Consiglio di Stato, Sentenza|4 gennaio 2021| n. 90.
L’acquiescenza si verifica in presenza di atti o comportamenti univoci, posti liberamente in essere dal destinatario del provvedimento amministrativo, che dimostrino la chiara ed irrefutabile volontà di accettarne gli effetti.
Sentenza|4 gennaio 2021| n. 90
Data udienza 24 novembre 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Pianificazione urbanistica – Vincolo espropriativo – Decadenza – Presentazione progetto edilizio – Parere negativo Commissione edilizia comunale – Insufficienza delle opere di urbanizzazione – Ricorso – Sopravvenuta conclusione del procedimento di esproprio – Acquiescenza – Diniego risarcimento danni – Non dimostrata spettanza del bene della via rappresentato dalla potenzialità edificatorie dell’area – Scelta discrezionale dell’Amministrazione comunale di destinare l’area a servizi di interesse generale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10516 del 2011, proposto dai signori
Vi. Do. e Gi. Do., rappresentati e difesi dagli avvocati Ga. Do., Al. Ru., con domicilio eletto presso l’avv. Ba. Se. in Roma, viale (…);
contro
il Comune di Lecce, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Al. Ru., con domicilio eletto presso l’avv. Ba. Se. in Roma, viale (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia-sezione staccata di Lecce Sezione Prima n. 840/2011, resa tra le parti, concernente l’impugnazione dell’approvazione variante urbanistica e il risarcimento danni
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Lecce;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica telematica del giorno 24 novembre 2020, tenuta ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Cecilia Altavista;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Gli odierni appellanti erano proprietari di un’area inserita, nel Piano regolatore generale del Comune di Lecce pubblicato il 3 febbraio 1990, in zona F33, destinata a “parco attrezzato urbano”.
Il 30 giugno 1995, ritenendo il vincolo di inedificabilità scaduto, avevano presentato al Comune due progetti, ai sensi dell’art. 4 ultimo comma della legge 28 gennaio 1977, n. 10, per l’edificazione dell’area di loro proprietà per due immobili ad uso abitativo e un complesso produttivo artigianale, impegnandosi a realizzare le opere di urbanizzazione.
La richiesta veniva respinta, a seguito del parere negativo della Commissione edilizia comunale che riteneva insufficienti le opere di urbanizzazione. Avverso il provvedimento reiettivo i signori Do. avevano proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, respinto con sentenza n. 6316 del 20 ottobre 2001, che, pur dando atto della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio, aveva ritenuto idonea la motivazione del provvedimento negativo basata sulla insufficienza delle opere di urbanizzazione.
Con delibera del 25 ottobre 2001 la Giunta comunale approvava il programma triennale delle opere pubbliche per il periodo 2002-2004, in cui era previsto l’intervento di sistemazione di una area attrezzata per spettacoli itineranti in viale (omissis).
Con nota del 9 novembre 2001 i signori Do. chiedevano al Comune di provvedere sulla destinazione urbanistica dell’area di loro proprietà con la destinazione C4 del PRG.
Il Comune, con nota del 14 novembre 2001, comunicava ai signori Do. l’avvio del procedimento di approvazione del progetto preliminare per un’area attrezzata per spettacoli itineranti sui terreni di loro proprietà individuati al catasto al foglio (omissis) particella (omissis) in viale (omissis).
Il 26 novembre 2001 i signori Do. presentavano osservazioni, rilevando che la loro proprietà riguardava anche altre particelle al catasto intestate ad altri soggetti, ma di loro proprietà in base ai registri immobiliari, e contestavano la realizzazione dell’opera, richiedendo nuovamente la classificazione delle aree di loro proprietà come zona C4.
Con nota del 30 gennaio 2002, il Dirigente del settore urbanistica rispondeva che la istanza di nuova classificazione sarebbe stata valutata in sede di nuova pianificazione.
Con successiva delibera dell’8 marzo 2002, il consiglio comunale ha approvato il progetto preliminare dell’opera di sistemazione dell’area per spettacoli itineranti, con gli effetti di cui all’art. 1 della legge 3 gennaio 1978, n. 1 e dell’art. 16 comma 2 della legge regionale 11 maggio 2001, n. 13, di variante urbanistica, modificando la destinazione urbanistica dell’area da zona F33, “parco attrezzato urbano”, a zona F32, “attrezzature per fiere esposizioni e nuova viabilità “.
