Consiglio di Stato, Sentenza|12 febbraio 2021| n. 1273.
La rinuncia, infatti, proviene dalla parte che in primo grado ebbe a resistere alla domanda giudiziale e si configura, perciò, come rinuncia non alla domanda, ma all’impugnazione; ne segue l’applicazione del principio, tutt’ora valido, per cui il rinunciante, se con sua insindacabile valutazione può influire sulla sorte della sua impugnazione, non può, viceversa, incidere sulla posizione di altri litiganti che, a loro volta, non rinuncino alla propria, salvo il difetto sopravvenuto dell’interesse all’impugnazione incidentale in senso proprio, il quale che sorge, per definizione, dal gravame altrui.
Sentenza|12 febbraio 2021| n. 1273
Data udienza 10 novembre 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Rinuncia proveniente dal resistente – Conseguenze procedurali – Individuazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2605 del 2011, proposto dal Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. St. Ba. e dall’avv. prof. Pa. St. Ri., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale (…);
contro
De Ca. Do. e Gi. Ce., rappresentati e difesi dagli avvocati Re. Cu. e Ri. Ru., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…);
nei confronti
Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione, in persona del curatore fallimentare, dott.ssa Ed. Se., rappresentato e difeso dagli avvocati Br. Ba. e Lu. Ma., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Seconda del 21 ottobre 2010, n. 5701, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’appello incidentale proposto dalla società Fa. S.r.l.;
Visto l’appello incidentale proposto dai sigg. Do. De Ca. e Ce. Gi.;
Visto l’atto di riassunzione del giudizio del Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco Guarracino nell’udienza pubblica del giorno 10 novembre 2020, svoltasi con modalità telematica ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, e considerati presenti, ai sensi dell’art. 4 del d.l. n. 28/2020, l’avv. Ri. Ru. per la parte appellata e l’avv. Br. Ba. per la parte intimata;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza del 21 ottobre 2010, n. 5701, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione seconda, su ricorso proposto dai sigg. Do. De Ca. e Gi. Ce. in qualità di proprietari di un immobile frontistante, annullava il permesso di costruire n. 52/08 dell’11 novembre 2008 rilasciato dal Comune di (omissis) alla società Fa. s.r.l. per assentire la costruzione, previa demolizione di una preesistente villetta unifamiliare, di un fabbricato residenziale condominiale in via (omissis), dopo che il precedente titolo edilizio (n. 104/97) era stato annullato dal T.A.R. per un vizio procedurale (l’omessa audizione della Commissione Edilizia sugli elaborati progettuali modificati) con espressa salvezza della facoltà di sanarlo con “approvazione di una variante generale all’originario progetto edilizio debitamente licenziata, in via preliminare, dalla Commissione Edilizia” (T.A.R. Veneto, sez. II, 16 aprile 2008, n. 995).
L’annullamento del nuovo titolo edilizio era disposto dal T.A.R. in accoglimento del primo motivo di ricorso, col quale i sigg. De Ca. e Ce. avevano denunciato la violazione dell’art. 22 delle N.T.A. del P.R.G. (secondo cui “nelle zone classificate dal PRG come zone “B” di completamento la costruzione e la ricostruzione di fabbricati potrà avvenire a condizione che l’altezza dell’edificio non superi quella del fabbricato più alto esistente nell’isolato”), poiché la consulenza tecnica di ufficio espletata nel corso del giudizio aveva acclarato che l’altezza dell’edificio della Fa. s.r.l. era superiore a quella massima consentita; tanto induceva il Collegio giudicante ad assorbire le ulteriori censure, ritenendo che dal loro accoglimento non potesse derivare ai ricorrenti alcuna utilità ulteriore rispetto a quella già conseguita.
La sentenza è stata appellata sia dal Comune di (omissis), in via principale, sia dalla società Fa. S.r.l., con appello incidentale improprio, per ottenere la sua riforma ed il rigetto del ricorso di primo grado.
I sigg. De Ca. e Ce. hanno resistito in giudizio riproponendo le censure assorbite dal T.A.R. ed appellando a loro volta, in via incidentale, la sentenza di primo grado per denunciarne l’erroneità della parte motiva, là dove ha escluso la rilevanza degli abbaini ai fini dell’altezza dell’edificio, e criticarne la compensazione tra le parti delle spese di lite.
A seguito della dichiarazione di fallimento della società Fa. s.r.l., il giudizio è stato ritualmente riassunto e proseguito dalla curatela del Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione.
Con atto notificato il 31 ottobre 2019, il Comune di (omissis), rappresentando di non aver più interesse alla decisione “poiché il permesso di costruire oggetto della sentenza impugnata è stato sostituito da altro titolo”, ha dichiarato di rinunciare al ricorso.
