L’apposizione su una data area di un vincolo di tutela paesaggistica

Consiglio di Stato, Sentenza|4 febbraio 2021| n. 1040.

L’apposizione su una data area di un vincolo di tutela paesaggistica è volta ad impedire o subordinare al previo controllo amministrativo qualsiasi intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, suscettibile di essere integrato non soltanto dalle nuove costruzioni su terreno non edificato, ma anche dalle modifiche apportate agli edifici preesistenti, comunque idonee ad alterare lo stato dei luoghi e, dunque, ad arrecare pregiudizio al bene tutelato mediante l’apposizione del vincolo paesaggistico.

Sentenza|4 febbraio 2021| n. 1040

Data udienza 28 gennaio 2021

Integrale

Tag – parola chiave: Domanda di condono – Silenzio assenso dell’Amministrazione – Diniego – Domanda di accertamento – Presupposti per il silenzio assenso – Principio di affidamento ad un provvedimento favorevole – Legittima aspettativa all’accoglimento dell’istanza – Obbligo motivazionale rafforzato – Individuazione dell’interesse pubblico e attuale all’adozione di un provvedimento diverso – Vincolo paesaggistico – Valutazione tecnica

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5784 del 2017, proposto da
Gi. Pe., rappresentato e difeso dall’avvocato Ar. Del Ve., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale (…);
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Ca. e Cr. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Roma Capitale, Municipio II, U.O.T., Roma Capitale, Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica, Direzione e Attuazione degli Strumenti Urbanistici, U.O. Condono Edilizio non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 02034/2017, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell’udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2021 svoltasi ai sensi dell’art. 25 Decreto Legge 28 ottobre 2020 n. 137 conv. in L. 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio il Sig. Gi. Pe., proprietario di un’unità immobiliare ad uso abitativo sita in Roma, Viale (omissis), ha impugnato la sentenza n. 2034 del 2017 del Tar Lazio Roma, nella parte in cui ha rigettato la domanda di accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono depositata, ai sensi della L. n. 326 del 2003 e della L. R. n. 12 del 2004, dal proprio dante causa in data 22.7.2004.
In particolare, secondo quanto dedotto in appello:
– il dante causa dell’odierno appellante in data 25.11.1985 ha presentato una prima domanda di condono relativa ad un ampliamento realizzato nell’immobile sito in Roma Viale (omissis), distinto al N.C.E.U. al Foglio (omissis), con cui è stata chiesta la sanatoria di opere abusive, tradottesi nell’ampliamento della superficie utile dell’immobile, mediante la parziale chiusura del terrazzo a livello;
– l’Amministrazione richiesta ha accolto la domanda di sanatoria con provvedimento del 18.12.1998;
– il dante causa dell’odierno appellante in data 22.7.2004 ha presentato una seconda domanda di condono, per un ulteriore ampliamento della superficie abitativa di mq 10,60, ottenuto mediante chiusura parziale del medesimo terrazzo a livello;
– l’odierno appellante, subentrato nella titolarità dell’immobile in data 27.12.2006, a seguito di DIA del 31.7.2007 ha realizzato lavori di manutenzione straordinaria nell’immobile, affinché la parte dell’immobile oggetto del primo condono e del secondo condono costituissero un unicum;
– l’odierno appellante ha presentato una nota di sollecito in data 2.4.2012 ai fini della definizione formale del procedimento;
– l’Amministrazione richiesta ha notificato in data 6.11.2013 all’odierno appellante il diniego di condono n. 486 del 2.8.2013, fondato sul presupposto dell’esistenza nell’area dei seguenti vincoli: “”beni paesagg. ex art. 134 co 1 lett. a) del Codice G.R. 10591 del 05.12.1986, P.T.P. 15/8 Valle del Tevere TLa/10”;
-l’odierno appellante ha presentato istanza di annullamento in autotutela del diniego di condono;
– l’Amministrazione ha assunto in data 29.1.2015 la determinazione dirigenziale n. 3061 del 18.12.2014 per la sospensione di ogni ulteriore attività edilizia;
– il Sig. Pe. ha impugnato dinnanzi al Tar Lazio l’ordine di sospensione;
– in pendenza di giudizio l’Amministrazione ha assunto la determinazione dirigenziale n. 833 del 45.5.2015, con cui ha ingiunto il pagamento della sanzione pecuniaria amministrativa e la demolizione con ripristino dei luoghi in conseguenza della realizzazione di interventi abusivi;
– il ricorrente in primo grado ha proposto motivi aggiunti avverso la determinazione n. 833 del 2015;
– il Tar ha rigettato la domanda di accertamento della formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono, ha dichiarato improcedibili le censure avverso l’ordine di sospensione, nonché ha accolto le censure indirizzate contro la determinazione dirigenziale n. 833 del 2015.