La delibera è stata motivata con l’esigenza di realizzare tale area attrezzata per gli eventi culturali della città e per il decongestionamento del centro cittadino in occasione di grandi spettacoli, in relazione alla particolare collocazione dell’area in prossimità della tangenziale; la delibera è stata pubblicata sull’albo pretorio dal 25 marzo all’8 aprile 2002 e comunicata agli odierni appellanti con la nota del 15 aprile 2002, ma non è stata impugnata.
Successivamente, l’opera veniva inserita anche nel programma delle opere pubbliche per il triennio 2004-2006, e con delibera n. 60 del 26 luglio 2006, il Comune approvava nuovamente il progetto preliminare relativo ai lavori per la risistemazione dell’area attrezzata per spettacoli itineranti ai fini della variante urbanistica, senza necessità dell’approvazione regionale, ai sensi dell’art. 6 comma 5 L.R. 22 febbraio 2005, n. 3, in viale (omissis), demandando alla giunta comunale e al dirigente del settore Lavori Pubblici la procedura espropriativa. In particolare nella delibera si dava atto dell’intervento consistente nella realizzazione di un ampio parcheggio, atto ad ospitare sia i mezzi pesanti degli itineranti con le relative strutture che i mezzi degli spettatori, nella realizzazione di verde attrezzato e di un adeguato impianto di illuminazione, al fine di contribuire a migliorare la qualità culturale della vita cittadina e a limitare la congestione del traffico in occasione di grandi spettacoli.
Tale delibera è stata impugnata dai signori Vincenzo e Gi. Do. con ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, notificato il 14 settembre 2007, deducendo di aver avuto conoscenza piena di tale delibera solo il 24 luglio 2007, a seguito della istanza di accesso presentata il 2 maggio 2007; sono state formulate censure di eccesso di potere e violazione di legge, per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, per il difetto di motivazione in relazione alla reiterazione del vincolo, per la mancata previsione dell’indennità di cui all’art. 39 T.U. 8 giugno 2001 n. 327 con la reiterazione del vincolo, per la mancata revoca della precedente delibera dell’8 marzo 2002; è stato chiesto, altresì, il risarcimento dei danni per la illegittima pianificazione dell’area e per la illegittima reiterazione del vincolo, quantificati nel valore venale delle aree con una destinazione edificabile residenziale, pari a euro 915.460.
Nel frattempo, il 7 giugno 2007, gli odierni appellanti accettavano l’indennità di esproprio, pari a 370.000 euro, con riferimento alle particelle (omissis) del foglio (omissis), dichiarando di avere preso visione degli atti progettuali; l’indennità di esproprio è stata poi pagata dal Comune con bonifico del 20 luglio 2007, secondo quanto dichiarato dagli appellanti.
Il 25 settembre 2007 è stato emanato il decreto di esproprio n. 793, relativo alle particelle (omissis) del foglio (omissis); successivamente il Comune rilevava che le particelle (omissis) non risultavano intestate al catasto ai signori Do.. Pertanto, con nota del 22 ottobre 2007, la signora Do. comunicava che le particelle (omissis) del foglio (omissis) erano state da loro acquistate il 14 agosto 1997 dalla società FP. s.p.a. in liquidazione, a cui risultavano ancora intestate.
Con successiva deliberazione n. 533 del 29 ottobre 2007, il Comune ha approvato il progetto definitivo di sistemazione dell’area attrezzata per spettacoli itineranti e la pubblica utilità per le aree per cui non si era ancora proceduto all’espropriazione.
E’ stato poi adottato un nuovo decreto di esproprio il 23 novembre 2007 n. 1035, con rettifica di quello precedente con la indicazione delle particelle n. (omissis) ancora catastalmente intestate alla società FP. s.p.a. e la indennità per queste spettante, pari a euro 25.624,11, oltre alla indennità relativa alle particelle già intestate ai signori Do. pari a 344.375,78 euro.
La delibera n. 533 del 2007 e i decreti di esproprio non sono stati impugnati.
Il Comune di Lecce, costituendosi nel giudizio di primo grado, ha eccepito la tardività, l’inammissibilità per acquiescenza e la improcedibilità del ricorso e ne ha contestato comunque la fondatezza.
La sentenza di primo grado ha dichiarato improcedibile il ricorso, non essendo stati impugnati gli atti successivi, che hanno determinato la conclusione del procedimento di esproprio, in particolare i decreti di esproprio; ha respinto la domanda di risarcimento dei danni, atteso che il danno lamentato dalla ricorrente si sarebbe potuto evitare con una tempestiva impugnazione dei provvedimenti asseritamente lesivi, in applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c..
