La sospensione del processo

Consiglio di Stato, sezione quinta, Sentenza 21 agosto 2019, n. 5776.

La massima estrapolata:

La sospensione del processo da essa prevista è consentita solo per la c.d. pregiudizialità tecnica (o necessaria), che solo sussiste quando una controversia (pregiudiziale) costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata, in ragione del fatto che il rapporto giuridico della prima rappresenta un elemento costitutivo della situazione sostanziale dedotta nella seconda, per cui il relativo accertamento si imponga nei confronti di quest’ultima con efficacia di giudicato, al fine di assicurare l’uniformità di decisioni.

Sentenza 21 agosto 2019, n. 5776

Data udienza 18 luglio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6439 del 2010, proposto da
Società Im. Ni. di Pe. Ro. & C. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pi. Al. Mu. Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Pi. Lu. in Roma, viale (…);
contro
Comune di Modena, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato St. Ma., con domicilio eletto presso la sede dell’Avvocatura civica in Modena, Piazza (…);
Ta. Ta. di Mi., Mo. e Ra. s.n. c., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Sezione Seconda, n. 00621/2009, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Modena;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 luglio 2019 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti gli avvocati Bo., in dichiarata delega degli avvocati Pi. Al. Mu. Ca. e Pi. Lu., nonché St. Ma.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.Nell’anno 1992 con distinti contratti verbali la società Pe. 78 s.a.s. concedeva in locazione alla Ta. Ta. s.n. c. vari macchinari ed attrezzature dietro il pagamento di un canone annuo di lire 20.400.000, nonché un fabbricato costituito da laboratorio e capannone, con annessi servizi, sito in Modena, via (omissis), per un canone annuo di lire 15.600.000.
Per asserite ragioni fiscali tra le parti veniva sottoscritto un unico contratto, registrato il 17 settembre 1992, recante l’indicazione di un canone complessivo di lire 36.000.000. Successivamente la ricorrente, ottenuta dal Comune l’autorizzazione a locare il laboratorio ed il capannone nel rispetto dell’allora vigente convenzione urbanistica, predisponeva il relativo contratto di locazione per il canone determinato contratto che, però, la conduttrice si rifiutava di sottoscrivere, costringendo così la locatrice ad adire il Tribunale civile di Modena per risolvere giudizialmente il contratto.
Il Comune non riteneva però sufficienti le spiegazioni fornite dalla ricorrente in ordine alla suddetta vicenda e conseguentemente irrogava, con deliberazione di Giunta n. 170 del 10 febbraio 1994, la sanzione di lire 54.475.564, pari al doppio della differenza tra il canone mensile autorizzabile e quello maggiore (presunto) pattuito. A tale deliberazione faceva seguito l’intimazione al pagamento ella suddetta somma.
2. Con ricorso al Tribunale amministrativo dell’Emilia Romagna la società Im. Ni. di Pe. R. e C. s.a.s. (che nel frattempo aveva incorporato la Pe. 78 s.a.s. con atto di fusione del 17 dicembre 2004) impugnava detti provvedimenti, deducendone l’illegittimità per:
1) Pregiudizialità della causa instaurata in sede civile: la decisione sulla causa intentata nei confronti della società conduttrice il fabbricato per ottenere la risoluzione giudiziale del contratto di locazione avrebbe avuto carattere pregiudiziale, avendo ad oggetto proprio il rapporto contrattuale sulla base del quale il Comune ha ritenuto di adottare i provvedimenti impugnati;
2) La causa pendente tra la locataria e la conduttrice davanti al giudice civile avrebbe dimostrato l’inesistenza di un contratto di locazione accettato da entrambe le parti, con conseguente impossibilità di affermare, con certezza, che vi fosse stata violazione del paragrafo n. 12 della convenzione del 6 luglio 1977 tra la ricorrente ed il Comune di Modena;