In vista dell’udienza di trattazione del 3 dicembre 2019 i sigg. De Ca. e Ce. ed il Fa. Fa. hanno prodotto memorie e repliche, formulandovi concorde istanza di riunione del presente giudizio a quello n. r.g. 1861/13, pendente tra le stesse parti e riguardante una successiva vicenda relativa al medesimo immobile (l’impugnazione del permesso di costruire del 14 giugno 2011, n. 30, rilasciato per regolarizzare l’edificio ai sensi del combinato disposto dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 2 della l.r. del Veneto n. 14/2009 sul c.d. Piano Casa).
All’udienza pubblica del 30 giugno 2020 è stato disposto un nuovo rinvio su istanza congiunta delle parti, che ne avevano fatto richiesta in vista di una possibile composizione stragiudiziale della controversia.
Infine, all’udienza pubblica del 10 novembre 2020, per la quale sono state ulteriormente prodotte memorie, repliche e note di udienza, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. – Ritiene il Collegio di non accedere alla richiesta di riunione del presente giudizio a quello n. 1861/13, ritenendo opportuno mantenere separata la trattazione degli appelli, nonostante i profili di connessione, per la diversità delle due vicende.
2. – Va dato atto della rinuncia, rituale, del Comune di (omissis) al suo ricorso d’appello, pur non sussistendo le condizioni per dichiarare estinto il giudizio.
La rinuncia, infatti, proviene dalla parte che in primo grado ebbe a resistere alla domanda giudiziale e si configura, perciò, come rinuncia non alla domanda, ma all’impugnazione; ne segue l’applicazione del principio, tutt’ora valido, per cui il rinunciante, se con sua insindacabile valutazione può influire sulla sorte della sua impugnazione, non può, viceversa, incidere sulla posizione di altri litiganti che, a loro volta, non rinuncino alla propria, salvo il difetto sopravvenuto dell’interesse all’impugnazione incidentale in senso proprio, il quale che sorge, per definizione, dal gravame altrui (C.d.S., Ad. plen., 18 luglio 1983, n. 20).
In questi termini deve restrittivamente interpretarsi l’altrimenti ampia previsione dell’art. 35, comma 2, lett. c), del codice del processo amministrativo.
Nel caso in esame la società Fa. (ora Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione) ha proposto appello incidentale improprio, mentre i sigg. De Ca. e Ce. conservano interesse alla loro impugnazione incidentale in relazione anche a quest’ultimo.
3. – Escluso in ogni caso che su di essa possa essersi formato il giudicato interno implicito, poiché il T.A.R. ha prescisso dal suo esame, l’eccezione di difetto dell’interesse a ricorrere in capo ai sigg. De Ca. e Ce., riproposta in appello, è infondata, avendo essi un interesse qualificato alla contestazione del titolo rilasciato per la realizzazione, ad una distanza di 25 metri dalla loro abitazione, di un fabbricato condominiale, in luogo di una precedente villetta unifamiliare, con conseguente aggravio del carico antropico della zona.
Per la giurisprudenza della Sezione, d’altronde, la titolarità dominicale di un fabbricato posto in immediata prossimità di quello oggetto di contestazione rappresenta fattore legittimante sufficiente per la devoluzione al sindacato giurisdizionale dell’attività edilizia da altrui intrapresa, allorché, per l’appunto, a formare oggetto di impugnativa sia un singolo intervento edilizio e non già uno strumento di pianificazione urbanistica (C.d.S., sez. II, 1° giugno 2020, n. 3440, con richiamo ai precedenti).
4. – Il ricorso tuttora pendente in primo grado contro il permesso di costruire del 20 giugno 2014, rilasciato su istanza di regolarizzazione dell’edificio presentata dalla società Fa. ex art. 38 del d.P.R. n. 380/2001, non è pregiudiziale per il presente giudizio, che riguarda un provvedimento anteriore.
5. – Può, infine, prescindersi dall’esame della contestata eccezione di improcedibilità dell’appello incidentale della società Fa. per sopravvenuta carenza d’interesse, prospettata dai sigg. De Ca. e Ce. in relazione al fatto che l’ultimo permesso di costruire del 20 giugno 2014 riguarderebbe un progetto edilizio modificato in termini sostanzialmente differenti rispetto a quanto a suo tempo assentito, poiché, nel merito, l’appello si appalesa infondato.
6. – L’appello della società Fa. è affidato a tre motivi.