Con l’atto di appello è stata contestata la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, sostenendo che il decreto di esproprio farebbe parte della medesima sequenza procedimentale dell’atto impugnato in primo grado, che avrebbe dunque effetto caducante sul decreto stesso; è stata poi contestata la sentenza impugnata rispetto al capo risarcitorio, sostenendo che l’onere posto a carico del creditore ai sensi dell’art. 1227 del codice civile non potrebbe spingersi fino ad imporre l’esercizio di azioni giudiziarie; sono stati, poi, riproposti i motivi non esaminati dal giudice di primo grado, ovvero la violazione di legge per la mancata partecipazione al procedimento, il difetto di motivazione sulla reiterazione del vincolo, e la mancata previsione dell’indennizzo per la reiterazione del vincolo; nonché la domanda risarcitoria quantificata nel valore venale delle aree con edificabilità residenziale pari a euro 915.460.
Il Comune di Lecce si è costituito in giudizio, riproponendo le eccezioni di tardività e di inammissibilità del ricorso di primo grado non esaminate dal giudice di primo grado e contestando la fondatezza dell’appello.
Nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica gli appellanti hanno dedotto di non avere più interesse all’annullamento della delibera impugnata, ma solo al risarcimento dei danni; che le eccezione di tardività del ricorso e di inammissibilità per acquiescenza avrebbero dovuto essere oggetto di appello incidentale da parte del Comune; hanno insistito per l’accoglimento dei motivi di appello ai soli fini risarcitori, facendo riferimento ad un comportamento contrario a buona fede del Comune che avrebbe consentito l’accesso agli atti solo dopo l’accettazione della indennità di esproprio.
Il 10 novembre 2020 gli appellanti hanno presentato istanza di passaggio in decisione senza discussione orale.
All’udienza pubblica telematica del giorno 24 novembre 2020, tenuta ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, l’appello è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
In via preliminare si deve rilevare che le eccezioni riproposte dalla difesa comunale non dovevano essere proposte con l’appello incidentale, trattandosi comunque di eccezioni non esaminate, che, ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a. possono essere riproposte dalla parte appellata nella memoria.
Peraltro, non sono state tempestivamente proposte, in quanto l’art. 101 c.p.a. prevede, per la riproposizione delle questioni non esaminate, il termine di decadenza della costituzione in giudizio, ovvero ai sensi dell’art. 46 c.p.a., di sessanta giorni dalla notifica dell’appello; invece il Comune di Lecce ha proposto le eccezioni con l’atto di costituzione in giudizio depositato il 25 giugno 2012, dopo sei mesi dalla notifica dell’appello.
In ogni caso, trattandosi della sussistenza dell’interesse ad agire e della tempestività del ricorso di primo grado, ovvero di condizioni dell’azione, si tratta di questioni che possono comunque essere rilevate anche d’ufficio dal giudice di appello, in carenza di pronuncia da parte del giudice di primo grado (Cons. Stato, Ad. Plen., 26 aprile 2018, n. 4).
Circa la tardività del ricorso, deve peraltro rilevarsi che, anche facendo decorrere la piena conoscenza degli atti dal 7 giugno 2007 – data di sottoscrizione dell’accettazione della indennità di esproprio in cui si dà espressamente atto della presa visione di tutti gli atti del progetto- invece che dal 24 luglio 2007, data in cui è stato consentito l’accesso, comunque il ricorso deve ritenersi tempestivo. Infatti, è stato notificato il 14 settembre 2007, data in cui non era ancora decorso, dal 7 giugno 2007, il termine di sessanta giorni, a cui devono essere aggiunti i 45 giorni previsti per il periodo feriale dalla disciplina allora vigente.
E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per l’acquiescenza dei ricorrenti.
Come è noto l’acquiescenza si verifica in presenza di atti o comportamenti univoci, posti liberamente in essere dal destinatario del provvedimento amministrativo, che dimostrino la chiara ed irrefutabile volontà di accettarne gli effetti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 novembre 2018, n. 6432; 17 gennaio 2018 n. 256; 12 giugno 2014, n. 2998).