3) Carenza di potere del Comune in merito all’accertamento dei presupposti per l’applicazione della sanzione: la presunta violazione della clausola n. 12 della convenzione avrebbe imposto all’amministrazione comunale di utilizzare i rimedi previsti dal diritto comune contro l’inadempimento contrattuale (art. 1321ss. Cod. civ.) innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, non avendo l’amministrazione alcuna potestà d’imperio al riguardo, con conseguente illegittimità dei provvedimenti impugnati;
4) Eccesso di potere per disparità di trattamento, con riferimento alla deliberazione del Consiglio Comunale del 15/4/1993 n. 78: con tale deliberazione il Comune di Modena aveva determinato la nuova disciplina per la concessione del diritto di superficie o la vendita di aree edificabili o di fabbricati compresi nel “piano per gli insediamenti”, prevedendo sia una riduzione – rispetto alla misura stabilita nella previgente disciplina – della sanzione prevista per la locazione a canone superiore a quello massimo consentito, sia un innalzamento del canone di locazione dal 5% al 7%, al fine di incentivare gli investimenti immobiliari. Inspiegabilmente, però, il Comune avrebbe applicato retroattivamente la nuova disciplina solo in ordine alla riduzione della misura sanzionatoria, calcolando invece l’importo massimo del canone di locazione ammissibile secondo la precedente disciplina;
6) Violazione per mancata applicazione dell’art. 1384 Cod. civ.: l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva in materia di concessioni avrebbe comportato l’attribuzione allo stesso anche degli stessi poteri dell’autorità giudiziaria ordinaria e, tra questi, il potere di ridurre ad equità la penale di cui all’art. 1384 Cod. civ.; di conseguenza gli atti impugnati avrebbero dovuto essere considerati illegittimi per non aver tenuto conto di tale possibilità, applicando una sanzione pecuniaria particolarmente pesante in assenza di un’effettiva lesione dell’interesse pubblico.
3. Il Comune di Modena, costituitosi in giudizio, concludeva per la reiezione del ricorso, in quanto infondato.
4. Con la sentenza segnata in epigrafe il giudice adito respingeva il ricorso, ritenendo infondate le censure ivi rassegnate.
5. Avverso tale decisione la società Im. Ni. di Pe. R. e C. s.a.s. interponeva appello, lamentando:
1) Errata pronuncia del T.A.R. bolognese per intervenuta violazione del principio di diritto stabilito in soggetta materia ed in una vertenza sempre con il Comune di Modena dalle Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8589 del 1/10/96 in sede di regolamento di giurisdizione.
2) Errata pronuncia circa la reiezione del I motivo di ricorso notificato il 19/5/1994 (pregiudizialità della causa civile (n. 3153/94) davanti al Tribunale di Modena) e del II motivo (carenza del presupposto di fatto del provvedimento impugnato costituito dalla mancata esistenza di una locazione perfezionata tra le parti).
3) Errata pronuncia circa là reiezione del ID motivo del ricorso (carenza del potere in capo al Comune circa l’esercitato autoaccertamento dei presupposti per l’applicazione della sanzione prevista, dalla clausola contrattuale).
4) Errata pronuncia circa la reiezione del IV motivo del ricorso (eccesso di potere nell’applicare la delibera consiliare n. 78 del 15/4/93) e del V motivo del ricorso (eccesso di potere per errato presupposto di fatto per quanto concerne l’erroneità del calcolo della presunta durata “illecita” della “locazione”).
5) Errata pronuncia circa la reiezione del VI motivo del ricorso (riduzione della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c.).
Costituitosi in giudizio, il Comune di Modena eccepiva l’infondatezza dell’appello, chiedendone il rigetto.