2. In particolare, alla stregua di quanto emergente dalla sentenza di prime cure, il Tar ha rilevato che:
– il ricorso originario risultava improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse quanto alla domanda volta a ottenere l’annullamento della Determinazione Dirigenziale n. 3061 del 18.12.2014, recante l’ordine di sospensione dell’ulteriore attività edilizia, avendo lo stesso provvedimento esaurito la propria efficacia lesiva con il decorso del termine di efficacia di quarantacinque giorni previsto dalla disciplina nazionale (art. 27, comma 3 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) e regionale (art. 14, comma 3 della L.R. 11 agosto 2008, n. 15);
– la domanda di accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio assenso sull’istanza avente ad oggetto il secondo condono edilizio richiesto nel 2004 doveva ritenersi infondata, in quanto: a) su detta istanza l’amministrazione si era già pronunciata negativamente con il provvedimento di diniego del richiesto condono edilizio, il quale non era stato ritualmente e tempestivamente impugnato; b) trattavasi di opere realizzate in zona soggetta a vincolo paesaggistico – riguardando il vincolo la zona anche edificata e non semplicemente i terreni o le aree libere da edificazione – aventi ad oggetto un ampliamento di circa 10 mq idoneo ad alterare la sagoma dell’edificio e comunque lo stato dei luoghi, essendo anche obiettivamente e potenzialmente percepibile, secondo la comune esperienza della situazione romana, da punti di vista elevati circostanti; c) detto ampliamento costituiva un intervento assolutamente non condonabile in area paesaggisticamente vincolata, alla stregua del dominante orientamento giurisprudenziale per il quale la disciplina del condono 2003 è applicabile quando si tratti opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del d. l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), senza quindi aumento di superficie o di volume;
– i motivi aggiunti proposti avverso la D.D. n. 833 del 5 maggio 2015 risultavano fondati, nella parte in cui: a) contestavano l’incerta determinazione e motivazione circa lo stesso contenuto del provvedimento demolitorio in relazione ai presupposti di fatto, ossia alle opere e ai lavori svoltisi in loco in differenti epoche, in parte condonati e comunque assoggettati a diversi regimi giuridico-amministrativi; b) denunciavano l’illegittimità della sanzione pecuniaria irrogata, atteso che la misura della sanzione applicata da Roma Capitale – pari a 15.000 euro – sulla base della legge regionale sopravvenuta eccedeva la misura stabilita dalla disciplina statale che era da ritenersi vigente in precedenza e che non superava la somma di 5164 Euro; nonché c) censuravano l’applicazione cumulativa di sanzioni da ritenersi tra loro alternative.
3. Il ricorrente in primo grado ha proposto appello avverso la sentenza pronunciata dal Tar, limitatamente alle statuizioni con cui è stata rigettata la domanda di accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono presentata dal proprio dante causa.
4. L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio in resistenza all’appello.
5. L’appellante ha ulteriormente argomentato le proprie conclusioni mediante il deposito di memoria conclusionale in data 24 dicembre 2020.
6. Roma Capitale ha depositato memoria difensiva in data 22 gennaio 2021.
7. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 28 gennaio 2021.

DIRITTO

1. Preliminarmente, si rileva che la memoria difensiva depositata in data 22 gennaio 2021 da Roma Capitale deve ritenersi tardiva, non essendo stati rispettati i termini perentori di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a.