Nel caso di specie, c’è la prolungata manifestazione di una volontà assolutamente incompatibile con la impugnazione della delibera n. 60 del 20 luglio 2006, dovuta al complessivo comportamento degli appellanti, con atti anche reiterati nel tempo, incompatibili con la volontà di impugnare l’approvazione del progetto di sistemazione dell’area attrezzata per gli spettacoli itineranti e il vincolo preordinato all’esproprio: oltre all’esplicita accettazione della indennità di esproprio – contenuta nella nota sottoscritta dalla signora Gi. Do., anche quale procuratrice speciale del fratello, il 7 giugno 2007, in cui si dà espressamente atto della presa visione di tutti gli atti del progetto – la mancata impugnazione del decreto di esproprio n. 793 del 25 settembre e del successivo decreto del 23 novembre 2007, n. 1035, a seguito della rettifica degli intestatari catastali, secondo quanto chiarito dalla signora Di Do. con la nota del 22 novembre 2007.
Né può condividersi l’argomentazione della difesa appellante, per cui la accettazione della indennità sarebbe avvenuta senza conoscere la delibera; infatti, a prescindere dalla valutazione di quanto affermato nella nota del 7 giugno 2007 con riferimento alla presa visione dei tutti gli atti, tali comportamenti univoci di accettazione della procedura di esproprio sono stati tenuti anche successivamente all’accesso agli atti il 24 luglio 2007, con la mancata impugnazione di decreti di esproprio e con la ulteriore nota del 22 novembre 2007, con cui la signora Do. ha chiarito la situazione delle particelle (omissis) ancora intestate alla FP. s.p.a., ma in proprietà dei signori Do. dal 14 agosto 1997. Tali atti denotano la piena consapevolezza della procedura espropriativa in corso e la volontà di accettarne gli effetti, anche ai fini dell’effettivo pagamento della indennità avvenuto, secondo quanto indicato dagli stessi appellanti, il 20 luglio 2007.
In ogni caso, poi, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, il ricorso quand’anche fosse stato ammissibile al momento della sua proposizione, è divenuto improcedibile per la mancata impugnazione dei decreti di esproprio.
In particolare, ad avviso del Collegio, tali decreti, facendo perdere la proprietà dei terreni oggetto della delibera impugnata, hanno fatto venire meno l’interesse attuale e concreto a contestare la delibera, non potendo più gli odierni appellanti, allora ricorrenti, ricevere alcuna utilità nel loro patrimonio dall’eventuale annullamento della delibera n. 60 del 2006, non essendo più i proprietari dei terreni interessati.
Non può poi condividersi l’affermazione degli appellanti circa l’effetto caducante, che l’annullamento della delibera con cui è stato approvato il progetto preliminare potrebbe avere anche sui decreti di esproprio.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha, infatti, ricondotto l’effetto caducante solo al rapporto di presupposizione necessaria ovvero nelle sole ipotesi in cui gli atti annullati in sede giurisdizionale costituiscono “il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti che, in quanto tali, sono meramente consequenziali” provocando l’invalidità derivata con effetto caducante sull’atto a valle.
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21 gennaio 2019, n. 510; Sez. VI, 20 marzo 2018, n. 1777).
Nel caso di specie, anche ammesso che il decreto di esproprio potesse ritenersi soggetto ad un regime di invalidità derivata, il rapporto di presupposizione necessaria non poteva certo operare rispetto ai “fatti” posti in essere dagli stessi appellanti, quali la espressa accettazione della indennità di esproprio, l’effettiva accettazione del relativo pagamento, la nota del 22 novembre 2007, con cui si chiariva l’intestazione delle particelle (omissis), da cui è conseguita l’emissione del decreto di esproprio rettificato il 23 novembre 2007, tutte circostanze da cui è comunque derivata la sopravvenuta carenza di interesse alla impugnazione della delibera n. 33 del 2006, non potendo più essere materialmente eliminati tali fatti e i relativi effetti (né risulta nel presente giudizio che la parte appellante abbia offerto formalmente la restituzione della somma ricevuta a titolo di indennità di esproprio).
Anche l’acquiescenza successiva alla proposizione del giudizio comporta, comunque, la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 15 novembre 2018, n. 6432, citata).
E’ infondato anche il motivo di appello, con cui si è contestata la reiezione della domanda risarcitoria.
Secondo l’appellante il giudice di primo grado avrebbe errato nell’interpretare l’art. 1227 del codice civile, nel senso che la norma imporrebbe al creditore un onere anche di intraprendere azioni giudiziarie.