6. Successivamente le parti ulteriormente ribadivano, con apposite memorie, le proprie rispettive tesi difensive ed all’udienza pubblica del 18 luglio 2019, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

7. L’appello è infondato.
7.1. Con il primo motivo di appello si lamenta che il primo giudice non avrebbe svolto alcuna preliminare indagine sul contenuto del rapporto concessorio e sugli atti posti in essere dall’ente concedente nel corso del suo svolgimento, essendosi limitato a respingere il ricorso sul presupposto – non dimostrato – secondo cui “l’indubbio rilievo pubblicistico rivestito anche dalla fase sanzionatoria del procedimento di cui all’art. 27 del D.P.R. n. 865 del 1971 (concernente l’approvazione dei piani per gli insediamenti produttivi, che il Comune deve avviare nel caso di accertata violazione, da parte delle imprese proprietarie dei nuovi fabbricati, della relativa convenzione stipulata con i medesimi), impone alle amministrazioni comunali l’adozione di atti formalmente e sostanzialmente autoritativi”.
La censura risulta in primo luogo inammissibile, trattandosi di motivo nuovo (e non di mera difesa) proposto per la prima volta in grado di appello, in violazione del divieto di cui all’art. 104 Cod. proc. amm.
In ogni caso è infondato il riferimento all’art. 20 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (Norme per l’edilizia residenziale pubblica), il cui primo comma prevede che “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli alloggi di edilizia agevolata possono essere alienati o locati, nei primi cinque anni decorrenti dall’assegnazione o dall’acquisto e previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi. Decorso tale termine, gli alloggi stessi possono essere alienati o locati”.
Come risulta pacificamente dal tenore della stessa, tale disposizione (avente carattere speciale, ossia non estensibile al di là dei casi espressamente previsti) si riferisce esclusivamente alle locazioni aventi ad oggetto “alloggi di edilizia agevolata”, laddove nel caso di specie si verte sulla locazione di un capannone (che certo non può ricondursi alla nozione giuridica ed economica di “alloggio”) in zona P.I.P.
Per l’effetto neppure è pertinente il richiamo alla sentenza di Cassazione civile n. 26915 del 2008, anch’essa (ovviamente) riferita ad una (diversa) controversia di edilizia residenziale abitativa.
7.2. Con il secondo motivo di appello viene ribadita la tesi della pregiudizialità del giudizio civile in precedenza instaurato tra le società Pe. 78 (locatrice) e Ta. Ta. (conduttrice) rispetto a quello amministrativo relativo alla contestata violazione del par. n. 12 della Convenzione urbanistica, avente ad oggetto l’annullamento e/o la risoluzione della locazione registrata il 2 settembre 1992, violazione che, di conseguenza, non vi sarebbe mai stata.
Neppure questo motivo può essere accolto.
Va in primo luogo rilevato che non può oggettivamente parlarsi di pregiudizialità ex art. 295 Cod. proc. civ. (applicabile al processo amministrativo in virtù del richiamo ad esso operato dall’art. 79, comma 1, Cod. proc. amm.), per difetto dei presupposti.
Invero, va ribadito che la sospensione del processo da essa prevista è consentita solo per la c.d. pregiudizialità tecnica (o necessaria), che solo sussiste quando una controversia (pregiudiziale) costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata, in ragione del fatto che il rapporto giuridico della prima rappresenta un elemento costitutivo della situazione sostanziale dedotta nella seconda, per cui il relativo accertamento si imponga nei confronti di quest’ultima con efficacia di giudicato, al fine di assicurare l’uniformità di decisioni (ex multis: Cass. Sez. un., 27 luglio 2004, n. 14060; Sez. un. 5 giugno 2000, n. 408; Sez. un. 11 aprile 1994, n. 3354; I, 2 agosto 2007, n. 16995; I, 27 gennaio 2006, n. 1741; III, 28 dicembre 2009, n. 27426; III, 25 maggio 2007, n. 12233; III, 30 giugno 2005, n. 13950; Sez. lav., 24 gennaio 2006, n. 1285; VI, 29 luglio 2014, n. 17235; Cons. Stato, IV, 18 novembre 2014, n. 5662; IV, 8 gennaio 2013, n. 39; V, 16 febbraio 2015, n. 806; VI, 12 marzo 2012, n. 1386).
