Consiglio di Stato, Sezione Adunanza Plenaria, Sentenza 26 ottobre 2020, n. 23.
La salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d,. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture.
Sentenza 26 ottobre 2020, n. 23
Data udienza 15 luglio 2020
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Intervento ad opponendum – Informativa antimafia – Concessione di finanziamenti pubblici – Clausola di salvaguardia – Art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – Applicabilità – Esclusione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Adunanza Plenaria
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 17 di A.P. del 2019, proposto da
Agea – Agenzia per le erogazioni in agricoltura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Azienda Agricola Of., soc agricola a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Gi. Ia., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Ufficio Territoriale del Governo Potenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
e con l’intervento di
ad opponendum:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Ci. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata (Sezione Prima) n. 00707/2018, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Azienda Agricola Of. e di Ufficio Territoriale del Governo Potenza;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 luglio 2020 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati, presenti alla discussione da remoto, l’avvocato dello Stato Lo. Vi., l’avvocato Gi. Ia., e l’avvocato Ci. Ga.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con sentenza non definitiva 23 dicembre 2019 n. 8672, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha deferito alla Adunanza Plenaria il seguente quesito:
“se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94 secondo comma del D. Lgs. n. 159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo”.
1.1. La sentenza espone che la vicenda trae origine dalla delibera della Giunta Regionale n. 1014 del 27 luglio 2012 con la quale la Regione Basilicata, nell’ambito del Bando relativo all’attuazione della Misura 121 – Pif Aglianico del Vulture, ha ritenuto finanziabile la domanda di aiuto avanzata dall’Azienda Of. s.r.l., finalizzata all’acquisto di attrezzature e macchinari per la costruzione e l’ampliamento di una cantina vinicola aziendale, per la somma di € 251.342,50.
A seguito dell’esito positivo dell’istruttoria, l’AGEA ha liquidato alla Of. s.r.l. la somma complessiva di € 248.756,99, ripartita in diverse tranches.
In previsione dell’erogazione del contributo la Regione aveva richiesto il rilascio dell’informativa antimafia in data 26 dicembre 2012 e successivamente in data 22 dicembre 2014, senza tuttavia ricevere alcuna risposta da parte della Prefettura competente.
Solo con nota prot. n. 87158 del 23 maggio 2017, la Regione Basilicata ha comunicato all’Organismo pagatore che l’azienda finanziata era stata attinta da una informativa antimafia positiva, emessa dalla Prefettura di Potenza in data 10 febbraio 2016.
Per l’effetto, in attuazione dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, l’AGEA ha adottato il provvedimento prot. n. 52438 del 21 giugno 2017, con il quale ha disposto la revoca dei contributi concessi per l’attuazione della Misura 121, intimandone la restituzione.
Con lo stesso provvedimento, l’AGEA ha altresì revocato e chiesto in restituzione i contributi erogati per la Domanda Unica, relativi alle campagne agrarie 2015 e 2016, dell’importo complessivo di € 1.014,02.
L’Azienda Of. s.r.l. è stata destinataria di tre interdittive antimafia:
– la prima del 10 febbraio 2016;
– la seconda del 25 maggio 2017;
– la terza (confermativa delle precedenti) emessa nel corso del 2018.
Le prime due interdittive sono state impugnate con distinti ricorsi, la terza con ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del secondo giudizio.
Infine, un terzo giudizio è stato instaurato avverso gli atti di revoca dei finanziamenti.
Le tre cause sono state definite dal TAR per la Basilicata, sez. I, con la sentenza n. 707/2018, con la quale sono stati rigettati i primi due ricorsi e accolto il terzo.
1.2. L’AGEA ha proposto appello avverso la sentenza ora citata, contestando l’interpretazione degli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. 159/2011 e la conseguente statuizione di illegittimità dei provvedimenti di revoca dei finanziamenti.
2. Questo Consiglio di Stato, con la sentenza parziale che ha disposto anche la rimessione all’Adunanza Plenaria, ha, in particolare:
– rigettato l’appello incidentale proposto dalla Azienda Of. s.r.l.;
– respinto le eccezioni preliminari di inammissibilità sollevate dalla parte appellata avverso l’appello dell’AGEA;
– respinto i motivi assorbiti in primo grado e riproposti dalla parte appellata.
2.1. Nell’esaminare l’appello principale, la sentenza ha ricordato che, nel corso del giudizio di primo grado, l’Azienda Agricola Of. S.r.l. ha impugnato le determinazioni di revoca dei finanziamenti relativi alla Misura 121, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:
1. i) la revoca sarebbe illegittima anzitutto per violazione dell’art. 92, d.lgs. 159/2011, in quanto AGEA non ha tenuto conto delle opere già eseguite e dei benefici collettivi prodottisi attraverso l’impiego dei contributi erogati, così disattendendo il principio, condiviso da ampia parte della giurisprudenza, secondo il quale la clausola di salvaguardia prevista dagli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2 d.lgs. 159/2011, deve ritenersi operante non solo per gli appalti di lavori pubblici ma anche per i finanziamenti pubblici destinati ad aziende private. In entrambi i casi sarebbe infatti rinvenibile quell’elemento dell’utilità pubblicistica che fonda la ratio dell’effetto conservativo avuto di mira dalla norma;
2. ii) la revoca sarebbe illegittima anche per la violazione dell’art. 7, L. 241/1990, non essendo stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento;
iii) infine, sarebbe stata resa una falsa applicazione dell’art. 92, d.lgs. 159/2011, poiché AGEA ha revocato anche contributi erogati in data antecedente all’emissione dell’informazione antimafia positiva, ed è intervenuta allorché l’opera oggetto di finanziamento (costruzione ed ampliamento di cantina aziendale per la produzione e commercializzazione dei vini) era stata compiutamente realizzata.
2.2. Il Tar Basilicata ha accolto il ricorso in relazione al primo capo di censura, così motivando:
“il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale, richiamato dall’azienda agricola ricorrente,… TAR Napoli Sez. I Sentenze n. 3237 del 13.6.2017 e n. 52 del 3.1.2018, secondo cui gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, D.Lg.vo n. 159/2011, nella parte in cui fanno “salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite ed il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, vanno applicati, oltre che alle revoche dei contratti di appalto pubblico, le cui utilità sono stabilmente acquisite dalla Pubblica Amministrazione, anche alle revoche dei finanziamenti e/o contributi pubblici, che vengono corrisposti per finalità di interesse collettivo (…)”.