Tale argomentazione non può essere condivisa.
Come rilevato dal giudice di primo grado, tale interpretazione deriva dalla previsione dell’art. 30 comma 3 del d.lgs. 104 del 2010, per cui “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La giurisprudenza di questo Consiglio, a partire dall’Adunanza Plenaria n. 3 del 2011, da cui il Collegio non intende discostarsi, è costante nel ritenere che il codice del processo amministrativo abbia sancito la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa, recida, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Sul versante prettamente causale, rileva non solo la mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche l’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, per cui il giudice deve valutare l’omissione di ogni comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita, alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.. Pertanto anche scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno. L’utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame; in base al comma 2 dell’art. 1227 c.c., quindi il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall’aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno); tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.; nel novero dei comportamenti ordinariamente esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo vi rientra, dunque, anche la proposizione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio (cfr. Cons. Stato Sez. III, 22 maggio 2018, n. 3066; Sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2778; Sez. VI, 7 settembre 2020, n. 5388).
Inoltre, la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di una interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 c.c. Tale regola è applicabile, pertanto, anche alle azioni risarcitorie proposte prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (Cons. Stato Sez. IV, 22 maggio 2020, n. 3227; Sez. VI, 7 settembre 2020, n. 5388), come quella in questione.
Nel caso di specie, manca del tutto il nesso causale tra l’atto impugnato in primo grado ovvero la delibera n. 60 del 26 luglio 2006 e il danno lamentato (ciò a prescindere dalla stessa esistenza del danno, avendo la stessa parte appellante ricevuto l’indennità di esproprio, accettata senza alcuna contestazione nel quantum davanti al giudice ordinario).
La domanda risarcitoria è stata proposta per la perdita della potenzialità edificatoria dei terreni dovuta alla destinazione urbanistica e per la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio.
Ma la destinazione urbanistica dell’area come zona F ovvero relativa ad attrezzature di interesse generale derivava già dalle precedenti varianti urbanistiche mai impugnate.
La destinazione F 33 “parco attrezzato urbano” era prevista già dal 1990, mentre la destinazione F 32 “attrezzature per fiere esposizioni e nuova viabilità ” è stata inserita con la delibera n. 44 dell’8 marzo 2002, che aveva anche già approvato il progetto preliminare dell’opera, anch’essa non impugnata, pur essendo stata data la comunicazione di avvio del procedimento.
Gli appellanti non hanno quindi mai contestato né prima il vincolo preordinato all’esproprio né successivamente i decreti di esproprio.
Neppure, poi, si pone propriamente nella presente vicenda una questione attinente alla illegittima reiterazione del vincolo, essendo stato approvato il progetto preliminare dell’opera già con la delibera dell’8 marzo 2002.
In base all’art. 9 comma 4 del D.P.R. 8 giugno 201, n. 327, “il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti nel comma 1 (ovvero con l’approvazione di uno strumento urbanistico o di una sua variante) tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard”.
La delibera n. 60 del 2006 ha reiterato il vincolo preordinato all’esproprio, approvando nuovamente il progetto preliminare dell’opera, dando conto della utilità della stessa per le esigenze comunali.
Sul punto la giurisprudenza di questo Consiglio ha già rilevato che, in caso di prima (e unica) reiterazione di un vincolo urbanistico accompagnata dalla coeva approvazione del progetto preliminare dell’opera, e, quindi, da una impegnativa manifestazione di volontà intesa alla sua concreta ed effettiva realizzazione, si dequota l’ampiezza della motivazione richiesta e viene meno la previsione di indennizzo, destinata a trovare puntuale indicazione con l’approvazione del progetto definitivo e i successivi e consecutivi atti della procedura ablatoria. In altri termini, mentre nell’ipotesi ordinaria di semplice reiterazione di un vincolo espropriativo decaduto è esigibile e doverosa l’esternazione dell’attualità delle ragioni d’interesse pubblico che la sorreggono, nonché dell’assenza di eventuali soluzioni alternative, e la previsione d’indennizzo, tale da rendere concreta e tangibile la volontà dell’amministrazione di provvedere effettivamente alla realizzazione dell’opera pubblica, qualora il vincolo espropriativo sia ricollegato all’approvazione di un progetto preliminare è del tutto evidente che l’amministrazione intende eseguire l’intervento, onde deve ritenersi legittimo che l’indicazione dell’indennizzo sia rinviata alle successive ordinarie fasi del procedimento espropriativo, e la motivazione è sufficiente allorché il provvedimento dia conto dell’interesse alla esecuzione dell’opera (Cons. Stato Sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2418).