Tale memoria, in applicazione del principio di conservazione dei valori giuridici, può essere ritenuta utile come istanza di passaggio della causa in decisione al fine della fictio iuris della presenza del difensore ai sensi dell’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 conv. dalla L. n. 70 del 2020 e dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020 conv. dalla L. n. 176 del 2020; tale atto non risulta, invece, esaminabile nel suo contenuto argomentativo come note di udienza, sia perché è la stessa parte processuale a denominare l’atto quale “memoria”, sia perché trattasi del primo atto con cui la parte appellata ha compiutamente svolto le proprie difese in controdeduzione ai motivi di appello.
Pertanto, si è in presenza di un atto la cui funzione tipica non è stata quella, prevista dall’art. 4 D.L. n. 28/2020 cit. per le note di udienza, di sostituire la discussione orale mediante l’illustrazione dei principali temi di indagine già sviluppati nei precedenti scritti difensivi, alla stregua, dunque, di “ultimo presidio del diritto di difesa” della parte costituita che si aggiunge all’atto introduttivo e alle precedenti memorie (Consiglio di Giustizia Amministrativa, 15 gennaio 2021, n. 36); bensì è stata quella di ricostruire puntualmente i fatti di causa e di controdedurre ai singoli motivi di impugnazione; il che costituisce il proprium della memoria conclusionale ex art. 73, comma 1, c.p.a., da depositare entro trenta giorni liberi prima della data dell’udienza di discussione.
Una diversa interpretazione, volta ad ammettere lo svolgimento di puntuali deduzioni in fatto e in diritto in controdeduzione all’avverso appello per la prima volta nell’atto depositato ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.l. n. 28 del 2020 cit., determinerebbe una violazione dei diritti di difesa della controparte, non posta in condizione di usufruire del termine di legge (dieci giorni, salva l’applicabilità di riti speciali) per l’esame delle avverse deduzioni e per la predisposizione delle eventuali repliche; attività, con evidenza, insuscettibili di essere svolte a fronte di note depositate in prossimità (fino alle ore 12:00 del giorno antecedente a quello dell’udienza) dell’udienza di discussione.
2. Ciò premesso, può passarsi all’esame dei motivi di impugnazione, prescindendo dai rilievi svolti da Roma Capitale nella memoria tardivamente depositata in grado di appello.
L’appello consta di due motivi di impugnazione esaminabili congiuntamente per ragioni di connessione oggettiva, facendosi questione di censure tese a denunciare l’erroneità della sentenza di prime cure, nella parte in cui ha negato la ricorrenza dei presupposti per accertare l’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono presentata dal dante causa dell’appellante in data 22.7.2004.
In particolare, secondo la prospettazione del Sig. Pe.:
– nella specie risultava decorso il termine di 24 mesi dalla presentazione dell’istanza in assenza di un provvedimento negativo assunto dall’Amministrazione, a fronte di una domanda corredata da una documentazione completa, di un’opera abusiva completata entro il 31.3.2003, avente ad oggetto un ampliamento del manufatto di soli 32 metri cubi e di 10,60 mq; con conseguente integrazione dei presupposti per la formazione del silenzio assenso;
– l’immobile non sarebbe soggetto ad alcun vincolo paesaggistico, da intendersi riferito ad una superficie circoscritta di terreno e non operante per opere edilizie realizzate al nono piano di un edificio preesistente;
– in ogni caso, il vincolo imposto con deliberazione della giunta regionale n. 10591 del 5.12.1989 opererebbe per le opere che possono modificare l’aspetto esteriore della località stessa, mentre nella specie alcuna modifica all’aspetto esteriore risulterebbe avvenuta e, comunque, non si farebbe questione di modifica percepibile dall’esterno, riguardando soltanto l’interno del terrazzo di proprietà dell’appellante e afferendo, peraltro, ad una zona pesantemente urbanizzata; anche la modifica del corpo di fabbrica, ove esistente, non sarebbe percepibile;