Più nello specifico (ex multis, Cons. Stato, IV, 14 maggio 2014, nn. 2483 e 2484) la pregiudizialità necessaria si pone tra rapporti giuridici diversi, collegati in modo tale per cui la situazione giuridica della causa pregiudiziale si pone come elemento costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del distinto rapporto dedotto nella causa dipendente, la cui esistenza è dunque necessariamente presupposta dalla prima.
Il rapporto di pregiudizialità in senso tecnico è pertanto configurabile solo quando il petitum della domanda pregiudiziale costituisce al contempo la causa petendi o, per converso, fatto paralizzante (impeditivo, modificativo, estintivo), della domanda dedotta nella causa dipendente (da ultimo, Cons. Stato, V, 17 febbraio 2016, n. 640).
Tali presupposti non sussistevano nel caso di specie, non venendo a priori meno il fondamento astratto della misura sanzionatoria irrogata (consistente nel pattuire un canone di affitto eccedente un limite massimo predeterminato) anche laddove, in ipotesi, il giudice civile avesse successivamente dichiarato la risoluzione (ovvero l’annullamento) del contratto di locazione.
Invero, la stipulazione a monte di un contratto di locazione non abitativa emerge dagli atti, ove si consideri che a seguito della nota di contestazione del 4 maggio 1993 del Comune (nella quale si rammentavano alla società locatrice i limiti massimi del canone di locazione, preannunciando le sanzioni previste dall’art. 12 della concessione e concedendo un termine di 60 giorni per deduzioni difensive) l’interessata non presentava scritti difensivi, bensì una lettera (sub doc. 7 di parte ricorrente) nella quale preannunciava che avrebbe chiesto la risoluzione del contratto di locazione stipulato in violazione della convenzione, con ciò confermandone l’esistenza e l’irregolarità .
Quanto sopra a maggior ragione ove si consideri che almeno una parte dei canoni originariamente pattuiti risulterebbero essere stati effettivamente percepiti, come emerge dalla dichiarazione resa dall’allora conduttrice con lettera raccomandata 8 giugno 1993 (doc. n. 6 di parte ricorrente), con la quale si comunicava che “in attesa di definire il nuovo contratto di locazione abbiamo dato ordine alla ns. banca di provvedere all’accredito in data 10/6/93 sul vs. c/c 1177 c/o E.s.e.S.p. dell’importo di lire 1.547.000 a titolo di pagamento rata del mese di giugno 1993”.
Il tutto a prescindere dal fatto che la decisione sulla sorte del contratto neppure sarebbe stata opponibile al Comune, terzo rispetto alle parti private in causa, così come non gli si sarebbe potuto opporre un verbale di conciliazione (atto meramente negoziale tra due parti private – cui il Comune stesso era del tutto estraneo – per la bonaria composizione dei loro interessi disponibili).
Va comunque evidenziato che l’appellante neppure ha fornito la prova del fatto che il canone realmente percepito fosse eventualmente minore rispetto a quello consacrato nel contratto sottoscritto il 2 settembre 1992 e registrato il 17 settembre 1992.
7.3. Con il terzo motivo di appello si deduce che la presunta violazione di un obbligo di natura contrattuale, quale l’inadempimento del paragrafo n. 12 della convenzione da parte della allora Pe. 78 s.a.s., avrebbe comportato l’obbligo per l’amministrazione – prima di emettere l’ordinanza sanzionatoria – di utilizzare i rimedi previsti dal diritto comune (agli artt. 1321ss. Cod. civ.) davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
La scelta dello strumento convenzionale collocherebbe infatti l’amministrazione in una posizione di uguaglianza rispetto al soggetto privato, precludendole “l’esercizio della potestà d’imperio circa la fase di autoaccertamento della sanzione da applicare”.
Il motivo non può trovare accoglimento.
Alle convenzioni urbanistiche, in quanto sostitutive di provvedimenti amministrativi, come previsto all’art. 11, comma 2, l. 7 agosto 1990 n. 241, si applicano i principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti, per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica (Cass. civ., Sez. un., 1° luglio 2009, n. 15388; Cons. Stato, IV, 21 gennaio 2013, n. 324; IV, 2 febbraio 2012, n. 616; IV, 2 agosto 2011, n. 4576).