Pertanto, la domanda risarcitoria formulata con riferimento alla reiterazione del vincolo è comunque infondata, non sussistendo alcun profilo di illegittimità nella detta reiterazione, avvenuta solo una volta, sufficientemente motivata ai fini dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera pubblica, di cui è stato approvato contestualmente il progetto preliminare.
Inoltre, anche la domanda risarcitoria formulata con riferimento alla perdita della potenzialità edificatoria dell’area è infondata, in quanto l’eventuale annullamento del vincolo preordinato all’esproprio non avrebbe comportato necessariamente la destinazione residenziale dei terreni dei ricorrenti; la scadenza del termine quinquennale del vincolo preordinato all’esproprio comporta, infatti, l’applicazione dell’art. 9 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 che solo in limitati casi prevede una possibilità di edificazione (al di fuori dei centri abitati con un indice di fabbricabilità pari a 0,03 metri cubi per metro quadro, all’interno dei centri abitati non sono consentiti interventi di nuova edificazione, ma solo di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo), mentre, in generale, il Comune è solo obbligato a dare una destinazione all’area, ma non è obbligato alla scelta urbanistica che resta nell’ambito del suo potere discrezionale (cfr. Cons. St., IV, 17 ottobre 2012, n. 5307; 4 dicembre 2017, n. 5670; 24 agosto 2016, n. 3684; 28 novembre 2019, n. 8125).
Né nel caso di specie, si poteva ritenere sussistente un affidamento del privato in ordine ai progetti presentati nel 1995, respinti con provvedimento comunale ritenuto legittimo da sentenza passata in giudicato (la sentenza del T.A.R. Puglia-Lecce n. 6316 del 20 ottobre 2001), da cui al massimo poteva scaturire l’obbligo di provvedere a pianificare l’area, come il Comune ha fatto con la delibera dell’8 marzo 2002 mai impugnata.
Ne deriva comunque un ulteriore evidente profilo di infondatezza della domanda risarcitoria, mancando in ogni caso la possibilità di un giudizio prognostico favorevole circa la spettanza del bene della vita richiesto dagli appellanti ovvero lo sfruttamento edificatorio dell’area.
La giurisprudenza è, infatti, costante nel ritenere che chi proponga una domanda di risarcimento danni derivante dalla illegittima attività amministrativa debba dimostrare la c.d. “spettanza del bene della vita”, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, di un bene della vita sostanziale di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3392; Consiglio di Stato, sez. IV, 17 gennaio 2018, n. 240). Tali elementi non sussistono quando permane il potere della Amministrazione di provvedere, con la conseguenza che la domanda di risarcimento non può essere valutata che all’esito del nuovo eventuale esercizio del potere (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 marzo 2018, n. 1787) e, nel caso di richiesta di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, il risarcimento è subordinato alla dimostrazione, secondo un giudizio prognostico, che il provvedimento sarebbe stato rilasciato in assenza dell’agire illegittimo della amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23 marzo 2018, n. 1859).
Nel caso di specie, non può operarsi alcun giudizio circa la spettanza del bene della vita costituito dalle potenzialità edificatorie dell’area degli appellanti, emergendo con evidenza dagli atti di causa la scelta (discrezionale) dell’Amministrazione comunale fin dal 1990 di destinare l’area a servizi di interesse generale.
Peraltro, neppure può ravvisarsi un comportamento dell’Amministrazione comunale contrario a correttezza e buona fede, come sostenuto dagli appellanti, avendo l’Amministrazione portato avanti la realizzazione del progetto in conformità alle scelte di pianificazione effettuate e concluso il procedimento con l’emissione dei decreti di esproprio dopo avere corrisposto la relativa indennità (la cui quantificazione non è stata contestata dagli appellanti davanti alla giurisdizione competente).
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
Le spese del presente grado di giudizio, in base alla soccombenza, devono essere poste a carico della parte appellante, e devono essere liquidate in euro 3000,00 (tremila,00) oltre accessori di legge in favore del Comune di Lecce.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte appellante alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessive euro 3000,00 (tremila,00) oltre accessori di legge, in favore del Comune di Lecce.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 novembre 2020 convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Giulio Castriota Scanderbeg – Presidente
Giovanni Sabbato – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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