A supporto della interpretazione prescelta, il Tar ha inoltre evidenziato la necessità di tenere “conto del bilanciamento tra l’interesse pubblico, di impedire l’erogazione di denaro pubblico in favore di soggetti economici privati, condizionati dall’infiltrazione mafiosa, ed il principio di affidamento, in quanto si tratta di soggetti che non sono indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata, che devono essere sanzionati per le loro condotte illecite, ma solo di persone sottoposte al rischio dell’infiltrazione mafiosa, che va prevenuta con la non futura erogazione del pubblico denaro, ma non con la restituzione di quello già speso, come, nella specie, il contributo di € 249.771,01, erogato per l’ammodernamento dell’azienda agricola ricorrente mediante l’acquisto di attrezzature e macchinari per la cantina”.
2.2.1. L’interpretazione del giudice di primo grado è stata censurata dall’attuale appellante, sia perché ritenuta contraria alla ratio della clausola di salvaguardia di cui agli artt. 92 e 94 del d.lgs. 159/2011; sia perché segnalata in evidente contrasto con la recente e più condivisibile lettura delle medesime disposizioni fornita dalla terza sezione del Consiglio di Stato, nella decisione n. 5578 del 28 settembre 2018.
Sotto il primo aspetto, l’appellante argomenta circa la necessità di valorizzare canoni di interpretazione restrittiva in tutte le ipotesi in cui vengano in rilievo disposizioni derogatorie ai principi ispiratori della normativa antimafia.
Sotto il secondo aspetto, la parte appellante evidenzia come proprio il dato letterale della clausola di salvaguardia, di cui all’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011, abbia indotto la terza sezione del Consiglio di Stato, nella già citata sentenza n. 5578/18, a farne applicazione limitata al caso della revoca del contratto, escludendo dalla portata della disposizione la diversa ipotesi della revoca del finanziamento.
Nondimeno, consapevole del fatto che una opposta soluzione interpretativa è stata proposta da altra parte della giurisprudenza (da ultimo nelle pronunce del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia n. 3 e n. 19 del 2019), l’amministrazione appellante ha avanzato istanza di deferimento del ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria, onde pervenire al risultato di una univoca interpretazione delle clausole di cui agli artt. 92 comma 3 e 94 comma 2, d.lgs. 159/2011.
2.2.2. Con un secondo motivo, svolto in via subordinata, l’appellante assume che anche un’interpretazione “estensiva” della clausola di salvaguardia imporrebbe, comunque, una verifica del fatto che le risorse concesse siano state impiegate in modo effettivamente vantaggioso per l’interesse pubblico e rispondente alle finalità sottese al programma di finanziamento; valutazione che, nel caso di specie, sarebbe stata del tutto omessa da parte del primo giudice.
La censura viene poi argomentata anche con riferimento al fatto che dalle prove in atti non si desume alcun concreto elemento dimostrativo del riconoscimento, da parte pubblica, di una tale utilità pubblicistica, e che non risulta in alcun modo provato che l’esecuzione della specifica e controversa misura di sostegno abbia fornito un qualche apporto alla realizzazione degli scopi generali che il programma di finanziamento aveva di mira.
2.2.3. Infine, con un terzo motivo, l’appellante invoca l’annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui ha annullato la revoca dei contributi relativi alla campagna 2015 – 2016, nonostante questa specifica determinazione amministrativa (pure inserita nel medesimo provvedimento controverso) risultasse del tutto estranea al petitum del ricorso intentato dalla società Of..
2.3 L’appellata Azienda Of. richiama anche nella presente sede di appello l’orientamento giurisprudenziale espresso, in contrasto con quello della Sezione III, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia con le pronunce n. 3 e 19 del 2019; e sottolinea i riflessi di utilità collettiva derivanti dal programma di investimento compiutamente realizzato con le risorse erogate in attuazione della Misura 121- Pif Aglianico Del Vulture.
3. Tanto premesso, la sentenza non definitiva, nell’argomentare le ragioni che la inducono a rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, sottolinea come, nel caso di specie:
“si tratta di definire l’ambito delle conseguenze connesse all’adozione di una informativa interdittiva in relazione alla pregressa percezione di benefìci economici di fonte pubblica che hanno incentivato un’iniziativa imprenditoriale ormai interamente realizzata.
I tratti distintivi del caso oggetto di indagine, dunque, attengono al fatto che: i) il programma finanziato è stato interamente eseguito senza che sia stato mosso alcun rilievo alla sua corretta realizzazione; ii) l’informativa interdittiva è intervenuta soltanto dopo il completamento dell’opera finanziata (si tratta dell’ipotesi di c.d. “informativa sopravvenuta”).
A tali fini, l’art. 92, co. 4 sembrerebbe giustificare sempre e comunque l’adozione del provvedimento di revoca in ragione della sola adozione dell’interdittiva e indipendentemente dai profili temporali della vicenda; il comma 3, a parziale correzione del comma 4, parrebbe connotare in termini di sostanziale “corrispettività” le poste reciproche tra privato e amministrazione, legittimando l’operatore economico attinto da informativa interdittiva ad invocare il pagamento degli importi corrispondenti alla parte del programma che sia stata concretamente realizzata, entro il limite, tuttavia, delle “utilità conseguite”.
La sentenza rileva come si pongano due opposti orientamenti giurisprudenziali.
3.1. In base a un primo orientamento (cd. estensivo), la norma innanzi richiamata dovrebbe essere intesa nel senso di consentire lo ius ritentionis da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva in tutti i casi in cui il programma beneficiato da finanziamento pubblico sia stato correttamente realizzato e quindi risulti soddisfatto, anche in via indiretta, l’interesse generale sotteso all’erogazione.
Si propone, quindi, una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di “utilità conseguite”, svincolandone il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente – come nel caso dei contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività fra l’erogazione di risorse pubbliche e l’acquisizione di utilità sotto forma di beni e servizi; ed estendendolo anche a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall’amministrazione e che, per ciò stesso, non possono che mirare al conseguimento di scopi di interesse pubblico.
Si assume, in sostanza, che poiché ogni attività della PA che importa erogazione di provvidenze economiche è finalizzata (sia pure di riflesso) a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all’esercizio del potere, la nozione di “utilità conseguite” andrebbe estesa anche a quei vantaggi generali perseguiti attraverso l’esecuzione di programmi oggetto di finanziamento o di contributo pubblico.
3.2. In base ad un secondo orientamento (cd. restrittivo), la nozione di “utilità conseguite” non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l’integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l’interesse pubblico risulterebbe essere soltanto “indiretto” (Cons. Stato, sez. III, nn. 1108 e 5578 del 2018).
In tal senso, si sottolinea la differenza che sussiste tra i rapporti contrattuali, come quelli derivanti dalla stipula di contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività sussistente fra le reciproche prestazioni; e le erogazioni di benefìci pubblici derivanti da atti unilaterali, in cui la reciprocità degli impegni e la corrispettività delle prestazioni offerte risulta certamente più attenuata.