– il che sarebbe affermato dalla nota del Ministero dei Beni culturali del 13 settembre 2010, n. 16721, concernente l’insussistenza di illeciti a fronte di opere non oggettivamente percepibili; dall’ordine di servizio di Roma Capitale n. 984 del 16.4.2013, che negherebbe la sussistenza di un illecito paesaggistico per interventi abusivi edilizi non visibili e che escluderebbe la necessità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 D.Lgs. 42/04, per la creazione di superfici utili o di volumi all’interno della sagoma dell’edificio preesistente legittimamente realizzato, nella misura inferiore al 1% della superficie utile preesistente, in quanto opere di minima entità non recanti pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione, perché oggettivamente non percepibili; nonché dal DPR n. 31 del 2017;
– in subordine, non potrebbe comunque essere richiesto il parere di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 32 co. 43, L. 326/2003, facendosi questione di opere non eccedenti il 2% delle misure prescrittive;
– la fondatezza delle argomentazioni svolte sarebbe confermata dalla pronuncia di questo Consiglio n. 788 del 2017;
– la sentenza di prime cure avrebbe omesso di pronunciare sulla censura incentrata sulla violazione del principio di affidamento ad un provvedimento favorevole, avendo l’appellante maturato una legittima aspettativa all’accoglimento dell’istanza in ragione del lungo tempo (circa 11 anni) trascorso, che avrebbe richiesto un obbligo motivazionale rafforzato circa l’individuazione di un interesse pubblico e attuale all’adozione di un provvedimento diverso ed ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità ;
– il precedente provvedimento di diniego non tempestivamente impugnato doveva ritenersi nullo.
L’appellante ha chiesto, altresì, l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio per fare accertare che “che l’opera eseguita dalla sig.ra Lidia Togni, dante causa del sig. Pe. [opera oggetto della domanda di condono prot. 528748 del 22.07.2004 per cui è causa, ossia l’ampliamento di 10,60 metri quadri] non è visibile dal piano strada, è stata realizzata in un luogo che non intralcia e non impedisce vedute e/o panorami poiché posta all’interno del terrazzo di proprietà situato al nono ed ultimo piano del palazzo e non altera lo stato dei luoghi in quanto non percepibile neanche dai luoghi più alti della città, e – in ogni caso – non pregiudica gli interessi tutelati dal vincolo (in ipotesi) gravante su Viale Tiziano n. 108 in Roma [quartiere Flaminio, fortemente urbanizzato] come da Deliberazione della Giunta Regionale n. 10591 del 5 dicembre 1989, fatto salvo ogni ulteriore accertamento ritenuto utile ai fini della decisione” (pag. 13 appello; cfr. anche memoria conclusionale).
2. I motivi di appello sono infondati.
3. Preliminarmente, deve rigettarsi l’istanza istruttoria, in quanto tendente a sollecitare un inammissibile sindacato giudiziale sostitutivo di valutazioni riservate all’Amministrazione.
In particolare, avuto riguardo all’intensità del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche delle Amministrazioni preposte alla tutela di vincoli paesaggistici, si è osservato che “la Soprintendenza dispone di un’ampia discrezionalità tecnico – specialistica nel dare i pareri di compatibilità ed il potere di valutazione tecnica esercitato è sindacabile in sede giurisdizionale soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta ovvero errore di fatto conclamato (cfr. Cons. St., sez. VI, 28.12.2015, n. 5844; Cons. St., sez. VI, 28.10.2015, n. 4925; Cons. St., sez. VI, 04.06.2015, n. 2751)” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 febbraio 2019, n. 1102).
Ne deriva l’inammissibilità di censure afferenti al merito tecnico, non sindacabile in sede giurisdizionale, potendo questo Giudice vagliare soltanto la ragionevolezza e la logicità della motivazione, senza sostituirsi all’Amministrazione nello svolgimento di valutazioni alla stessa riservate.
