del 2015”, dimostrandosi, dunque, una corretta percezione della temporaneità della relativa regolazione;
– si precisa che la pretesa della società appellante al recupero, per l’anno 2015, delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo in Italia della rete AV/AC non trovava “alcuna preclusione nella disciplina di settore”; confermandosi la necessità che l’integrale copertura dei costi correlati alla remunerazione del capitale investito dovesse essere assicurata già dal 2015;
– si rileva che la stessa Autorità di regolazione, con la delibera n. 96 del 2015, valevole per il periodo regolatorio 2016-2021, aveva sì incluso tra le voci tariffarie la remunerazione del capitale investito nell’infrastruttura AV/AC come componente necessaria del canone di pedaggio, ma “senza prevedere alcuna forma di recupero per l’anno 2015”, con conseguente persistenza di un danno in capo all’appellante; il che conferma come nella sentenza di appello si fosse pure tenuto conto della circostanza che il credito regolatorio potesse essere recuperato successivamente, pervenendo, tuttavia, ad una valutazione negativa.
Il giudice a quo, dunque, ha dato atto che la regolazione era effettivamente temporanea e che il periodo successivo al 2015 era oggetto di diverso atto regolatorio, non incorrendo in alcuna falsa percezione degli effetti temporali delle delibere de quibus; nonché ha ritenuto che la misura regolatoria, sebbene limitata nel tempo, fosse comunque idonea a produrre una lesione immediata e diretta della sfera giuridica di RF., non rimediata dalla sopravvenuta delibera; all’esito di una valutazione (come supra osservato) insindacabile nella presente sede, perché non inficiata da un’errata percezione materiale di atti o documenti e, comunque, afferente ad un punto controverso tra le parti.
Non rilevava, dunque, la possibilità di un futuro recupero in successivi periodi regolatori, ma il mancato integrale riconoscimento, all’attualità, dei costi totali per l’anno 2015, ivi inclusi quelli di remunerazione del capitale investito.
I ricorrenti, dunque, non censurano -anche in tale caso- un errore di fatto, ma contestano inammissibilmente un supposto errore di diritto, incentrato su una tesi difensiva di parte, in forza della quale un atto di regolazione avente effetto limitato nel tempo non avrebbe potuto riconoscere al gestore dell’infrastruttura un credito da recuperare nei periodi successivi, tenuto conto che una tale possibilità avrebbe dovuto essere prevista ed assicurata dai successiti atti di regolazione.
Trattasi, in particolare, di una tesi giuridica (e non di un errore di fatto) sconfessata dal giudice a quo, secondo cui – in accoglimento del motivo di appello all’uopo proposto dal gestore dell’infrastruttura – già per il periodo di regolazione in esame (2015) doveva essere assicurata la pretesa della società appellante al recupero delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo in Italia della rete “AV/AC” (punto 3 motivazione in diritto); il che non risultava avvenuto nella specie, tenuto conto che, da un lato, la delibera n. 70/14 non aveva provveduto all’integrale copertura dei “costi totali”, comprensivi della remunerazione integrale del capitale investito, dall’altro, tale rimborso, per l’anno 2015, non era stato assicurato neanche in via retroattiva dalla successiva delibera n. 96 del 2015 (punto 3.3 motivazione in diritto).
Tali valutazioni, come osservato, non risultano inficiati da una scorretta percezione del tenore letterale delle delibere nn. 70/14 e 96/15, bensì sono ancorate ad una valutazione (insindacabile in sede revocatoria) degli effetti prodotti da tali atti di regolazione, avendo, peraltro, ad oggetto questioni controverse tra le parti del giudizio di appello; con conseguente mancata emersione di errori revocatori.
7. Con altro connesso gruppo di motivi di impugnazione si contesta il capo di sentenza con cui il giudice di appello ha statuito sul mancato recupero del “credito regolatorio”, quando, invece, RF. aveva pacificamente riscosso, per il 2015, sulla base dei criteri dettati dalla delibera n. 70 del 2014, un pedaggio comunque inclusivo della componente di costo riferita alla remunerazione del capitale investito; tenuto conto, altresì, che con delibera 96/2015 l’Autorità aveva, comunque, dato luogo ad una radicale riforma del metodo di determinazione del pedaggio, facendo venire meno i presupposti stessi su cui erano state formulate le originarie ipotesi, e in forza dei quali era stato fissato il pedaggio nel periodo novembre 2014 – dicembre 2015.