Ed anche il termine “utilità” deve essere colto in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale, dunque, da applicarsi alle sole opere o ai soli servizi che accrescono il patrimonio dell’Amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile: dal che discende l’applicabilità della disciplina di salvezza di cui all’art. 92 comma 3 ai soli contratti di appalto nei quali la pubblica Amministrazione è parte committente.
3.3. Il Giudice remittente rileva come l’art. 92 comma 3 contenga “indici testuali e sistematici che depongono a favore della seconda delle due tesi sopra illustrate (l’orientamento restrittivo)”.
E ciò sia per argomenti di carattere semantico-testuale, sia per argomenti di tipo logico – sistematico.
Quanto ai primi:
a1) – l’elemento lessicale della “utilità conseguita”, più che alludere all’effetto conseguente alla mera esecuzione di una attività programmata, sembra rinvenire la sua specifica accezione nell’effetto positivo, residuale e incrementale, che ridonda all’esito di tale attività e si riconduce alla sfera giuridica dell’accipiens, singolarmente considerato;
a2) – di contro, è lecito ritenere che se la disposizione normativa avesse inteso premiare con lo ius retentionis un impiego delle risorse erogate conforme alla destinazione programmata, essa si sarebbe limitata a rendere testualmente questo concetto, senza introdurre la più stringente (e a questo punto surrettizia) nozione di “utilità conseguite”;
a3) – il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94 secondo comma del codice antimafia, rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli “contratti” e non anche alle autorizzazioni ed alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni (v. Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 5578 del 2018);
a4) – anche il concetto di “esecuzione” delle “opere” dal quale l’amministrazione trae “utilità”, sembra riferibile ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente compatibile con l’ipotesi di un’erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente od apparato della P.A, ma della indistinta collettività pubblica”.
Quanto ai secondi:
b1) “il comma 3 dell’art. 92… riconosce al soggetto attinto dall’informativa antimafia non già il diritto a ritenere l’erogazione nella misura corrispondente al valore dell’investimento realizzato, come sarebbe logico se la sola conformità allo scopo programmato realizzasse la “utilità” pubblica insita nel programma di finanziamento, in quanto tale meritevole di preservazione”; al contrario “ciò che il comma 3 riconosce al soggetto interdetto è, diversamente, il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento (v. Cass., sez. un, n. 28345/2008).
L’investimento realizzato “in conformità al programma” di finanziamento non coincide quindi con la “utilità conseguita”, che è nozione riferibile ad una parte specifica e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di “convenienza”, tipica dell’operatore economico-giuridico “individuale”;
b2) “l’interpretazione che considera come utilità da preservare l’investimento realizzato “in conformità al programma” di finanziamento, sottende una tacita o implicita abrogazione dell’art. 92 comma 3 (e della clausola di salvezza ivi contenuta), in quanto il mancato raggiungimento dello scopo pubblico per il quale il finanziamento viene erogato costituisce ragione di per sé sufficiente per farne discendere la revoca, senza alcuna necessità di attingere allo strumentario offerto dalla normativa antimafia (così Cons. Stato, sez. III, n. 5578/2018)”;
b3) “sul piano applicativo, lo ius retentionis appare razionalmente giustificabile nel contesto di prestazioni corrispettive, preventivamente concordate dalle parti in quanto rispondenti ai loro specifici interessi. La stabilizzazione dei relativi effetti costituisce, in siffatto contesto, una scelta di minor costo e di sicuro vantaggio rispetto a quella del ripristino dello status quo ante; ed il mantenimento delle prestazioni eseguite preserva l’equilibrio contrattuale senza che si renda necessaria alcuna restituzione.
Nell’ipotesi del contributo pubblico, al contrario, l’utilità riflessa che da tale investimento può refluire a vantaggio della collettività è in molti casi condizionata dall’ampiezza della platea dei soggetti privati che aderiscono ai programmi di finanziamento, dalla reiterazione di analoghe contribuzioni nel tempo e dalla convergente e sistematica esecuzione delle misure facenti capo ad una medesima azione strategica. Ne viene che le ricadute positive – apprezzabili ex post sotto forma di benefici generali, indiretti e di lunga durata, poiché riguardanti ampi settori della dimensione collettiva (l’ambiente, l’agricoltura, l’imprenditoria, etc..) – possono essere stimate solo attraverso parametri macroeconomici ad esse congruenti, proporzionati alla tipologia, all’estesa latitudine degli interventi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo. Si tratta di dati che inevitabilmente eccedono il singolo progetto finanziabile e rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di “utilità su scala collettiva” che lo stesso è in grado di generare”.
b4) inoltre, “anche un’interpretazione “estensiva” della clausola di salvaguardia imporrebbe, in ogni caso, una verifica in concreto del fatto che le risorse concesse siano state impiegate in modo effettivamente vantaggioso per l’interesse pubblico e rispondente alle finalità sottese al programma di finanziamento”.
3.4. Agli argomenti desumibili dall’esegesi dell’art. 92 comma 3, il Giudice remittente aggiunge ulteriori considerazioni.
3.4.1. La prima di queste attiene all’incidenza del fattore “temporale” sul carattere “precario” del beneficio erogato, che tale (cioè precario) rimane sino al definitivo compimento del programma agevolato.
“Sul punto, il più restrittivo dei due orientamenti ermeneutici sostiene che la pretesa restituzione delle somme erogate è giustificata proprio dal carattere ontologicamente “provvisorio” del beneficio erogato e dal fatto che tale provvisorietà è destinata a protrarsi sino al momento della definitiva chiusura del programma agevolato (Tar Catania, n. 2132/2017).
Il provvedimento di revoca viene infatti adottato in attuazione dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, stando al quale i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 sono corrisposti sotto “condizione risolutiva” di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento.
Poiché, quindi, i contributi risultano “concessi in via provvisoria”, l’atto cd. di “revoca” non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento, di secondo grado, adottato in autotutela dall’Amministrazione, nell’esercizio di un potere discrezionale; ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della “condizione risolutiva” afferente al contributo ancora “precario”.
Per l’effetto, risulta improprio ogni richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies L. n. 241/1990 – che riguardano rispettivamente i provvedimenti di revoca (in senso proprio) e di annullamento adottabili giustappunto nell’esercizio di un potere di autotutela; e altresì inappropriato risulta ogni riferimento al principio dell’affidamento, che mai potrebbe sorgere a fronte dell’originario provvedimento di concessione “in via provvisoria” del contributo (Tar Catania, sez. IV, n. 2132/2017). Soltanto rispetto alla produzione in via definitiva degli effetti del provvedimento di concessione e, quindi, solo al compimento di tutte le procedure di contabilizzazione e di chiusura della procedura di finanziamento, potrebbe essere invocato un effetto di “stabilizzazione” del beneficio astrattamente opponibile al potere interdittivo”.