Chiedendo l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio che valuti la compatibilità delle opere abusive con le esigenze di tutela sottese all’apposizione del vincolo paesaggistico, l’appellante tende a sollecitare un inammissibile esercizio in sede giurisdizionale di valutazioni amministrative da riservare alla sede sostanziale; ragion per cui la relativa istanza non risulta meritevole di favorevole apprezzamento.
4. La sentenza di prime cure risulta motivata su tre autonome rationes decidendi, ciascuna in grado di sorreggere il rigetto della domanda di accertamento proposta in prime cure, riferita all’avvenuta formazione del silenzio assenso sulla domanda di condono per cui è causa.
5. In primo luogo, il Tar ha rilevato che l’odierno appellante, benché avesse ricevuto un provvedimento di diniego di condono, non aveva provveduto alla sua tempestiva impugnazione.
Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio l’appellante ritiene che il provvedimento fosse nullo e, comunque, non ostativo alla formazione del silenzio assenso.
L’assunto è infondato.
Anche nelle ipotesi in cui possa considerarsi operante il silenzio assenso quale modalità di formazione per silentium del titolo provvedimentale (circostanza, come si osserverà infra, comunque, non ricorrente nella specie), il provvedimento tardivamente assunto dall’Amministrazione, una volta decorso il termine prescritto per l’adozione della decisione espressa, può essere considerato annullabile ove non ricorrono i presupposti dell’autotutela decisoria e la determinazione assunta non sia preceduta dal rispetto delle garanzie procedimentali prescritte per gli atti di riesame; il medesimo atto non può, invece, essere ritenuto nullo, non essendo integrata alcuna delle fattispecie di cui all’art. 21 septies L. n. 241 del 1990.
Premessa l’inconferenza delle ipotesi di nullità testuale e di violazione o elusione del giudicato, non sussistendo in materia alcuna norma che preveda espressamente la nullità del diniego di condono una volta decorso il termine per l’adozione del provvedimento espresso, né riscontrandosi nella specie alcun giudicato favorevole al privato in ipotesi violato od eluso dall’Amministrazione, come precisato dalla Sezione (20 marzo 2018, n. 1795), deve escludersi che l’atto (asseritamente) assunto in ritardo, una volta decorso il termine per la formazione del silenzio assenso, sia privo di un suo elemento essenziale ovvero sia assunto in difetto assoluto di attribuzione.
Difatti, quanto alla carenza degli elementi essenziali, non potrebbe predicarsi la mancanza di un oggetto su cui provvedere, atteso che la domanda del privato, sia pure evasa (ipoteticamente) in via tacita, comunque costituisce atto del procedimento, appartenente alla fase dell’iniziativa, onde non può predicarsene l’inesistenza per avvenuto assorbimento da parte della decisione finale.
In quanto atto di impulso necessario in un procedimento ad istanza di parte privata, esso conserva comunque una sua autonomia rispetto al silenzio significativo ad esito positivo (riferibile al soggetto pubblico decidente) e, dunque, il suo accoglimento non ne fa venir meno l’esistenza, costituendo esso il presupposto per la determinazione finale dell’amministrazione.
Parimenti, non può configurarsi una nullità del diniego sopravvenuto per carenza di potere in capo alla pubblica amministrazione.
Invero, ai sensi dell’articolo 21 septies della legge n. 241/1990, è nullo il provvedimento che è viziato da “difetto assoluto di attribuzione”, configurandosi tale fattispecie in ipotesi in cui l’ente pubblico sia in assoluto privo del potere di provvedere in quella determinata materia (mancando una norma attributiva del relativo potere in capo all’ente procedente).
Orbene, tale evenienza non si verifica nel caso in esame, “configurandosi una carenza di potere in concreto (illegittimità ) e non anche una carenza di potere in astratto (nullità ), atteso che il potere di provvedere sulle istanze di condono edilizio appartiene al Comune e che l’adozione di un provvedimento espresso di diniego dopo la formazione del titolo abilitativo per silentium configura una violazione dei limiti legali all’esercizio di tale potere, ma non anche un difetto di attribuzione; circostanza questa confermata dalla pacifica possibilità per l’amministrazione di esercizio dell’autotutela, la quale, come è noto, costituisce, sia pur sub specie di contrarius actus, espressione del medesimo potere esercitato con l’adozione del provvedimento oggetto di ritiro” (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 marzo 2018, n. 1795).