Al riguardo, con riferimento alla rilevanza assunta dalla delibera n. 96 del 2015 e, in specie, sulla sua idoneità ad includere i costi disconosciuti con delibera n. 70 del 2014, si rinvia alle considerazioni svolte nel precedente paragrafo. Una volta rilevato che la delibera n. 96 del 2015 non aveva assicurato a RF. alcun recupero per l’anno 2015, la stessa delibera è stata, infatti, reputata irrilevante ai fini del giudizio, non permettendo di rimediare al pregiudizio subito dal gestore dell’infrastruttura; potendo, al più, come avvenuto nella sentenza revocanda, essere richiamata per confermare ulteriormente l’illegittimità della delibera n. 970 del 2014, che aveva differentemente regolato la materia.
In ordine all’idoneità di un pedaggio corrispondente a 8,2 euro treno/Km a includere la remunerazione del capitale investito già per l’anno 2015, tenuto conto del tasso di remunerazione pari al 5,5%, le censure de quibus non hanno ad oggetto un errore di fatto, bensì concernono l’interpretazione che il giudice a quo ha fornito delle delibere nn. 70/14 e 96/15 e della documentazione acquisita al giudizio, a soluzione, peraltro, di un punto -anche in tale caso- controverso tra le parti, con valorizzazione di un elemento (avvenuto parziale riconoscimento della voce di costo de qua per l’anno 2015) non decisivo.
7.1 In particolare, in primo luogo, nel richiamare le coordinate ermeneutiche tracciate in materia di revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c., l’errore di fatto per essere idoneo a fondare la domanda di revocazione deve derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; l’errore deve, dunque, apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.
Nel caso di specie non si censura un errore nella percezione del contenuto letterale della documentazione in atti (cfr. doc. 11 e 12), ma si contesta una sua errata valutazione, per non avere il giudice di appello ritenuto che la percentuale di redditività del 5,5% fosse comprensiva della remunerazione del capitale investito (il cui riconoscimento, peraltro, avrebbe dovuto essere valutato avuto riguardo all’intero arco della concessione); il che è confermato, altresì, dalla condotta processuale di Tr., che ha avvertito la necessità di produrre una consulenza tecnica per dimostrare l’erroneità della sentenza revocanda; quando, invece, la rilevazione di un errore di fatto non richiede lo svolgimento di approfondimenti tecnici, quali sono quelli condotti con la relazione allegata al ricorso per revocazione di Tr., ma l’indicazione del passo letterale del documento erroneamente percepito, deputato a fornire una rappresentazione ictu oculi divergente da quella emergente dalla sentenza.
Nella relazione tecnica de qua, peraltro, non soltanto si provvede ad un riesame critico delle risultanze documentali, ma si formulano conclusioni anche in via presuntiva, desumibili dalle iniziative processuali del gestore dell’infrastruttura (“La quota residuale del costo del capitale proprio, che RF. ha deciso di non considerare nel pedaggio per il periodo dal 6 novembre 2014 al 31 dicembre 2015, sarà stata inclusa nel pedaggio, che il gestore dell’infrastruttura ha calcolato e applicato dall’1 gennaio 2016. Ciò è desumibile dal fatto che RF., pur avendo in un primo momento impugnato la Delibera ART 96/2015 che rideterminava le modalità con cui doveva calcolare il pedaggio a decorrere dal gennaio 2016 – come previsto dalla Delibera ART 70/2014 – ha successivamente dichiarato di non avere più interesse alla decisione relativa a tale impugnazione. Il TAR ha pertanto dichiarato improcedibile il ricorso di RF. contro la Delibera ART 96/2015”), a dimostrazione di come non si discorra di un errore di fatto, ma di una nuova valutazione delle risultanze documentali, per rassegnare conclusioni sostitutive di quelle fondanti la decisione impugnata, anche sulla base di elementi presuntivi che non riguardano in alcun modo l’esistenza di un errore di fatto.
7.2 Inoltre, la circostanza per cui nel tasso del 5,5% sarebbe stata garantita anche una parziale copertura dei costi correlati al capitale di rischio, come supra osservato nella disamina del contenuto precettivo della sentenza revocanda, non è censurabile in sede revocatoria anche perché riguardante un elemento non dirimente.