A fronte di tali argomentazioni, “il più estensivo orientamento obietta che, anche a voler condividere l’ottica della provvisorietà del beneficio economico, tale condizione iniziale dovrebbe pur sempre avere una durata definita nel tempo, affinché “ciò che nasce provvisorio diventi il prima possibile definitivo; pena, altrimenti, l’impossibilità di qualunque previsione e di qualunque calcolo da parte di cittadini ed imprese”.
Dunque, il sopraggiungere dell’informativa negativa non potrebbe sortire effetti preclusivi nei confronti di un rapporto di durata che si sia ormai in massima parte dispiegato, raggiungendo gli obiettivi prefissati dalla stessa amministrazione.
Questa soluzione viene ritenuta particolarmente calzante al caso dei rapporti cd. “esauriti”, o che tali sarebbero dovuti essere da tempo e non lo siano divenuti per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione. Sottesa all’impostazione in esame è la preoccupazione che i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa vengano premiati e persino incentivati, andando a ledere le garanzie fondamentali delle parti private”.
3.4.2. Una seconda argomentazione riguarda la compatibilità delle diverse opzioni con quanto affermato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 3 del 2018, secondo la quale il provvedimento di c.d. “interdittiva antimafià determina, in capo al soggetto (persona fisica o giuridica) che ne è colpito, una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la pubblica amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto stesso è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
Il Giudice rimettente si chiede “se l’adesione al più estensivo dei richiamati orientamenti giurisprudenziali (che ammette la ritenzione delle somme percepite in forza di un programma di finanziamento interamente realizzato) risulti compatibile con la linea di estremo rigore che caratterizza oramai la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria, la quale riconnette all’adozione dell’informativa interdittiva una sorta di incapacità giuridica parziale a carico del soggetto che ne è colpito”.
A tal proposito, la sentenza non definitiva rileva come il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, con sentenza n. 3/2019, “pur non disattendendo in modo espresso le statuizioni rese dall’Adunanza plenaria, ne sterilizza l’effettiva incidenza, giustificando tale soluzione in ragione della peculiarità del caso di specie esaminato” e ciò in quanto i princìpi di diritto di cui alla sentenza n. 3 del 2018 (che prendono le mosse dalla ritenuta incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all’operatore attinto da un’informativa interdittiva) non potrebbero comunque valere “per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione”. Se così non fosse – si sostiene – il complessivo regime normativo in tema di comunicazioni e informazioni antimafia determinerebbe inammissibili profili di incertezza e insicurezza nei traffici giuridici; e detta incertezza si protrarrebbe di fatto sine die anche laddove – come nel caso scrutinato dalla sentenza n. 3/2019 – sia decorso un tempo rilevante e la stessa amministrazione abbia adottato nel tempo informative di carattere liberatorio nei confronti dell’operatore economico.
Sul punto, il Giudice remittente rileva una contraddizione tra la pronuncia n. 3/2018 di questa Adunanza Plenaria e la citata giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, ed afferma:
“da un lato (Adunanza Plenaria), si assume che l’adozione di un’informativa interdittiva nei confronti di un operatore determina sempre e comunque in capo allo stesso uno stato di parziale incapacità giuridica, sì da determinare “la insuscettività.. ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione”.
Da parte del giudice d’appello siciliano si osserva, di contro, che la forma di incapacità elaborata dall’Adunanza plenaria conosce taluni limiti di ordine pubblico economico come, ad esempio, quelli conseguenti all’integrale realizzazione del programma beneficiato, al lungo tempo trascorso ovvero al rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio”.
Osserva il Collegio remittente che “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa” formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Viene precisato:
1. a) “Quanto al carattere “esaurito” del rapporto giuridico, esso, come si è visto, non è predicabile nel caso in cui le risorse siano state impiegate solo in parte ovvero il programma finanziato sia ancora in corso di conclusione. Peraltro, l’eventuale “esaurimento” del rapporto, anche laddove effettivamente sussistente, non dissolverebbe ogni dubbio interpretativo, se è vero che nel ragionamento svolto dall’Adunanza Plenaria l’effetto inabilitante dell’interdittiva è tale da travolgere retroattivamente qualunque utilità promanante dalla pubblica amministrazione, persino se riconosciuta al privato con sentenza passata in giudicato (di per sé insensibile ad ogni sopravvenienza, eccettuate quelle che non si siano verificate prima della sua notifica)”
2. b) “gli argomenti di contrasto all’ipotesi di uno ius retentionis esteso anche all’erogazione di contributi pubblici paiono superabili – a giudizio di questo Collegio – solo a condizione di ampliare la portata della clausola di salvezza delle “utilità conseguite” di cui all’art. 92 comma 3, poiché in questa specifica eventualità l’eccezione al generale effetto “inabilitante” del provvedimento antimafia potrebbe giustificarsi sulla base del dettato normativo e non richiederebbe, pertanto, alcun intervento di ortopedia correttiva dei principi affermati dall’Adunanza plenaria”; ;
3. c) “una siffatta lettura estensiva appare… difficilmente coniugabile con il principio secondo il quale le disposizioni che introducono una eccezione o deroga ad un principio generale devono soggiacere ad una regola di stretta interpretazione. Nell’ambito della normativa antimafia, l’effetto inabilitante conseguente alla interdittiva è regola generale nei rapporti con la pubblica amministrazione – o come tale si connota nella lettura che ne ha reso nel 2018 l’Adunanza plenaria; mentre la salvezza prevista dall’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011 è una eccezione a tale effetto inabilitante oltre che alla regola generale della retroattività della revoca del rapporto in essere tra parte pubblica e parte privata. Ne viene che detta eccezione è apprezzabile nei ristretti e tassativi limiti delle ipotesi in essa espressamente contemplate”.
4. Sulla base di tutte le argomentazioni esposte – e rilevato il contrasto di giurisprudenza – la Sezione Terza ha deferito il ricorso in appello (per la parte non già decisa con la sentenza non definitiva) all’Adunanza Plenaria perché la stessa possa, in particolare, pronunciarsi sul seguente quesito:
“se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94 secondo comma del D. Lgs. n. 159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo”.
4.1. E’ intervenuta in giudizio la ditta individuale -OMISSIS- Domenico Antonino, che ha precisato come il proprio interesse ad intervenire ad opponendum nel presente giudizio è un interesse diretto e non correlato alla sola circostanza che lo stesso sia parte in un giudizio pendente avanti al Consiglio di giustizia amministrativa”, poiché tale Giudice, dopo avere riservato in decisione la controversia della quale la ditta -OMISSIS- è parte, “ha rimesso la causa sul ruolo motivando che vi è necessità, ai fini della decisione, di attendere la decisione” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (ord. n. 336/2020).