Va peraltro ribadito l’insegnamento giurisprudenziale – dal quale non vi è ragione di discostarsi nel caso di specie – per cui, nei casi in cui si faccia ricorso ad uno strumento alternativo all’attività di carattere provvedimentale, l’amministrazione, oltre a continuare a disporre dei propri poteri autoritativi, può avvalersi di tutte le prerogative concesse dal codice civile ai contraenti privati (Cons. Stato, VI, 18 dicembre 2012, n. 6474; VI, 6 novembre 1998, n. 1448; VI, 23 agosto 2010, n. 5904; VI, 17 maggio 2010, n. 3129; V, 27 gennaio 2006, n. 236).
L’esercizio della potestà pubblicistica non va dunque a detrimento della capacità privatistica, ma si aggiunge ad essa: vi è un concorso e non un’alternatività di poteri, salva, ovviamente, l’impossibilità di conseguire due volte lo stesso risultato.
Per l’effetto, nell’operatività della Convenzione ex art. 27 della l. 865 del 1971, il Comune non veniva affatto a trovarsi su un piano di parità con il privato, mantenendo integri i propri poteri autoritativi nell’esercizio dell’interesse pubblico (tra cui in primis quelli sanzionatori).
7.4. Con il quarto motivo di appello viene invece dedotta l’erroneità dei calcoli operati dal Comune circa il periodo di effettiva durata del rapporto locatizio contestato.
Detto periodo non sarebbe infatti pari a giorni 485 (dal 2 settembre 1992 al 31 gennaio 1993), con una conseguente sanzione di lire 54.474.564, ma a giorni 148 (dal 2 settembre 1992 al 28 gennaio 1993) con una conseguente sanzione di lire 8.3111.680.
Al riguardo, valenza “probatoria” avrebbe innanzitutto la domanda al Comune della Pe. 78 s.a.s., in data 28 gennaio 1993, di “autorizzare la locazione e di risolvere il contratto stipulato con la ditta Ta. Ta., decorrente dal 2/9/92”.
Da ciò discenderebbe l’erroneità della sentenza impugnata, nella parte in cui evidenza come la ricorrente (odierna appellante) non avesse comprovato l’erroneità dei calcoli effettuati dal Comune.
Il motivo risulta innanzitutto inammissibile per genericità, non essendo compiutamente indicate le ragioni oggettive a sostegno della richieste di riduzione della sanzione formulata dall’appellante.
In ogni caso, lo stesso è infondato.
Va in primo luogo ricordato, quale elementare principio processuale, che una dichiarazione unilaterale dell’interessata non può certo costituire fonte di prova a sostegno delle proprie ragioni.
Ciò detto, in realtà non vengono neppure esplicitate (prima ancora che documentate) le ragioni che dimostrerebbero come il conteggio operato dall’amministrazione fosse errato.
Né tali giustificazioni possono trarsi dal fatto che, a pag. 7 della memoria dell’amministrazione del 5 luglio 1994, si legga che “il Comune è comunque disponibile ad una revisione ove la relativa richiesta sia supportata da una documentazione adeguata”, inciso dal quale non è dato desumere altro se non la doverosa disponibilità del Comune a rivedere in futuro le proprie pretese laddove – appunto – la ricorrente avesse fornito una qualche prova oggettiva e reale a sostegno delle proprie ragioni.
7.5.Infine, con il quinto motivo di appello si ribadisce la possibilità, per il giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, di esercitare tutti i poteri del giudice ordinario, compreso quello di eventualmente ridurre ad equità la penale ex art. 1384 Cod. civ.
Nel caso di specie, invero, sussisterebbero i presupposti per fare ricorso a tale strumento, in ragione:
1) della dedotta non pattuita definitiva locazione nel periodo 2 settembre 1992-31 dicembre 1993;
2) al presunto errato calcolo della durata “illecita” del contratto di locazione sottoscritto il 2 settembre 92;
3) alla data del 18 marzo 1994 di pronuncia della sanzione penale (di lire 54.474.564);
4) alla sostanziale assenza di una effettiva e reale lesione dell’interesse pubblico (ad avviso dell’appellante, neppure considerato nell’art. 12 della convenzione del 6 luglio 1977).