Le considerazioni sopra svolte evidenziano, dunque, che il diniego di condono opposto da Roma Capitale con determinazione n. 486 del 2.8.2013, diversamente da quanto censurato dall’appellante, non configura un atto nullo – che, comunque, avrebbe dovuto essere contestato in via di azione entro il termine decadenziale di centottanta giorni ex art. 31, comma 4, c.p.a., nella specie spirato -, bensì annullabile, come tale produttivo di effetti giuridici suscettibili di consolidarsi una volta decorso il termine di impugnazione prescritto dall’art. 29 c.p.a..
Di conseguenza, la mancata impugnazione del diniego di condono del 2013 nel termine di sessanta giorni dalla sua notificazione (avvenuta in data 6.11.2013, come ammesso in appello) ha reso irretrattabile in giudizio l’assetto di interessi ivi divisato, che non potrebbe, dunque, essere contestato mediante la domanda di accertamento proposta nella presente sede processuale.
Come correttamente ritenuto dal Tar, il Sig. Pe., a fronte di un diniego di condono espressamente assunto dall’Amministrazione e non contestato nei termini, non può chiedere l’accertamento del silenzio assenso, in ipotesi formatosi sulla domanda di sanatoria presentata al Comune dal proprio dante causa.
Il titolo tacito, pure ove formatosi, risulterebbe comunque sostituito dalla decisione espressa sopravvenuta, costituente l’unico atto rilevante ai fini della regolazione del rapporto sostanziale per cui è causa; ragion per cui, assunta la determinazione espressa, non sussisterebbe alcun titolo abilitativo tacito suscettibile di positivo accertamento.
6. Sebbene le considerazioni supra svolte siano determinanti ai fini del rigetto dell’appello, negandosi in radice la presenza di un titolo tacito, una volta sopravvenuta una decisione amministrativa espressa sulla medesima istanza di parte, non contestata tempestivamente in giudizio, per mera completezza di analisi, si osserva che anche le ulteriori censure svolte dall’appellante non sono meritevoli di favorevole apprezzamento.
In primo luogo, l’apposizione su una data area di un vincolo di tutela paesaggistica è volta ad impedire o subordinare al previo controllo amministrativo qualsiasi intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, suscettibile di essere integrato non soltanto dalle nuove costruzioni su terreno non edificato, ma anche dalle modifiche apportate agli edifici preesistenti, comunque idonee ad alterare lo stato dei luoghi e, dunque, ad arrecare pregiudizio al bene tutelato mediante l’apposizione del vincolo paesaggistico.
Come precisato da questo Consiglio, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio, poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (Cons. Stato Sez. II, Sent., 12 febbraio 2020, n. 1090).
Per l’effetto, l’intervento per cui è causa, tradottosi nell’ampliamento dell’unità immobiliare di proprietà mediante la parziale chiusura della terrazza di pertinenza è certamente intervento idoneo ad incidere sullo stato dei luoghi, suscettibile di pregiudicare le esigenze sottese all’apposizione del vincolo paesaggistico; da ritenere, per l’effetto, operante anche in relazione alle opere edilizie realizzate dall’appellante al nono piano di un edificio condominiale.
Non assumono rilevanza ai fini dell’odierno giudizio gli atti amministrativi richiamati nel ricorso in appello: nota del Ministero dei Beni culturali del 13 settembre 2010, n. 16721 e ordine di servizio di Roma Capitale n. 984 del 16.4.2013).
Pure prescindendo dalla valenza interpretativa di tali atti, insuscettibili di derogare o modificare la disciplina primaria applicabile in materia, sia la nota ministeriale che l’ordine di servizio invocati dall’appellante argomentano sulla base del presupposto della non percepibilità della modifica esteriore del bene sottoposto al vincolo di tutela.