Infine, all’udienza pubblica di discussione, la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
5. L’Adunanza Plenaria deve, innanzi tutto, dichiarare l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum della ditta -OMISSIS-.
Quest’ultima afferma di spiegare il proprio intervento sulla base dell’art. 28, co. 2, cpa, in base al quale “chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova”.
Afferma, in particolare, di avere “certamente un interesse diretto rispetto al giudizio in cui interviene ad opponendum rispetto all’appello proposto dall’appellante AGEA atteso che il proprio giudizio… vertente sul medesimo principio di diritto… è stato rinviato per la decisione” in attesa della pronuncia di questa Adunanza Plenaria (v. pag. 3 atto di intervento del 30 giugno 2020).
Orbene, come questa Adunanza Plenaria ha già avuto modo di affermare (sentenze 27 febbraio 2019 n. 4; 30 agosto 2018 n. 13 e 4 novembre 2016 n. 23), non è sufficiente a consentire l’istanza di intervento la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio principale.
Osta, infatti, in modo radicale a tale riconoscimento l’obiettiva diversità di petitum e di causa petendi che distingue i due procedimenti, sì da non configurarsi in capo al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem.
Si è chiarito (Ad. Plen. n. 23/2016 cit.) che “laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce”.
Non a caso, del resto, in base ad un orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, Sez. IV, 30 giugno 2020 n. 4134; Sez. V, 1 aprile 2019 n. 2123; Cons. giust. amm., 1 aprile 2019 n. 301), nel processo amministrativo l’intervento, ad adiuvandum o ad opponendum, può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale.
Le considerazioni innanzi esposte non mutano per il solo fatto che il Giudice innanzi al quale pende il giudizio, in cui è parte chi (successivamente) spiega intervento innanzi all’Adunanza Plenaria, abbia ritenuto di disporre la sospensione del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui conformare la propria successiva pronuncia.
Si tratta, in questo caso, di sospensione disposta dal Giudice, ai sensi degli articoli 79, co. 1, cpa e 295 cpc., che, per un verso, è sorretta da ponderate ragioni di opportunità e, per altro verso, non incide direttamente sul thema decidendum, ma consente al medesimo Giudice di vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica. Ciò, per di più, senza che la pronuncia attesa possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 97, co. 3 cpa.
Per le ragioni esposte, l’intervento deve essere, dunque, giudicato inammissibile.
6. L’Adunanza Plenaria ritiene che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli articoli 92, co. 3, e 94, co. 2, del d. Lgs. n. 159/201 (così precisata la questione di diritto ad essa sottoposta) vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione, dunque, delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili.
Occorre precisare, preliminarmente, che la questione deferita all’esame dell’Adunanza Plenaria dalla Sezione nei seguenti termini – “se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94 secondo comma del D. Lgs. n. 159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo” – abbisogna di una diversa e più ampia formulazione.
Le disposizioni considerate prevedono, in modo sostanzialmente simile, che i soggetti di cui all’art. 83, nel caso di informazione antimafia interdittiva, “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.
Stabilire, dunque, se “il limite normativo” delle “utilità conseguite” si riferisca solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, oppure anche ai finanziamenti e contributi pubblici, così come richiede il Giudice del deferimento, presuppone innanzi tutto stabilire se la salvezza “del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente” si riferisca solo ai predetti contratti o anche ai finanziamenti.
Difatti, è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente.
In sostanza, è solo nei casi in cui si riconosce la salvezza del pagamento (“an” dell’eccezione alla revoca e al recesso) che può poi verificarsi il limite (il “quantum”) del pagamento da disporre, di modo che, sul piano logico-giuridico – e proprio per dare compiuta risposta alla questione di diritto deferita – occorre:
– in primo luogo, stabilire se la “salvezza” del pagamento, nei termini normativamente previsti, si applichi solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture ovvero anche alle concessioni di finanziamenti e contributi (essendo più propriamente questa la questione da risolvere);
– in secondo luogo, e solo in caso di esito positivo della prima verifica, occorre stabilire – al fine di definire il quantum di un pagamento già riconosciuto (salvato) nell’”an” – cosa si intenda per utilità conseguita.
Che poi quest’ultimo aspetto possa costituire argomento a sostegno della soluzione ermeneutica è fuor di dubbio, ma si tratta di argomento “di rinforzo” per una o l’altra soluzione, laddove il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria) riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico.
7. Tanto precisato in ordine alla questione sottoposta al presente giudizio, occorre ricordare che, con sentenza 6 aprile 2018 n. 3, questa Adunanza Plenaria ha già avuto modo di affermare, formulando il “principio di diritto”, che il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica in ambito pubblico, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che, sul loro cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione.
Come è stato affermato, si tratta di una incapacità prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti – in equilibrata ponderazione tra libertà di impresa e tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale (Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017 n. 565, ricordata anche da Corte cost., n. 27 marzo 2020 n. 57) – e conseguente all’adozione di un provvedimento che giunge all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale sono previste indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario.
Tale incapacità è:
– parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (di modo che può parlarsi di una sorta di “incapacità giuridica pubblica”), ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque limitatamente ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d.lgs. n. 159/2011);
– tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (e la temporaneità della misura e dunque delle sue conseguenze in termini di incapacità assume un carattere particolarmente rilevante ai fini della compatibilità costituzionale: Corte cost., n. 57/2020 cit.).
7.1. Il legislatore ha adottato, dunque, un sistema di estremo rigore, onde evitare che le pubbliche amministrazioni (o, più precisamente, i soggetti indicati all’art. 83, co. 1 e 2 del d.lgs. n. 159/2011) possano entrare in contatto con soggetti colpiti da cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67, ovvero che siano destinatari di un tentativo di infiltrazione mafiosa; e ciò al fine di evitare che tali soggetti possano condizionare le scelte e gli indirizzi delle amministrazioni pubbliche, ledendo i principi di legalità, imparzialità e buon andamento riconosciuti dall’art. 97 Cost., ovvero possano incidere sul leale e corretto svolgimento della concorrenza tra imprese ovvero ancora possano appropriarsi a qualunque titolo di risorse pubbliche (beni, danaro o altre utilità).
Di qui la costruzione della condizione del soggetto destinatario della informazione antimafia come una forma di incapacità (nei sensi innanzi descritti), il che comporta – alla luce della disciplina speciale di cui al d.lgs. n. 159/2011 – l’insuscettività di avere rapporti, in particolare patrimoniali, con la pubblica amministrazione (nei sensi e limiti innanzi precisati) e la nullità dei negozi eventualmente posti in essere – in violazione dell’interdittiva – da o con il soggetto incapace.