Il giudice a quo ha rilevato l’illegittima mancata copertura integrale dei costi totali, ivi compresi quelli riferiti alla remunerazione del capitale investito, sicché una loro copertura soltanto parziale non avrebbe potuto comunque ritenersi legittima.
La circostanza per cui il recupero potesse avvenire nell’arco dell’intero periodo di vigenza della concessione affidata a RF., parimenti, non risultava decisiva, in quanto il giudice di appello ha ritenuto, come supra osservato, necessaria la copertura dei costi totali, ivi compresa l’integrale remunerazione del capitale investito già nel 2015, per effetto della delibera n. 70/14; il che non era pacifico fosse avvenuto nella specie, essendo contestato da RF. e costituendo, dunque, un punto controverso su cui la sentenza ha pronunciato.
7.3 Infine, nel ritenere che il corretto riconoscimento della remunerazione del capitale investito necessitasse di un credito regolatorio nella specie non riconosciuto, non essendo sufficiente il tasso di redditività del 5,5%, il giudice a quo ha accolto la tesi difensiva del gestore dell’infrastruttura, statuendo su un punto controverso tra le parti.
In particolare, RF., in sede di appello, aveva evidenziato come la riduzione del pedaggio al livello di 8,2 euro treno/km “sarebbe stata possibile solo: (i) come misura temporanea e (ii) con la sicura prospettiva del recupero finanziario posteriore delle differenze da parte di RF.” (pag. 33 appello); parimenti, il gestore dell’infrastruttura, replicando alle avverse contestazioni, aveva sostenuto che “Se è vero, dunque, che il modello di calcolo di RF. considerava una remunerazione del capitale investito ad un tasso pari al 5,5%, è altrettanto vero che da questo modello, se esaminato correttamente, emergeva che: (i) entrambe le simulazioni relative al periodo 2015-2018 (di cui 8,2 Euro/km rappresenta il livello di pedaggio AV proposto per il solo anno 2015) avrebbero consentito ad RF. la piena remunerazione dei costi regolatori ammissibili considerati – costi operativi, ammortamenti, remunerazione del capitale investito al 5,5% – solo nel presupposto del riconoscimento di un credito regolatorio alla data del 31/12/2018; (ii) il pedaggio AV pari a 8,2 Euro/km proposto per il 2015 non poteva essere tale da remunerare interamente i costi ammissibili dell’anno, segnatamente il costo del capitale investito, proprio perché determinato nel presupposto di un credito regolatorio. Di queste circostanze l’Autorità ha avuto piena evidenza nei documenti istruttori trasmessi da RF.. Alla luce di quanto chiarito, il riconoscimento della remunerazione del capitale investito ad un tasso del 5,5% sarebbe stato garantito al gestore solo qualora nella delibera 70/2014 fosse stato esplicitamente previsto l’aumento progressivo del pedaggio AV, nella misura proposta dalle simulazioni di RF., unitamente al riconoscimento di un credito regolatorio al 31.12.2018 da recuperare a valere sui pedaggi degli anni successivi. Il che, tuttavia, non è accaduto. Conseguentemente, la remunerazione del capitale investito per l’anno 2015, contrariamente a quanto sostenuto dall’ART in questa sede, non è stata pari al tasso del 5,5% considerato da RF. nelle sue simulazioni, bensì vi è stata solo in misura ben più ridotta” (pagg. 4-5 memoria di replica)
Nella sentenza revocanda si dà atto che “nel modello di calcolo di RF. il riconoscimento della remunerazione del capitale investito ad un tasso del 5,5% sarebbe stato garantito al gestore solo qualora fosse stato accordato un aumento progressivo del pedaggio dell’alta velocità, unitamente al riconoscimento di un credito regolatorio al 31 dicembre 2018 da recuperare a valere sui pedaggi degli anni successivi”. Tale statuizione, peraltro, è stata resa nell’ambito del punto 5.2 della motivazione in diritto, a sua volta inserito nell’ambito del paragrafo 5 dedicato all’esame dei “restanti punti controversi”.
Per l’effetto, le censure dirette a contestare la ritenuta necessità di un credito regolatorio pure a fronte di una percentuale del 5,5% inclusiva della redditività del capitale investito sono inammissibili, non facendosi questione di un fatto pacifico tra le parti, bensì di una questione componente il thema decidendum, in relazione alla quale l’appellante e gli appellati hanno sostenuto posizione divergenti, composte attraverso la sentenza revocanda. La non condivisione della soluzione accolta dal giudice di appello, secondo cui il mancato riconoscimento del credito regolatorio ostava ad una corretta valorizzazione della remunerazione del capitale investito, non può, dunque, essere denunciata nella sede odierna come errore revocatorio.