Nella specie, invece, alla stregua di quanto emergente dalla stesse riproduzioni fotografiche sub all. 4 ai motivi aggiunti in primo grado, si fa questione di un intervento edilizio abusivo idoneo ad incidere sull’aspetto esteriore dell’edificio, alterandone la sagoma; per effetto della chiusura parziale del terrazzo di proprietà, si viene a realizzare un nuovo locale autonomamente utilizzabile, che si aggrega ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo non soltanto in termini di volume e superficie, ma anche in termini di sagoma; intesa come conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti (Consiglio di Stato Sez. II, 04 maggio 2020, n. 2842).
Il che esclude, altresì, la possibilità di invocare il margine di tolleranza di cui all’art. 32 co. 43, d.l. n. 269/03 conv. dalla l. n. 326/2003, facendosi questione non soltanto di incremento della volumetria e delle superfici, ma anche di modifica sagoma dell’edificio, per la quale non opera il limite di tolleranza in parola.
In ogni caso, come statuito da questo Consiglio, “la disposizione di cui al primo comma dell’art. 32 surrichiamato, si fonda su un concetto (quello di tolleranza di cantiere) che sopravvive nella vigente legislazione: ma la percentuale su cui misurare lo scostamento o, se si vuole, la abusività dell’intervento, va posta in relazione con la porzione di immobile cui esso accede, e non con la superficie dell’intero palazzo” (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2018, n. 00405).
Nel caso di specie non sarebbe, comunque, provato che, in relazione alla porzione di immobile cui accede l’ampliamento abusivo nella specie realizzato, lo scostamento rispetto alle misure prescritte sia stato contenuto entro il margine del 2%, sebbene si trattasse di elemento fattuale, rientrante nella disponibilità dell’appellante, posto a fondamento di una censura articolata in sede impugnatoria, come tale da provare a cura del ricorrente. Peraltro, nel caso di specie, si fa questione di un ampliamento di 10,60 mq (pag. 3 appello), in relazione ad una porzione di immobile, connotata da una superficie originaria di mq 68,00 (cfr. dichiarazione resa ai sensi dell’art. 4 L. n. 15/1968 della Sig.ra Lidia Togni acquisita al protocollo comunale al n. 109706 del luglio 2004 sub doc. 2 motivi aggiunti) e una superficie catastale di mq 102 (cfr. visura catastale sub doc. 2 motivi aggiunti); con la conseguenza che l’ampliamento di 10,60 mq, rapportato alla superficie originaria e catastale, non risulterebbe comunque contenuto entro il margine di tolleranza del 2%.
Ne deriva che l’intervento edilizio non soltanto è stato eseguito su un immobile realizzato in area paesaggisticamente vincolata che, come tale, deve ritenersi soggetto al relativo regime di protezione, ma si è tradotto, pure, nell’esecuzione di opere suscettibili di alterare lo stato dei luoghi, modificando l’aspetto esteriore dell’edificio, non potendo, dunque, ritenersi sottratto alla valutazione di compatibilità paesaggistica.
Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base del DPR n. 31 del 2017, tenuto conto che – anche prescindendo dalla non conferenza del richiamo normativo, essendo regolata la fattispecie concreta dalla disciplina speciale di cui all’art. 32 d.l. 269 del 2003 conv. dalla legge n. 326 del 2003 – lo stesso decreto presidenziale esclude l’autorizzazione paesaggistica per opere interne che non alterano l’aspetto esteriore degli edifici, comunque denominate ai fini urbanistico-edilizi, anche ove comportanti mutamento della destinazione d’uso; mentre nella specie, come osservato, si è in presenza di un’alterazione della sagoma dell’edificio e, quindi, del suo aspetto esteriore.
L’afferenza dell’immobile ad un’area sottoposta a vincolo paesaggistico escludeva la formazione del silenzio assenso, come correttamente ritenuto dal Tar.
7. Infine, risulta corretta anche la terza ed autonoma ratio decidendi della sentenza di prime cure, concernente la non condonabilità dell’intervento abusivo, di per sé ostativa alla formazione del silenzio assenso in accertamento.