7.2. Tale forma di incapacità, di natura temporanea (che dura, come si è detto, fino all’adozione di un diverso provvedimento da parte dell’autorità competente), non può essere nemmeno esclusa nel caso di rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione che avrebbero dovuto essere esauriti da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla stessa pubblica amministrazione (ad esempio, un ritardo nella rendicontazione e, dunque, nell’emissione del provvedimento di definitiva attribuzione dell’ausilio finanziario, così desumendo dall’ipotesi dell’esclusione l’impossibilità del recupero di somme già erogate ovvero della mancata erogazione di somme a fronte di opere oggetto di finanziamento già eseguite dal privato).
Si è affermato (Cons. giust. amm. 4 gennaio 2019 n. 3) che, in difetto di esclusione in tali casi dell’incapacità derivante dall’interdittiva antimafia, “i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa sarebbero premiati e persino incentivati, ledendo le garanzie fondamentali delle parti private… e contribuendo a determinare un senso di incertezza ed insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici, che concorre a definire il grado di legalità di un Paese”.
Con riferimento a tali considerazioni, occorre osservare, innanzi tutto, che la interdittiva antimafia attiene ad una valutazione del soggetto in quanto tale, al di là del singolo rapporto intrattenuto con l’amministrazione pubblica, e che, ove sopravvenuta, riverbera le proprie conseguenze ab externo su tale rapporto.
Non si tratta, dunque, del riconoscimento alla pubblica amministrazione di un potere autoritativo, unilateralmente e discrezionalmente (se non liberamente) esercitato onde influire sul rapporto instaurato con il privato, bensì dell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto (per pericolo di infiltrazioni mafiose) ad essere titolare di rapporti con la pubblica amministrazione.
Benché intervenga in occasione di uno specifico rapporto con l’amministrazione, tale accertamento ha per oggetto fenomeni a questo esterni (e non afferenti al contenuto del provvedimento o del negozio giuridico), i quali coinvolgono, più in generale, la persona (fisica o giuridica) del privato, determinando una forma di incapacità del soggetto. Ne consegue che l’accertamento del fenomeno di infiltrazione mafiosa, stante la sua descritta natura, non può essere imputato (anche se eventualmente intervenuto al di là del termine previsto) di “determinare un senso di incertezza e di insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici”.
E ciò in quanto corre una evidente differenza tra l’intervento unilaterale sull’oggetto del rapporto giuridico (che potrebbe determinare, ancor di più ove non temporizzato, una “incertezza e insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici”) e la verifica della sussistenza della capacità di chi, anche di quel rapporto, è parte.
E in aggiunta a ciò va ricordato come le norme evidenzino in modo chiaro e netto la precarietà del rapporto instaurato con il privato non ancora provvisto di dichiarazione antimafia, e dunque a provvisorietà degli effetti derivanti dagli atti adottati.
Nel caso considerato, è la pubblica amministrazione a dover essere tutelata da soggetti che presentano le caratteristiche dell’infiltrazione mafiosa. Né si tratta di “premiare” o “incentivare” – per il tramite della impossibilità di adempiere le obbligazioni pecuniarie dell’amministrazione nei confronti del soggetto incapace – “i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa”, bensì di non pregiudicare l’interesse pubblico e valori costituzionalmente tutelati e riconosciuti procedendo o continuando ad attribuire o consentendo di ritenere benefici economici ad un soggetto che si è accertato essere suscettibile di infiltrazioni mafiose.
D’altra parte, come è noto, l’ordinamento prevede plurimi strumenti di tutela, amministrativa e giurisdizionale (si pensi, tra gli altri, a quanto previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990 ovvero all’azione avverso il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione, prevista dagli articoli 31 e 117 cpa), che consentono al privato in rapporto con la pubblica amministrazione di uscire dallo stato di incertezza derivante dal ritardo dell’azione amministrativa.
L’affermazione della incapacità conseguente a informativa antimafia interdittiva, nei limiti innanzi ricordati, non può incontrare, dunque, un limite costituito da quei rapporti con la pubblica amministrazione che, ancorché non esauriti, sarebbero dovuti esserlo da tempo ma che non lo sono per causa imputabile ad eventuali ritardi della stessa amministrazione.
Fermo quanto innanzi affermato, l’incapacità non può incontrare limiti di ordine pubblico economico (integrale realizzazione del programma beneficiato, lungo tempo trascorso, rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio), posto che – come condivisibilmente affermato dal Giudice remittente – “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa”, formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Limiti, dunque, che – oltre a non trovare conforto nelle previsioni normative – contribuirebbero a rendere incerte le conseguenze dell’interdittiva antimafia e, in primis, l’ambito stesso dell’incapacità nei confronti della pubblica amministrazione.
8. Da quanto esposto consegue che – a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto, lo si ribadisce, a tutela di essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: v. Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011 n. 5799), quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni.
Pertanto, l’esame ermeneutico degli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d lgs. n. 159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati – deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione.
9. In aggiunta a quanto ora esposto, occorre rilevare che gli articoli più volte citati disciplinano, di per sé, non già la situazione “ordinaria” di particolari rapporti giuridici con le pubbliche amministrazioni, bensì una situazione che costituisce già essa stessa “deroga” all’ordinario procedimento volto alla adozione di atti ovvero alla costituzione di rapporti contrattuali.
9.1. La disciplina ordinaria, infatti, prevede che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti (v. art. 91 d.lgs. n. 159/2011), da parte dei soggetti pubblici di cui all’art. 83, deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione dell’informazione antimafia.
E ciò proprio al fine di realizzare quelle finalità di tutela di valori costituzionalmente previsti, innanzi ricordate.
A fronte di ciò, tuttavia, si è prevista una disciplina (che si è definita “derogatoria”), che consente – nel caso in cui il Prefetto non abbia provveduto a comunicare l’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, co. 2, ovvero nei casi di urgenza (“lavori o forniture di somma urgenza”, come si esprime l’art. 94, co. 2) – ai soggetti pubblici di procedere anche in assenza dell’informazione.
Si tratta, in quest’ultimo caso, di un evidente bilanciamento della tutela degli interessi pubblici approntata dalla disciplina antimafia, e segnatamente da quella relativa all’informazione interdittiva, con altri interessi, anch’essi meritevoli di tutela, quali possono essere sia i differenti interessi pubblici alla immediata acquisizione di lavori o forniture o servizi (per la soddisfazione di ulteriori interessi pubblici cui questi ultimi sono destinati), sia gli stessi interessi del privato che entra in contatto con la pubblica amministrazione, il quale non può ricevere pregiudizio dal ritardo dell’azione amministrativa.
Tuttavia, nel caso della disciplina “derogatoria”, proprio perché essa consente di procedere alla instaurazione di rapporti con un privato del quale, allo stato, non si conosce la sussistenza della capacità ad avere tali rapporti con la pubblica amministrazione, viene altresì cautelativamente precisato che:
– “i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva” e i soggetti pubblici “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti” (art. 92, co. 3)
– “la revoca e il recesso… si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto” (art. 92, co. 4).