Col primo motivo censura la sentenza appellata per aver accertato una maggior altezza autorizzata rispetto a quella massima consentita dalle norme di PRG sul presupposto erroneo che la linea di gronda, da assumere a riferimento per il calcolo dell’altezza, dovesse coincidere con il punto di intersezione tra il muro d’ambito e lo sporto del manto di copertura, finendo in tal modo per ricomprendere nell’altezza anche l’intero spessore del c.d. “sottosgronda”, coincidente con la parete esterna del sottotetto, e, di conseguenza, per includere nel computo nella volumetria anche parte del sottotetto medesimo, che, viceversa, andava escluso dal calcolo avendo le caratteristiche previste dall’art. 22, comma 9, delle NTA. L’errore sarebbe imputabile al C.T.U., il quale avrebbe erroneamente considerato come altezza il dislivello tra il piano di campagna (rectius dalla quota stradale) e il piano di posa del tetto (pari a ml. 9,45): viceversa, l’altezza avrebbe dovuto misurarsi al punto di intersezione tra la facciata e la quota inferiore della struttura (“sottogronda”), nel qual caso sarebbe risultata pari a m. 8,96 che, in applicazione della l.r. del Veneto n. 21/1996 (per effetto dello scomputo dei solai con spessore superiore a 30 cm. per la parte eccedente), sarebbe diventa pari a m. 8,52, cioè inferiore a quella dell’edificio di riferimento (che il C.T.U. aveva accertato pari a m. 8,75).
Col secondo motivo censura la sentenza del T.A.R. nella parte in cui avrebbe preteso di determinare l’altezza dell’edificio assumendo un criterio di misurazione estraneo alla disciplina comunale dell’epoca, scelto in maniera del tutto arbitraria dal C.T.U. per la creduta impossibilità di ricostruire la quota naturale del terreno.
Col terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 22, comma 7, N.T.A., poiché, se l’individuazione dell’edificio di riferimento non aveva presentato difficoltà o formato oggetto di contestazioni tra le parti, il giudice di primo grado avrebbe, tuttavia, erroneamente recepito e fatto propria, per l’edificio di riferimento, l’altezza di m. 8,75 indicata dal C.T.U., senza avvedersi che non era la maggiore delle altezze presenti nell’edificio di riferimento, il quale presentava un corpo arretrato che, nel punto di intersezione tra la facciata ed il solaio di copertura del piano abitabile, avrebbe generato una maggiore altezza pari a m. 9,38 (rilevata dallo stesso C.T.U., che poi, inspiegabilmente, non ne avrebbe tenuto conto). Il motivo di appello reca anche una critica all’affermazione del C.T.U., alla quale, peraltro, egli stesso non avrebbe dato seguito, per cui il raffronto tra i due edifici doveva essere condotto facendo riferimento alle rispettive altezze reali e non a quelle virtuali: la sua erroneità sarebbe dimostrata dalla possibilità di scomputo degli spessori orizzontali, per la parte eccedente i 30 cm, prevista della l.r. n. 21/1996 cit.
7. – L’appello, come poc’anzi anticipato, è infondato.
L’art. 22, comma 7, NTA prevedeva che “nelle zone classificate dal PRG come zone “B” di completamento, la costruzione e la ricostruzione di fabbricati potrà avvenire a condizione che l’altezza dell’edificio non superi quella del fabbricato più alto esistente nell’isolato”.
L’altezza andava calcolata, secondo quanto stabilito al comma 1, all’intradosso del solaio di copertura, in caso di copertura piana, altrimenti “fino alla linea orizzontale di intersezione della facciata con la gronda”.
La disposizione si applicava indipendentemente dal fatto che il punto di intersezione si collocasse più in alto o più in basso dell’intradosso del solaio di copertura (come si evince a contrario dall’art. 23, comma 1, che dettava una diversa regola “ai soli fini del volume”).
L’edificio più alto dell’isolato misurava m. 8,75 secondo il C.T.U., in sostanziale concordanza con i grafici del C.T.P. della società Fa. (cfr. pag. 36 dell’elaborato peritale).
Dalla documentazione agli atti di causa risulta che l’edificio progettato dalla società Fa. presentava una altezza di progetto indicata in m. 8,94 reali e in m. 8,58 virtuali (in virtù delle riduzioni delle componenti di altezza del fabbricato previste dalla l.r. 21/1996, come chiarito anche dal C.T.P. della ditta Fa.) misurata all’intradosso del solaio di copertura, coincidente con l’intradosso del c.d. “sottogronda” collocato sotto la proiezione esterna del tetto spiovente (cfr. dati e disegni Tav. 1 Dati stereometrici, sia del progetto originario che della DIA in prima variante).
L’altezza reale dell’edificio in corso di realizzazione è stata accertata dal C.T.U. essere pari a m. 8.96 all’intradosso del solaio di copertura e a m. 9.83 al punto d’intersezione tra la sottotrave della gronda (la copertura spiovente) e la facciata del palazzo (cfr. la “Sezione rilevata” nell’Elaborato grafico allegato alla relazione del C.T.U.).