Il motivo non ha pregio.
Premesso che la valutazione circa l’equità della penale appare attenere al merito della valutazione amministrativa (essendo per tale estranea all’oggetto del giudizio di mera legittimità proprio della giurisdizione anche “esclusiva” del giudice amministrativo), è da confermare il consolidato orientamento giurisprudenziale (da ultimo Cons. Stato, IV, 7 settembre 2018, n. 5276) per cui “la convenzione urbanistica, in quanto contratto ad oggetto pubblico, presenta un “contenuto contrattuale” sostanzialmente definito dalla legge e dagli atti di pianificazione, di modo che non può configurarsi una “autonomia”, e dunque una “disponibilità ” delle obbligazioni da assumersi con la convenzione da parte dell’amministrazione, se non nella misura in cui le stesse trovano previo riscontro nella legge e negli altri atti citati”.
Più nello specifico, va condiviso il principio di cui al precedente di Cons. Stato, IV, 15 maggio 2017, n. 2257, a mente del quale – alla luce degli artt. 27 e 35 della l. n. 865 del 1971 – deve ritenersi che la convenzione urbanistica costituisca “non già “un contratto di diritto civile, ma deve essere inquadrata propriamente nei contratti ad oggetto pubblico”; da ciò consegue che, in ragione della particolarità della natura dell’accordo e della disciplina ad esso applicabile, “l’istituto della “penale”, presente nelle ipotesi di esercizio di potere amministrativo ampliativo della sfera giuridica dei privati (non solo, dunque, nelle ipotesi di esercizio di potere concessorio, ma anche autorizzatorio), ha certamente natura sanzionatoria e salvaguarda il raggiungimento delle finalità di pubblico interesse sottese all’esercizio del potere”.
Detta natura esclude l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1384 Cod. civ., atteso che “qualora si intendesse fare applicazione del principio di riduzione equitativa della penale anche per le sanzioni, il giudice interverrebbe, per un verso, sul contenuto precettivo della norma che prevede la sanzione (ad esempio, nel caso in cui la riducesse oltre il minimo previsto), per altro verso, eserciterebbe indebitamente un potere discrezionale attribuito all’amministrazione”.
Del resto, l’istituto della “penale” in diritto amministrativo non può essere apoditticamente ricondotto alla figura contrattuale della clausola penale (artt. 1382-1384 Cod. civ.), ma deve innanzi tutto trovare il proprio fondamento nel regime di diritto pubblico governante il rapporto convenzionale/concessorio.
L’istituto della “penale”, presente nelle ipotesi di esercizio di potere amministrativo ampliativo della sfera giuridica dei privati, ha certamente natura sanzionatoria e salvaguarda il raggiungimento delle finalità di pubblico interesse sottese all’esercizio del potere (ex multis, Cons. Stato, IV, 3 dicembre 2015, n. 5510).
Solo per completezza, va comunque evidenziato che il potere del giudice di ridurre l’importo della penale prevista in un contratto, ex art. 1384 Cod. civ., può essere esercitato solo se la parte obbligata al pagamento abbia allegato e provato i fatti dai quali risulta l’eccessività della penale stessa (ex multis, Cons. Stato, V, 25 luglio 2018, n. 4539), dimostrazione che non risulta però essere stata adeguatamente fornita dall’appellante, giusta l’estrema genericità dei presupposti in precedenza riportati.
8. Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va dunque respinto. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore del Comune di Modena, delle spese di lite del grado di giudizio, che liquida complessivamente in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre Iva e Cpa se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Carlo Saltelli – Presidente
Valerio Perotti – Consigliere, Estensore
Federico Di Matteo – Consigliere
Giovanni Grasso – Consigliere
Alberto Urso – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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