In sostanza, ciò che, in contemperamento della pluralità di esigenze connesse alla tutela di interessi pubblici e privati, viene effettuato dai soggetti di cui all’articolo 83 (rilascio di autorizzazioni o concessioni, erogazione di contributi e simili, stipulazione di contratti) avviene sotto la rigida condizione dell’accertamento della stessa capacità del soggetto privato ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, con la ovvia conseguenza che – laddove per il tramite dell’informazione antimafia interdittiva tale capacità venga accertata come insussistente – non possono che manifestarsi in termini di nullità sia i provvedimenti amministrativi rilasciati (per difetto di un elemento essenziale del medesimo, ex art. 21-septies l. n. 241/1990), sia il contratto stipulato con soggetto incapace.
Giova precisare che ciò che consegue alla interdittiva antimafia non costituice un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto per factum principis, bensì il (pur tardivo) accertamento della insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con l’amministrazione pubblica: quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti.
In questo senso, può concordarsi con quanto affermato dalla sentenza parziale che ha disposto il deferimento, laddove la stessa ritiene che “poiché i contributi risultano concessi in via provvisoria, l’atto c.d. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”.
E ciò con la sola precisazione che le disposizioni degli articoli 92 e 94 intendono affermare per il tramite del non appropriato riferimento agli istituti della “revoca” (del provvedimento) e del “recesso” (dal contratto), che l’accertamento dell’intervenuta “condizione risolutiva” altro non è che l’accertamento successivo (consentito dalla legge) dell’incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ovvero ad essere parte del contratto ad evidenza pubblica.
A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici, comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto, cui si riconnette la “precarietà” degli effetti dei medesimi, espressamente enunciata dalle norme, esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario (ma giuridicamente incapace).
Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla “precarietà” dei provvedimenti adottati o del provvedimento stipulato, l’insorgere di un “affidamento” in capo al soggetto privato.
Allo stesso modo, nelle ipotesi di contratto stipulato con la pubblica amministrazione, l’accertamento dell’incapacità comporta l’insuscettività dello stesso ad essere fonte di obbligazioni in capo alla pubblica amministrazione nei confronti del soggetto incapace.
9.2. A tale assetto degli effetti, discendente dai principi generali e dalla specifica normativa antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune “eccezioni”:
– gli articoli 92, co. 4 e 94, co. 2 (oggetto del quesito deferito a questa Adunanza Plenaria), prevedono testualmente che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”;
– l’art. 94, co. 3 dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
Si tratta, come è evidente, di norme “di eccezione” ai principi generali, rese necessarie dai “postumi” dell’applicazione di una disciplina essa stessa “derogatoria” (e dunque essa stessa “eccezionale”) rispetto all’ordinario modus procedendi imposto all’amministrazione (quella, cioè, che ha consentito di emanare i provvedimenti e/o di stipulare i contratti in assenza della tempestiva informativa antimafia).
Si tratta, dunque, di norme di strettissima interpretazione:
– sia in ossequio all’art. 14 delle cd. preleggi;
– sia in considerazione del fatto che esse, in concreto, consentono l’inverarsi di attribuzioni patrimoniali in favore di un soggetto incapace, ed altresì (a voler tacere del dirimente aspetto dell’incapacità) prive di una causa di attribuzione positivamente apprezzata dall’ordinamento (non potendo l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione essere curato e/o realizzato per il tramite di soggetti, oltre che mafiosi, anche solo esposti al rischio di infiltrazione mafiosa);
– sia, infine, perché tali attribuzioni intervengono in accertato pericolo per valori primari dell’ordinamento, costituzionalmente tutelati.
9.2.1. Nel primo caso, occorre evidenziare – necessariamente precisando, come si è innanzi anticipato (sub par. 6) l’oggetto del quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria – che la norma di eccezione riguarda la “salvezza” del pagamento delle “opere già eseguite” ovvero del “rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, mentre il riferimento “nei limiti delle utilità conseguite” riguarda il “quantum” dovuto, di modo che, intanto potrà procedersi alla verifica della “utilità conseguita” (dall’amministrazione o, più in generale, dall’interesse pubblico), in quanto si ritenga ammissibile la predetta salvezza.
9.2.2. Fermo quanto innanzi esposto sui limiti afferenti all’interpretazione della normativa in esame, occorre osservare come anche il dato letterale della disposizione si opponga ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti.
La sentenza non definitiva rileva, condivisibilmente, come il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta nelle due disposizioni in esame, “rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli contratti e non anche alle autorizzazioni e alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni”.
A ciò va aggiunto, sempre sul piano dell’esame letterale, che la locuzione “fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute” non può che essere riferita unicamente al caso di contratti per i quali, stante l’informazione antimafia interdittiva, si procede al “recesso”. La disposizione parla chiaramente di “opere già eseguite”, ovvero di “spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, con ciò facendo evidente riferimento, per il tramite dei lemmi “opere” ed “esecuzione” ai contratti di appalti di lavori.
Occorre anzi precisare che, intanto è possibile l’applicazione della norma (co. 2, che parla di pagamento di “opere già eseguite”) anche ai contratti di servizi e forniture in quanto il successivo comma 3 dell’art. 94 – nel riferirsi, al fine di escluderli, “alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente”, accomuna gli appalti di lavori (“nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione”) ai contratti di fornitura di beni e di servizi (laddove la loro prosecuzione sia “ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico” e sempre che “il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”).
Ma occorre ancora, e più risolutivamente, aggiungere a quanto esposto che sia le regole che disciplinano la stretta interpretazione delle norme eccezionali, sia la complessa natura delle attribuzioni patrimoniali riconducibili ai “finanziamenti”, escludono che la norma che dispone la possibilità di pagamenti sia riferibile anche alle “concessioni” e, dunque, a questi ultimi.
Questa Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 3/2018 (anche a conferma e rafforzamento della propria decisione n. 9/2012), ha affermato (con enunciazione del principio di diritto) in riferimento all’art. 67, co. 1, lett. g), – secondo il quale non possono erogarsi e riceversi “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” – che:
“la finalità del legislatore è, in generale, quella di evitare ogni “esborso di matrice pubblicistica” in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali. In sostanza – ed è questa la ratio della norma – il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della Pubblica Amministrazione in favore di tali soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, lett. g) del Codice delle leggi antimafia non può che essere interpretato se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A..”.