Nel corso delle operazioni peritali, il C.T.P. della ditta Fa. (che era anche il progettista dell’edificio) ha fatto leva sull’altezza virtuale ridotta a m. 8,58 e negato che potesse parlarsi di “sottogronda”, poiché si sarebbe stati in presenza di una gronda (quale elemento architettonico sporgente dal filo esterno della muratura d’ambito) in questo caso “determinata dalla prosecuzione verso l’esterno del solaio di copertura dell’ultimo piano abitabile”.
Si tratta di un assunto motivatamente contraddetto a pagina 18 della relazione del C.T.U., che sul punto non è andato incontro a critiche (“L’esame di tali elaborati permette di rilevare che da un punto di vista strutturale il “sottogronda” è realizzato come struttura autonoma, con le medesime modalità esecutive di un poggiolo, cioè a sbalzo con appoggi ed ancoraggio sul solaio di calpestio del piano sottotetto e sui pilastri dei balconi sottostanti. Risulta peraltro riscontrabile dalla documentazione fornita che il “sottogronda”, anche se visivamente realizzato come continuazione del solaio dell’ultimo piano (in quanto posto alla medesima quota), costituisce struttura autonoma a sé stante posta in appoggio sul solaio dell’ultimo piano”).
La realizzazione del sottogronda finisce, così, per costituire un artificio per abbassare il punto di misurazione dell’altezza della costruzione al livello dell’intradosso del solaio di copertura dell’ultimo piano, pur trattandosi di edificio a copertura spiovente e non piana.
In ogni caso, resta il fatto che non è possibile mettere a raffronto termini disomogenei quali, da un parte, l’altezza reale dell’edificio di riferimento, rilevata in m. 8,75, e, dall’altra, l’altezza “legale” dell’edificio in costruzione, pari a m. 8,58, (anziché l’altezza reale di progetto pari a m. 8.94 o la sua altezza effettiva, rilevata in m. 8.96 al punto “desiderato” dalla stessa ditta Fa.), per ovvie esigenze di omogeneità degli elementi in comparazione.
Quanto, infine, alla correttezza della misurazione dell’edificio di raffronto, il fatto che il C.T.U. abbia fatto riferimento ad un’altezza di m. 8,75, anziché di m. 9,38, non è affatto inspiegabile, trovandosene le ragioni nell’elaborato peritale, allorché vi si afferma, a pagina 35 s., che “l’esame dell’ultimo piano di tale immobile permette di rilevare che lo stesso presenta altezza interna in corrispondenza dell’imposta della copertura superiore a cm 60, come peraltro riscontrabile dalla presenza di una finestra sul medesimo prospetto. Ne consegue pertanto che tale piano, costituendo porzione di fabbricato abitabile, è da assumersi per la individuazione della quota del fabbricato più alto dell’isolato. Si è quindi provveduto ad assumere la quota di intersezione tra gronda e facciata, analogamente a quanto effettuato dalla società Fa. S.r.l.”: vale a dire, il C.T.U. ha calcolato l’altezza facendo riferimento alla porzione abitabile del fabbricato ed escludendo, quindi, i vani tecnici.
A pagina 36 il C.T.U. aggiunge: “Per completezza si precisa che gli elaborati grafici della società Fa. S.r.l. riportano una quota del medesimo fabbricato di m 8,70, quindi del tutto analoga a quella rilevata dallo scrivente”. E nonostante questo passo sia stato espressamente riportato anche nella memoria difensiva dei sigg. De Ca. e Ce. del 31 ottobre 2019, la società Fa. non ha contestato la circostanza o dimostrato il contrario.
8. – Pertanto, i motivi dell’appello incidentale della società Fa. debbono essere complessivamente respinti, siccome infondati.
9. – Per effetto della rinuncia del Comune all’appello principale e del rigetto dell’appello incidentale proposto dalla società Fa. deve ritenersi cessato l’interesse dei sigg. De Ca. e Ce. alla decisione del loro appello incidentale, finalizzato alla conferma della sentenza di primo grado di accoglimento del loro ricorso.
10. – In conclusione, per tutte le ragioni sin qui esposte, occorre dare atto della rinuncia all’appello principale, respingere l’appello incidentale della società Fa., proseguito dal Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione, e dichiarare improcedibile l’appello incidentale proposto dai sigg. De Ca. e Ce..
11. – Si ravvisano nella particolarità delle questioni esaminate i presupposti per la compensazione tra le parti delle spese del presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando, dà atto della rinuncia all’appello principale, respinge l’appello incidentale proseguito dal Fa. Fa. s.r.l. in liquidazione e dichiara improcedibile l’appello incidentale proposto dai sigg. De Ca. e Ce..
Compensa le spese del presente grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2020, svoltasi in videoconferenza con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Claudio Contessa – Presidente
Giovanni Sabbato – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere
Francesco Guarracino – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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