Come precisato da questo Consiglio, sia con specifico riferimento all’art. 32 comma 37 del d.l. 269 del 2003 conv. dalla legge n. 326 del 2003, sia con riguardo alla disciplina dell’art. 35 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 e dell’art. 39 della legge 23 dicembre 1994 n. 724, “la giurisprudenza ha costantemente affermato che per la formazione del silenzio assenso oltre alla completezza della documentazione è necessaria la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge per il rilascio del condono edilizio” (Consiglio di Stato, sez. II, 23 luglio 2020, n. 4703).
Avuto riguardo ai requisiti prescritti dalla disciplina speciale dettata dall’art. 32 d.l. n. 269 del 2003 cit., volti a perimetrare la portata applicativa dell’istituto ivi regolato e, dunque, l’ambito di operatività, anche, della formazione per silentiun del relativo titolo di sanatoria, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, tra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili se ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni (ai sensi dell’art. 32, commi 26 e 27, lett. d), d.l. 269/2003): a) le opere siano state realizzate prima dell’imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 5 agosto 2020, n. 4933).
Pertanto, nel caso di specie, non soltanto difettava il parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo de quo, ma si era in presenza di opere di ampliamento, suscettibili di aumentare la superficie dell’unità immobiliare realizzate in zona vincolata, con conseguente insussistenza dei presupposti di condonabilità e, dunque, di formazione del titolo abilitativo tacito.
Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base del precedente di questo Consiglio citato nell’ambito dell’atto di appello (n. 788 del 2017), trattandosi di pronuncia che, in relazione ai vincoli di inedificabilità relativa, non ha riconosciuto la possibilità di una formazione per silentiun del titolo di assenso, ma ha evidenziato la necessaria acquisizione del parere dell’Autorità preposta alla tutela paesaggistica ai fini della pronuncia sulla domanda di sanatoria; a conferma di come, in assenza di siffatto parere, non avrebbe comunque potuto pervenirsi ad una positiva delibazione, neanche per silentium, della domanda di condono.
8. Risultano infondate anche le censure incentrate sulla lesione del legittimo affidamento, tenuto conto che nella specie non sussiste alcun titolo amministrativo idoneo ad attribuire alla parte appellante il bene della vita agognato e sul quale il privato avrebbe potuto maturare, in ragione del tempo decorso, un affidamento qualificato, meritevole di tutela, avente ad oggetto la conservazione del favorevole assetto di interessi così costituito.
A tali fini, non potrebbe neanche valorizzarsi la DIA presentata dall’odierno appellante nel 2007, in quanto non idonea ad influire sulla procedura di condono delle opere abusive, afferendo ad attività manutentive.
Peraltro, l’insussistenza di una posizione di vantaggio sulla cui stabilità riscontrare un affidamento legittimo deve essere negata anche in ragione della condotta tenuta dallo stesso appellante che, lungi dal ritenere formatosi un silenzio assenso sulla domanda di condono, nel 2012 (doc. 5 ricorso in prime cure), ha richiesto, “con la massima urgenza” il “sollecito della pratica di condono edilizio” da parte di questo Ufficio”, rappresentando problemi con il Condominio e non essendo possibile presentare la richiesta d’urgenza per la pratica di condono.
Emerge, dunque, che nel 2012, quando avrebbe dovuto già essere integrata la fattispecie del silenzio assenso (infondatamente invocata a fondamento dell’appello, per quanto supra osservato), lo stesso appellante aveva sollecitato la conclusione del procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, dimostrando in tale modo di non nutrire alcun affidamento sulla sua avvenuta conclusione con la formazione del titolo per silentium; il che ulteriormente conferma l’insussistenza di un legittimo affidamento utilmente invocabile a sostegno dell’appello.
In ogni caso, si osserva che non può ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare e della cui illegittimità vi è piena consapevolezza da parte dell’interessato in quanto richiedente il relativo condono (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 05 aprile 2012, n. 2038).
9. La particolarità della controversia esaminata giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del grado di appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa interamente tra le parti le spese processuali del grado di appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2021 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Andrea Pannone – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Francesco De Luca – Consigliere, Estensore

 

 

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