Nel caso considerato nella presente sede, l’operazione interpretativa che dovrebbe comportare l’estensione – per il tramite della presenza nel testo del riferimento alle “concessioni” – della salvezza del pagamento di quanto realizzato sulla base di finanziamenti, comporta sul piano ermeneutico un duplice passaggio estensivo dell’interpretazione:
– in primo luogo, quello di estendere la salvezza del pagamento dal caso di recesso dal contratto (in aderenza al quale è prevista nel testo la salvezza dei pagamenti) anche alle “concessioni” precedentemente citate e, come si è già detto, non collocate nel testo con immediata aderenza alla “salvezza”;
– in secondo luogo, quello di operare una interpretazione “selettiva” del termine “concessioni”, ritagliando nel più ampio ambito proprio di tale genus, quelle di esse (e solo quelle) che hanno per oggetto attribuzioni patrimoniali (contributi, finanziamenti e simili) dalle quali dipende la “esecuzione di opere”.
Si tratta, a tutta evidenza, di una operazione ermeneutica per così dire “di doppio grado”, molto lontana dai limiti propri della interpretazione delle norme eccezionali e, dunque, non consentita.
9.2.3. Le eccezioni di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 rappresentano una precisa scelta del legislatore, che si giustifica in ragione di un “bilanciamento” delle conseguenze derivanti da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia.
Se è pur vero che la stipula del contratto e la sua esecuzione sono avvenute “sub condicione”, è altrettanto vero che appare confliggente con evidenti ragioni di equità, oltre che con i princìpi dell’attribuzione causale, addossare tutto il peso delle conseguenze di ciò in capo al privato contraente, consentendo all’amministrazione, che pure ha tenuto un comportamento non coerente con le disposizioni normative (il ritardo nell’informativa antimafia) di conseguire un indebito arricchimento.
Allo stesso modo, sono ragioni evidenti di opportuno perseguimento dell’interesse pubblico – inerente all’acquisizione di un’opera ormai terminata, ovvero inerente alla prosecuzione di una fornitura o di un servizio per i quali la sostituzione del soggetto prestatore non potrebbe intervenire in tempi rapidi – quelle che sorreggono l’art. 94, co. 3, evitando in via eccezionale “revoche” e “recessi”. Ed in quest’ultimo caso, le ragioni che sorreggono la prosecuzione del contratto, proprio perché questa costituisce una forte eccezione alle normali conseguenze dell’interdittiva antimafia, devono essere rappresentate dall’amministrazione con atto congruamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore.
Nel più specifico caso di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2, la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente, deve essere commisurata “all’utilità conseguita”, intendendosi per tale l’arricchimento derivante al patrimonio dell’amministrazione.
9.3. A quanto ricavabile dal dato letterale e finora esposto, la sentenza non definitiva, con contestuale deferimento, aggiunge anche quanto desumibile dall’uso dell’espressione “utilità conseguite”, onde definire il limite cui sottoporre il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”. E ciò:
– sia sul piano dell’interpretazione letterale, sembrando l’espressione riferirsi “ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente compatibile con l’ipotesi di una erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente o apparato della P.A., ma della indistinta collettività pubblica”;
– sia sul piano logico sistematico, poiché con l’espressione “utilità conseguita” si intende riconoscere “al soggetto interdetto… il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento”.
Anche il riferimento alle “utilità conseguite” – come misura del “quantum” dovuto dall’amministrazione al privato colpito da interdittiva – contribuisce ad escludere che la norma di eccezione relativa alla salvezza dei pagamenti possa estendersi anche ai finanziamenti ed ai contributi.
L’”utilità conseguita” non corrisponde all’investimento realizzato in conformità al programma di finanziamento.
Essa “è nozione riferibile ad una parte specifica e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di convenienza, tipica dell’operatore economico-giuridico individuale”; pertanto, essa deve essere intesa in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale da applicarsi alle sole opere, servizi o forniture che accrescono il patrimonio dell’amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile.
Al contrario, nel caso del finanziamento, non può parlarsi di una “utilità” per l’amministrazione, soggettivamente intesa, ma più esattamente di un interesse pubblico che trascende la mera (sia pur completa e corretta) realizzazione del programma (che invece, ove non realizzato, comporta ex se conseguenze quali la revoca sanzionatoria del finanziamento, oltre alla possibile configurazione di un illecito penale).
Si tratta di un interesse pubblico per il perseguimento del quale il programma realizzato (e che molto spesso consiste in opere che restano in proprietà del privato) costituisce un mezzo e non un fine.
Se è vero che “ogni attività della pubblica amministrazione che importa erogazione di provvidenze economiche è (deve essere) finalizzata a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all’esercizio del potere” (in tal senso, Cgars, n. 3/2019 cit.), appare evidente come non sia possibile ricondurre alla “utilità conseguita”, presente nel testo normativo, anche più generali interessi pubblici, per i quali:
– per un verso, l’accertamento appare non rispondere (o non rispondere sempre) a parametri giuridici, bensì a parametri macroeconomici, proporzionati alla tipologia, alla estesa latitudine degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo;
– per altro verso, essi stessi prescindono da una vera e propria possibilità di “misurazione” in senso giuridico o economico, afferendo ala migliore esplicazione di diritti politici o economici, ovvero ad aspetti di sviluppo sociale o culturale (si pensi alla costruzione di una biblioteca o di un teatro di proprietà privata ma con ausili pubblici, al fine di realizzare la crescita culturale di una comunità).
D’altra parte, occorre non dimenticare che il testo normativo (del quale qui si nega l’interpretazione estensiva) prevede “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente”; ciò rende valutabile l’utilità conseguita dall’amministrazione anche attraverso un opera incompiuta – perché all’amministrazione resta un bene che comunque ne accresce il patrimonio – ma non rende altrettanto valutabile un interesse pubblico derivante da un programma finanziato ma solo in parte realizzato.
Il che comporta ulteriori “distinguo” interpretativi che rendono ancor più evidente l’impossibilità di una lettura estensiva che, già dubbia con queste modalità ermeneutiche per norme ordinarie, è da escludere per norme eccezionali.
10. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto:
“la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d,. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”.
11. L’Adunanza Plenaria dispone la restituzione del giudizio alla sezione remittente, per ogni ulteriore decisione nel merito e sulle spese ed onorari del giudizio, ivi compresi quelli inerenti alla presente fase.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria),
pronunciando sull’appello proposto da ACEA – Agenzia per le erogazioni in agricoltura (n. 4345/2019 r.g.):
– dichiara inammissibile l’intervento ad opponendum;
– enuncia il principio di diritto di cui in motivazione al punto 10;
– restituisce per il resto il giudizio alla sezione remittente.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2020 con l’intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Sergio Santoro – Presidente
Franco Frattini – Presidente
Giuseppe Severini – Presidente
Luigi Maruotti – Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Bernhard Lageder – Consigliere
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Oberdan Forlenza – Consigliere, Estensore
Giulio Veltri – Consigliere
Fabio Franconiero – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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