8. Né potrebbe argomentarsi diversamente, sostenendo (come dedotto nel ricorso di Tr.) che la delibera n. 70 del 2014 non solo non aveva escluso il recupero della remunerazione del WACC negli anni dal 2016 in poi, ma, al punto 6.5.2, aveva anche previsto che la ridefinizione complessiva dei criteri e delle modalità di rideterminazione del canone di accesso all’infrastruttura ferroviaria per gli anni successivi al 2015 sarebbe stata oggetto di specifico procedimento istruttorio, poi culminato con la delibera n. 96 del 2015. Non potrebbe, in particolare, ritenersi sussistente un errore revocatorio per l’omessa percezione del punto 6.5.2 della delibera n. 70 del 2014.
8.1 L’errore di fatto si configura a fronte dell’affermazione o, comunque, della supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando sia supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; l’erronea supposizione integrante gli estremi dell’errore di fatto non potrebbe, invece, essere meramente implicita, dovendo essere espressa nella motivazione, per essere immediatamente percepibile come abbaglio dei sensi in cui sia incorso il giudice procedente.
Come precisato da questo Consiglio, “l’errore di fatto revocatorio consiste in una falsa percezione della realtà processuale e cioè in una svista – obiettivamente ed immediatamente rilevabile – che abbia portato ad affermare o soltanto supporre – purché tale supposizione non sia implicita, ma sia espressa e risulti dalla motivazione, in quanto “un abbaglio dei sensi è incompatibile con l’omissione di motivazione, perché è la motivazione che rivela l’abbaglio” (cfr. Cons. St., Ad. plen., 30 luglio 1980, n. 36) – l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti di causa ovvero la inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti risulti invece positivamente accertato” (Consiglio di Stato Sez. VI, 28 settembre 2020, n. 5684)
La sentenza impugnata non è viziata da un tale errore.
Il giudice di appello non ha affermato o supposto che la delibera n. 70 del 2014 non prevedeva l’avvio di un procedimento di consultazione finalizzato alla complessiva definizione dei criteri di determinazione del pedaggio per l’utilizzo delle infrastrutture ferroviari (come previsto dal punto 6.5.2); sicché non può desumersi implicitamente un’erronea supposizione suscettibile di integrare gli estremi dell’errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c.
In ogni caso, il giudice a quo non soltanto non ha erroneamente supposto l’inesistenza di un futuro intervento regolatore da assumere nella materia controversa (preannunciato dal punto 6.5.2), ma ha anche preso espressamente in esame la delibera sopravvenuta all’uopo adottata, sia come argomento ulteriore a sostegno dell’illegittimità della delibera n. 70 del 2014, sia per negare che l’intervento regolatore sopravvenuto fosse decisivo nel caso esaminato, in quanto inidoneo a permettere alcuna forma di recupero per il 2015.
Tale ultima statuizione, peraltro, non tendeva a rilevare un vizio di legittimità di un atto non impugnato in primo grado – che, in ogni caso, avrebbe configurato un asserito error in iudicando (anziché un errore di fatto), per avere il giudice di appello pronunciato su una censura non riferibile alla delibera n. 70 del 2014, bensì alla delibera n. 96 del 2015 (con conseguente infondatezza del corrispondente motivo di impugnazione proposto da RF., non idoneo a disvelare un vizio di legittimità della delibera n. 70 del 2014) -, ma semplicemente mirava ad evidenziare come, non essendo stati recuperati i costi disconosciuti dalla delibera n. 70 del 2014 (giudizio espresso, come osservato supra, sulla base di una valutazione delle risultanze processuali immune da errori di fatto e, comunque, a definizione di un punto controverso inter partes), persistesse un pregiudizio in capo al gestore dell’infrastruttura ferroviaria procurato dalla misura regolatoria nella specie impugnata, con conseguente persistenza di interesse al relativo esame.
L’accoglimento dell’appello e l’effetto retroattivo dell’annullamento della delibera censurata sono stati espressamente giustificati proprio per rimuovere gli ostacoli frapposti alla effettiva realizzazione dell’interesse meritevole di tutela del ricorrente vittorioso (6.1 motivazione in diritto), a dimostrazione di come la pronuncia giudiziaria fosse necessaria per elidere un pregiudizio ancora persistente, nonostante la sopravvenuta delibera n. 96 del 2015.
Come supra osservato, infatti, soltanto un sopravvenuto recupero anche per l’anno 2015 dei costi correlati alla remunerazione integrale del capitale investito avrebbe permesso di dichiarare cessata la materia del contendere nel giudizio a quo; il che era stato escluso con la sentenza revocanda all’esito di una valutazione immune da errori di fatti.
8.2 La rilevanza del previsto avvio di un successivo procedimento regolatorio, in ogni caso, costituiva un punto controverso tra le parti su cui la sentenza revocanda ha statuito.
Lo stesso gestore dell’infrastruttura, sin dall’atto di appello, aveva, infatti, svalutato tale elemento, evidenziando come “All’indomani della pubblicazione della delibera 70, RF. ha dovuto però incredibilmente constatare che la scelta fatta da ART sembrava essere diversa. Al di là di un inciso, al par. 6.5.3 (doc. 14), che recita “Alla luce delle attuali condizioni di mercato e dell’esigenza di promuovere azioni di supporto allo sviluppo dell’offerta dei servizi AV/AC” e da cui forse dovrebbe trarsi un riferimento alla volontà di tutelare uno dei due concorrenti, nessun richiamo esplicito vi era né al carattere transitorio della riduzione, né alla previsione di un credito di rimborso (c.d. credito egolatorio) posteriore a favore di RF.” (pag. 33 appello). Il che dimostra come la mera previsione dell’avvio di un nuovo procedimento regolatorio non fosse stata considerata dall’appellante satisfattiva del proprio interesse sostanziale, suscettibile di realizzazione soltanto mediante l’annullamento della delibera n. 70/14 impugnata in primo grado.
Il giudice a quo, nel risolvere la controversia, ha parimenti ritenuto necessario che fosse la delibera n. 70/14 ad assicurare la pretesa della società appellante al recupero, per l’anno 2015, delle somme impiegate per la realizzazione e lo sviluppo in Italia della rete “AV/AC” (punto 3), con conseguente irrilevanza della sopravvenuta regolazione ove non tradottasi in una qualche forma di recupero già assicurata (punto 3.3).
Emerge, dunque, un punto controverso esaminato e deciso con la sentenza impugnata, ostativo alla configurazione di un errore di fatto revocatorio.
8.3 Né potrebbe sostenersi, come pure allegato da Tr., che le doglianze dell’appellante avrebbero dovuto essere svolte e coltivate da RF. contro la nuova delibera n. 96 del 2015 (evenienza nella specie non realizzatasi, per effetto della rinuncia di RF. a proseguire il relativo giudizio impugnatorio) e comunque che il pieno riconoscimento della remunerazione del capitale investito non risultava prevista nel quadro normativo attuato dalla Delibera 70/2104, senza che fosse possibile, al riguardo, argomentare diversamente sulla base di una lettura retrospettiva della normativa sopravvenuta.
Ancora una volta tali doglianze non afferiscono ad un errore di fatto, ma a pretesi errores in judicando, per avere il giudice a quo ravvisato in relazione alla delibera n. 70/14 vizi di legittimità invero afferenti ad altro atto regolatorio, sulla base di una non condivisa lettura del quadro normativo di riferimento; il che costituisce un asserito errore, anziché di fatto, di valutazione in ordine alla fondatezza delle censure decise con la sentenza revocanda.
In ogni caso, si tratta di censure non incidenti sull’elemento decisivo della controversia, che non era rappresentato dall’inadeguatezza della regolazione sopravvenuta, ma dall’illegittimità della regolazione impugnata, che per l’anno 2015 non aveva assicurato l’integrale copertura dei costi totali; a nulla rilevando quanto previsto da futuri atti regolatori improduttivi di effetti retroattivi (se non, come osservato, quale argomento interpretativo per asseverare i vizi di legittimità inficianti la delibera n. 70/14 oggetto di esame).
9. L’inammissibilità delle revocazioni osta all’esame dei motivi di censura assorbiti nel giudizio di appello e riproposti nella presente sede in via subordinata da RF., non potendosi fare luogo alla fase rescissoria del giudizio.
10. La particolarità della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti, previa loro riunione, li dichiara inammissibili.
Compensa interamente tra le parti le spese processuali del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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